L'autunno caldo
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L'autunno caldo

Cinquant'anni dopo

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L'autunno caldo

Cinquant'anni dopo

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«Sono passati cinquant'anni che, effettivamente, non sono pochi, ma chi ha vissuto quegli eventi non può non essere consapevole della distanza siderale che ci separa socialmente, e ancor più politicamente, da allora. L'autunno 1969 fa parte di una stagione di grandi speranze, di impressionanti potenzialità (al di là della difficoltà dei protagonisti a fronteggiare le risposte che la sfida via via determinava). Questa è una stagione di generalizzata paura, del presente e soprattutto del futuro».Torino, 3 luglio 1969, una manifestazione operaia attorno al tema della casa. In prima fila sono gli operai della Fiat di Mirafiori, il cuore pulsante del modello industriale italiano. E sono soprattutto i meridionali immigrati, rappresentanti della nuova figura dell'operaio-massa, caratterizzati in fabbrica da un trattamento salariale fortemente discriminatorio nei confronti dell'operaio specializzato, a dare battaglia in prima fila, affiancati dai quadri più politicizzati del movimento studentesco. Comincia così l'«autunno caldo», una stagione di tensioni e di lotte sindacali e politiche segnata dal carattere spontaneo della protesta, da rivendicazioni redistributive radicali e da una contestazione delle tradizionali forme di rappresentanza sindacale, cui si contrappose il modello assembleare e la rappresentanza attiva dei delegati di reparto. La scadenza del rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici fu il catalizzatore di una battaglia che segnò l'avvio di un processo di redistribuzione del reddito e la conquista di una serie di tutele e diritti fortemente innovativi e la nascita di un nuovo modello di sindacalismo unitario. Si trattò di un movimento estraneo alla logica e alla cultura dei partiti e dei sindacati tradizionali. I principali dirigenti del Pci e della Cgil rimasero sostanzialmente estranei. Alcuni furono addirittura ostili. E ai margini o tra le pieghe di quel movimento si annidarono germi pericolosi che avrebbero alimentato il terrorismo rosso negli anni successivi. A distanza di cinquant'anni indagare le conseguenze di quella stagione nella nostra storia è un utile esercizio per misurare distanze abissali e inattese persistenze. A cimentarsi in questo tentativo concorrono qui tre autori: Ada Becchi, che partecipò a quelle vicende da protagonista, come funzionario nazionale della Fiom e della Flm dal 1969 al 1977, analizza i soggetti coinvolti, affrontando anche gli intrecci con il movimento degli studenti e i fenomeni di violenza armata, che da alcune sue enclaves sono derivati, e con la strategia della tensione; Andrea Sangiovanni, storico, traccia la parabola del protagonismo operaio, inserendola nel più ampio contesto della storia italiana di quel periodo e scandagliando il retroterra sociale e culturale che la consentì e la alimentò; Marco Bentivogli, attuale segretario generale della Fim-Cisl, delinea una riflessione sul possibile ritorno a una soggettività consapevole degli operai industriali che apra delle opportunità di progresso sociale e civile per l'intera comunità, anche alla luce della grande trasformazione digitale e del suo impatto sul lavoro, le produzioni e la vita delle persone.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788855220071
Argomento
Storia

