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Neorealismo e mercato cinematografico di massa
Il cinema italiano del dopoguerra
Anno 1945: Liberazione, e fine della guerra. Il cinema italiano entra in una fase di rinascita, che ha come protagonista indiscusso il neorealismo. Per alcuni anni, questo movimento esercita un’egemonia assoluta, sul piano qualitativo. Ma alla complessità delle proposte culturali e alla ricchezza dei risultati espressivi non corrisponde una penetrazione adeguata nel mercato di massa, in cui operano e ottengono successo tutt’altre tendenze. Alla spinta rinnovatrice si contrappongono forze antagonistiche, di infimo livello ma dotate di robuste radici. Considerata nel suo complesso, la produzione dell’immediato dopoguerra appare caratterizzata da due filoni antitetici: ricorrendo a una formula, potremmo dire che si fanno o film sul popolo o film per il popolo.
Da un lato, i neorealisti cercano di fare presa sulle platee portando in scena i drammi collettivi che avevano coinvolto e coinvolgevano tutti i cittadini, la gente comune, nella grande crisi storica attraversata dal paese. Dall’altro, i registi più addestrati nell’imbonimento del pubblico si preoccupano di assecondare la tendenza a distrarsi dalla realtà presente, ricorrendo ai moduli meglio collaudati dello spettacolo di consumo.
Un’osservazione è subito necessaria. Sia le opere più dichiaratamente commerciali sia quelle di maggiore dignità nascono tutte all’interno del sistema industriale, valendosi delle sue strutture di produzione, distribuzione, esercizio. La guerra aveva danneggiato gravemente questo apparato, e la disponibilità di mezzi finanziari era per tutti inadeguata: ma ciò non significa che i film non venissero realizzati secondo le leggi dell’economia libera e non fossero destinati ai normali circuiti di proiezione.
Il fatto che i neorealisti tendessero a rifiutare i teatri di posa, a vantaggio delle riprese en plein air, non è una circostanza decisiva. Maggior significato aveva, certo, la preferenza per gli attori non professionisti. Almeno in parte, si trattava di una scelta obbligata, vista l’inadeguatezza palese del ruolino di interpreti ereditato dalla cinematografia del ventennio; comunque, non c’è dubbio che, nella misura tutto sommato limitata in cui il neorealismo effettuò una politica antidivistica, entrò in contraddizione con uno dei presupposti del sistema produttivo cui pure si richiamava, e non poteva non richiamarsi.
Resta intatta la verità dell’affermazione di Carlo Lizzani, sul Contemporaneo del giugno 1961: “Non c’è un solo film del movimento neorealista(...) che non sia stato prodotto a prezzi industriali e secondo schemi produttivi normali, o addirittura di economia allegra”. E ciò vale anche nel caso delle esperienze di produzione indipendente, effettuate con il finanziamento di organismi democratici, non speculativi, come l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia o le cooperative: Il sole sorge ancora di Vergano (1946), Caccia tragica di De Santis (1947), Achtung, banditi! (1950) e Cronache di poveri amanti (1953) dello stesso Lizzani.
Va anche tenuto presente un altro ordine di considerazioni. Alla fine delle ostilità la nostra cinematografia, debilitata in tutte le sue risorse economiche e tecniche, si trovò subito a fronteggiare una concorrenza schiacciante. Al riparo delle autorità d’occupazione alleate, lo Psychological Warfare Branch invadeva il mercato con tutte le pellicole angloamericane alle quali la guerra, e prima ancora il blocco fascista delle importazioni, avevano impedito di raggiungere gli schermi italiani. Da parte loro, gli spettatori non erano affatto scontenti di tornar ad ascoltare, dopo tanta astinenza, le sempre suadenti favole hollywoodiane.
Al cinema nazionale si poneva dunque il problema urgente di creare delle alternative che, per essere davvero tali, dovevano avere dei caratteri molto diversi rispetto ai prodotti delle fabbriche di sogni d’oltreoceano. Dal punto di vista del film commerciale, ciò avvalorava la volontà di tenere buon conto delle disposizioni e abitudini precostituite nel pubblico, anche e proprio il più tradizionalista, quello della provincia, delle campagne. Per soddisfare questo impegno di popolarità a tutti i costi, su basi ideologiche arretrate e a basso quoziente estetico, i primi espedienti consistettero nel cercare l’appoggio di altre forme espressive, dotate di un ascendente sicuro: la musica, sia operistica sia canzonistica, e il romanzo d’appendice. A simili avalli si debbono le fortune di due importanti filoni, ai quali poco più tardi se ne aggiungerà un terzo, destinato a un successo ancora maggiore: la farsa cinematografica, imperniata sul divismo dell’attor comico, primo fra tutti Totò, coadiuvato dal richiamo erotico delle pin up.