C’era una volta l’autunno caldo

di Ada Becchi

1. Prologo.

Devo confessare – è l’incipit – che considero il decennio dal 1968 in poi il più interessante e vitale della mia vita. Non ero una ragazzina nel ’68, avevo superato i trent’anni e da oltre dieci lavoravo. Avevo prestato la mia opera presso un centro di scienze sociali che faceva formazione per i dirigenti delle imprese a partecipazione statale genovesi, realizzato varie ricerche su temi socioeconomici, lavorato per il Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, collaborato con varie riviste. Ero «grande». Tra i miei amici vi erano molti intellettuali di formazione e collocazione politica diversa, anche se tutti facevano parte del variegato panorama della sinistra dell’epoca.
Il mio primo ricordo che ha a che fare con la «lotta di classe» va indietro nel tempo, risale all’inizio degli anni cinquanta e alle manifestazioni degli operai dell’Ansaldo (gli Ansaldini) contro le smobilitazioni degli impianti che avevano lavorato alle produzioni belliche. Prima avevo abitato (la guerra suggeriva di andare da sfollati fuori città, e lo sfollamento era poi durato cinque anni in più perché la casa prebellica era stata bombardata) in un paese della Riviera ligure, dove però c’era una fabbrica, un cantiere navale, le cui sirene mi svegliavano la mattina in tempo per la scuola. Insomma ero cresciuta in una società industriale, anche se sui generis nel caso del villaggio rivierasco. A Genova all’inizio degli anni cinquanta erano in costruzione le Acciaierie di Cornigliano; dalla Germania erano tornati gli impianti che vi erano stati portati durante la guerra. Proprio alle Acciaierie fu il primo lavoro dipendente, nel 1960, che però durò poco più di un anno perché nel 1961 mi trasferii a Roma.
Quando iniziarono le lotte degli studenti, non facevo parte del mondo della scuola o dell’università. Lavoravo con una numerosa équipe a Napoli, a una ricerca che doveva indicare l’area in cui era opportuno localizzare il nuovo impianto dell’Alfa Sud. E proprio a Napoli avevo stabilito rapporti importanti con i sindacati dei metalmeccanici. Ma conoscevo studenti del movimento, soprattutto tra i politicizzati, perché Roma offriva molte occasioni di incontro (in particolare per merito dei tanti circoli presenti allora). Ricordo perfettamente che la sera della «battaglia di Valle Giulia», il 1° marzo 1968, tornai tardi da Napoli e finii in un bar dalle parti di piazza del Popolo, dove c’erano parecchi che avevano partecipato agli scontri. Qualche settimana dopo nello stesso bar c’erano invece Nanni Balestrini e Letizia Paolozzi che tornavano da un tour a Parigi, e narravano ciò che avevano fatto e soprattutto visto del movimento studentesco transalpino.
Frequentavo i sindacati e i partiti di sinistra, collaboravo con le loro riviste (compresa «Quindici», la famosa rivista di Feltrinelli), ma come componente della redazione facevo parte della rivista di Dorigo, un grande esponente della sinistra cattolica, «Questitalia». Era insomma una situazione che offriva grandi opportunità.
Fu così che nella primavera del 1969 aderii alla proposta di un amico che era stato nell’ufficio studi della Fiom nazionale, ma aveva preso un anno sabatico e collaborava alla ricerca sull’Alfa Sud. Proponeva di andare al suo posto alla Fiom1. Nel luglio di quell’anno iniziai, diventando «povera» dal punto di vista del reddito, ma trovandomi così inserita in una storia straordinaria: quella che cercherò qui di raccontare. È una storia che corona e chiude il periodo in cui l’Italia si è scoperta un paese «avanzato», si è consolidata come democrazia, ma ha dovuto confrontarsi con squilibri e contraddizioni molteplici che è riuscita solo in piccola parte a risolvere. Molti attori non sono stati infatti all’altezza del ruolo che occupavano, su tutti i fronti. E spero che le osservazioni che seguono aiutino a districare questo percorso, secondo giustizia.
Vorrei infine far notare che allora per la prima volta, grazie al clima che si era determinato, poteva essere possibile che una giovane «donna», senza credenziali «di sinistra» e senza partito, fosse accolta in quello che era il più celebrato (con la Fim – ma nella Fim sarebbe stato più facile perché il partito non era «necessario») dei sindacati italiani. E accolta sul serio, tant’è che un anno dopo fui eletta nel comitato centrale.

2. L’autunno caldo.

Sono passati cinquant’anni che, effettivamente, non sono pochi, ma chi ha vissuto gli eventi di cui ora parlerò non può non essere consapevole della distanza siderale che ci separa socialmente, e ancor più politicamente, da allora. L’autunno 1969 fa parte di una stagione di grandi speranze, di impressionanti potenzialità (al di là della difficoltà dei protagonisti a fronteggiare le risposte che la sfida via via determinava). Questa è una stagione di generalizzata paura, del presente e soprattutto del futuro.
Quando si ricorda, o quando si ripercorrono i resoconti degli avvenimenti di allora, il quadro che emerge è caratterizzato da una grande effervescenza di cui i giovani – studenti, operai, intellettuali – erano i principali protagonisti, come individui e come partecipanti a movimenti collettivi. Tutto sembrava possibile e quindi conseguibile. Non è un caso che per molti l’opera che meglio ha interpretato lo spirito dell’epoca sia Vogliamo tutto di Nanni Balestrini2.
Ma vengo al dunque. L’autunno del 1969 è stato la fase alta di una stagione che non ha interessato solo l’Italia, ma ha avuto qui intensità maggiore e conseguenze più rilevanti e durature. Gli elementi comuni anche ad altre analoghe esperienze furono: il contrasto dell’autoritarismo in ciascuna delle sue molteplici forme; il rifiuto di una divisione del mondo in blocchi che alimentava sia la guerra tout court (in particolare quella del Vietnam) sia la guerra fredda; l’aspirazione a godere dei risultati del ciclo di sviluppo economico in atto da quasi vent’anni nel mondo occidentale, non solo sotto forma di una crescente disponibilità di beni di consumo, ma anche con l’acquisizione di nuovi e più estesi diritti.
La diversità italiana è derivata dal ritardo con cui il paese aveva intrapreso un consistente processo di industrializzazione, e dalle modalità che questo aveva assunto: forte concentrazione territoriale, limitata articolazione settoriale con scarsa propensione a entrare in settori a tecnologia avanzata. Da qui il maturare di squilibri e distorsioni in gran parte all’epoca già evidenti, ma la cui portata era nel complesso universalmente trascurata. Si può dire che uno sviluppo capitalistico vi era stato, ma senza che si formasse una classe dirigente capace di (o interessata a) assumere un ruolo per la trasformazione del sistema paese.
La locuzione «autunno caldo» rimanda a un fatto specifico: il rinnovo del contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici3. La vertenza era stata preceduta da un’estesa mobilitazione per il moltiplicarsi di lotte per obbiettivi generali (come la riforma delle pensioni), ma anche da conflitti specifici a livello di impresa o di area territoriale (le vertenze aziendali o le lotte per la casa). Decollò concretamente in settembre con la proclamazione degli scioperi e con la convocazione di grandi manifestazioni. La prima di queste ebbe luogo a Torino (emblematicamente, come vedremo nel seguito) il 25 settembre. L’adesione dei lavoratori risultò molto al di sopra delle previsioni: non so quanti imprenditori, ma sicuramente la Fiat, avevano deciso di mettere i lavoratori in libertà, di dare un giorno di vacanza. I responsabili dei picchetti, dislocati ai cancelli di entrata, non dovettero perciò faticare, ma non avevano molta compagnia quando i «cortei» si mossero per raggiungere piazza San Carlo. Si temeva uno smacco anche per via delle vicende che avevano preceduto l’evento (le si vedrà tra poco), ma cammin facendo si constatò che il corteo aveva preso forma e consistenza, perché moltissimi erano arrivati alla spicciolata, e continuavano ad arrivare. L’immagine simbolo della giornata resta lo sventagliare di bandiere rosse sul monumento al condottiero sabaudo collocato al centro della piazza, che era molto affollata.
Le altre due grandi manifestazioni ebbero luogo a Napoli il 16 ottobre e l’ultima, il 28 novembre, a Roma in piazza del Popolo. Il nuovo contratto con le imprese pubbliche arrivò il 9 dicembre e quello con le private il 21.
Quell’autunno fu definito «caldo» prima di tutto per le eccezionali capacità di lotta di cui i lavoratori dettero prova. Del resto, le lotte sindacali non si esaurirono con il rinnovo del contratto. Continuarono fino almeno a metà degli anni settanta. Il numero complessivo di ore perse per scioperi in un anno che aveva raggiunto i 181,7 milioni nel 1962 e i 115,8 milioni nel 1966 (i due precedenti rinnovi contrattuali)4, salì a 302,6 milioni nel 1969 e restò sopra i 100 milioni per tutti gli anni successivi fino al 19765.
Del resto, la forte combattività operaia corrispondeva a spinte al cambiamento presenti in molti ambiti della società: il movimento degli studenti, il femminismo ecc. Il movimento degli studenti aveva dato vita nel corso del 1968 a numerose iniziative, ricollegandosi a circoli intellettuali che si dedicavano alla riflessione sul cambiamento sociale e sulle conseguenti prospettive politiche, e in molti casi aveva sviluppato una reale sintonia con le rivendicazioni operaie.
Per Pizzorno6, che studiò le lotte operaie di allora, le peculiarità rispetto ad altri paesi furono: «L’estensione, la durata e l’intensità dei conflitti sono stati maggiori […]. Il comportamento sindacale è stato più disponibile all’inizio, meno capace di controllo successivamente. Numerosi altri soggetti collettivi – gruppi politici e movimenti – hanno svolto un ruolo più duraturo […]. E i mutamenti che da tutto ciò sono derivati al sistema di relazioni industriali e alla posizione dei sindacati nel sistema politico, sono stati più profondi, anche se diretti nello stesso verso».
L’autunno «caldo» fu dunque prima di tutto il dispiegarsi di una fase di intenso conflitto sindacale, che sembrava poter avere (e quindi da parte di molti si temeva avesse) conseguenze rilevanti anche per il quadro politico. Ma non viene ricordato solo come il prodromo del raggiungimento di una più equa distribuzione del reddito tra capitale e lavoro, e di un possibile cambiamento della situazione politica (che si sarebbe poi verificato in modi per lo meno contraddittori). Viene ricordato anche – anzi più spesso, soprattutto in alcune sedi7 – come la causa di un periodo di forte, e per vari aspetti violenta, destabilizzazione delle condizioni del paese che avrebbe poi portato a usare il termine «anni di piombo»8 per connotare l’intero decennio 1970.
Tratterò ora sommariamente i fenomeni che si intrecciarono con la conflittualità operaia, per dedicare poi a quest’ultima (le cause, le modalità, i risultati, le controparti) i paragrafi successivi.

3. Gli studenti, le riviste, i gruppi.

Le agitazioni studentesche del ’68 avevano dato linfa a vari gruppi, già operanti, di intellettuali, che si collocavano a sinistra nello schieramento politico, non si ricollegavano a nessun partito in particolare (anche se tra loro vi erano iscritti ai partiti, in particolare...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Preambolo di Ada Becchi
  6. C’era una volta l’autunno caldo di Ada Becchi
  7. «Gli operai hanno dato una dimostrazione»: quel che resta dell’autunno caldo di Andrea Sangiovanni
  8. Gli anni della svolta Postfazione di Marco Bentivogli