La situazione però offriva possibilità feconde anche ai film rivolti ai settori più dinamici del pubblico, coinvolti attivamente nel processo di politicizzazione democratica che si esprimeva in modo organizzato nei partiti di massa, nei sindacati, nella rete associazionistica diffusa non solo nei centri urbani ma su tutto il territorio nazionale. Il blocco di forze sociali che nel clima teso della “ricostruzione” e dell’incombente guerra fredda sviluppava una battaglia generale per il progresso del paese poteva ben presentarsi come l’interlocutore privilegiato di un cinema mosso da un impegno entusiastico di rinnovamento civile.
Il gruppo di registi di varia formazione ideologica e culturale che diede vita al neorealismo si proponeva appunto di favorire una larga coscienza critica delle condizioni e contraddizioni della civiltà italiana attuale: da una parte sottoponendo a inchiesta le arretratezze e deficienze degli ordinamenti costituiti rispetto alle attese dell’opinione pubblica, se non alle richieste delle masse lavoratrici; dall’altra drammatizzando l’inadeguatezza dei comportamenti individuali, troppo poco guidati da un maturo senso dell’interesse collettivo.
I film neorealisti intendevano così esaltare al massimo un carattere di specificità nazionale, in contrasto con il linguaggio cosmopolitico di Hollywood. Nello stesso tempo, volevano avviare con le platee un dialogo che, pur esigendo una predisposizione all’ascolto, non tagliasse fuori gli strati meno qualificati di spettatori, ai quali si rivolgeva in nome d’una comune coscienza ideologica. La sorte del neorealismo si giocò sul doppio versante fra la crescita della democrazia politica, nel paese, e il volenteroso sforzo d’una democratizzazione dello spettacolo cinematografico.
La crisi del primo neorealismo
La battaglia era certamente difficile, ma l’esito non appariva già in partenza scontato: le classifiche dei film di maggiore successo sull’intero territorio nazionale, annata per annata, lo confermano. Nel 1945-46 l’elenco è introdotto da un titolo d’eccezione, Roma città aperta; lo seguono La vita ricomincia di Mario Mattoli e O sole mio di Giacomo Gentilomo, due opere di levatura modesta ma interessanti come documento delle possibilità di affermazione d’una tematica qualificata, giacché l’una affronta l’argomento reduci, l’altra parla, e canta, della Resistenza. Al settimo posto troviamo il diverso contributo all’attualità neorealistica di un regista già affermato nell’anteguerra, Un giorno nella vita di Alessandro Blasetti. Le tre posizioni precedenti e le due successive sono occupate da pellicole di netta impronta provincialistica, che fanno leva sul fattore musicale (Addio, mia bella Napoli! di Mario Bonnard, Torna... a Sorrento di Carlo Ludovico Bragaglia, Il barbiere di Siviglia di Mario Costa), oppure si rifanno ai moduli della commedia borghese d’evasione in auge nel ventennio (Abbasso la miseria di Gennaro Righelli, Pronto, chi parla? di Bragaglia).
Infine, al decimo posto un altro film riconducibile all’area neorealista, Un americano in vacanza di Luigi Zampa.
Il quadro è incerto ma, nella sua provvisorietà, non privo di aperture. Altrettanto dicasi per l’annata 1946-47, anche se vi troviamo già attestata la fortuna delle due formule che guideranno la vittoria del cinema di consumo, il film operistico e il film feuilleton. La classifica è infatti aperta, quasi a pari merito, da Rigoletto di Carmine Gallone e Genoveffa di Brabante di Primo Zeglio; poi vengono Aquila nera di Riccardo Freda, Il bandito di Alberto Lattuada, Davanti a lui tremava tutta Roma di Gallone, Vivere in pace di Zampa, Furia di Goffredo Alessandrini, Abbasso la ricchezza di Righelli, Paisà di Rossellini, Il cavaliere del sogno di Camillo Mastrocinque. Fra questi dieci titoli ne figurano tre che si richiamano direttamente all’esperienza neorealistica, firmati da Lattuada, Zampa, Rossellini; volendo, possiamo tener conto di Davanti a lui tremava tutta Roma, altro esempio di appropriazione dei motivi resistenziali in chiave popolaresco-canora.
Le cose cambiano con il 1947-48: la prima decina di successi commerciali non comprende nessuna opera che sviluppi in modo davvero significativo il discorso neorealista. In compenso, emerge la tendenza a manipolarne i motivi trasferendoli dal registro drammatico al comico. L’indicazione del resto era già stata fornita da Luigi Zampa, con i suoi film miscelati di dramma, satira e idillio. Mancava però ancora il fattore divistico: ed eccolo farsi avanti in Come persi la guerra di Carlo Borghesio, con Macario, primo posto in classifica; L’onorevol...