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NON È CIVILTÀ PER DONNE
Qualche anno fa una piccola azienda, nella provincia di Milano, ha deciso di dimezzare quasi il suo organico, licenziando solo donne. Motivazione: le donne portano a casa solo un “secondo” stipendio e, stando in famiglia, possono accudire i figli. Le lavoratrici hanno indetto uno sciopero a cui i loro colleghi maschi non hanno partecipato.
La crisi economica ha rivelato la vulnerabilità delle conquiste femminili nel campo del lavoro. Se ufficialmente sono dichiarate irrinunciabili, queste conquiste sono ancora considerate, in realtà, come concessioni adatte a epoche di prosperità, un lusso da dover sacrificare nei momenti di magra. La motivazione con cui l’azienda milanese ha difeso sbrigativamente la sua politica di discriminazione, senza perdere tempo con le ipocrisie sociali, è esemplare. Ci offre una testimonianza involontaria, ma efficace, del fatto che la stretta connessione tra l’esaltazione della donna nel suo ruolo di accuditrice dei figli e la sua definizione come figura di secondo rango sul piano del lavoro, nonostante sia a parole considerata superata, rimane dominante nella sostanza dei fatti. Il matrimonio e la maternità restano sempre una possibile (spesso ineludibile) trappola per le donne. Trappola che mette a rischio la loro realizzazione sul piano del desiderio, come soggetti socialmente produttivi e autonomi, e la completa padronanza del loro corpo femminile.
Una parte importante del disagio che attraversa, fin dalla sua nascita, la nostra civiltà, è correlata alla definizione ideologica della maternità come inclinazione femminile “istintuale”. Essere madri sarebbe un destino naturale avulso dal desiderio sessuale e dalla contrattazione con l’oggetto desiderato che fonda eroticamente il legame sociale. Euripide può ammonirci quanto vuole che la madre non può erigersi sulle rovine della donna. La sua Medea, pur coinvolgendoci con la sua intensità, resta agli occhi dei più una madre “snaturata”. Eppure l’uccisione dei figli, atto di possesso assoluto sul loro destino, non lo compie la donna desiderante, tradita dal suo uomo, ma la “madre natura”, che ne prende il posto, figura terribile che sfugge al riconoscimento dell’alterità e alla socialità del legame. L’essere naturale, pulsionale, fonte di ogni desiderio che è in noi, se non si socializza nella relazione con l’altro si rinchiude in una profonda autoreferenzialità, che ignora l’esistenza di figli, di coniugi, di madri, di padri.
La maternità è profondamente vulnerabile se il desiderio femminile non è sufficientemente riconosciuto all’interno del contratto tra la donna e l’uomo, che costituisce, al tempo stesso, la socialità e l’incontro erotico (etero e omosessuale) tra gli amanti; se la prima si trova, come Medea, esule nel luogo del secondo, ospite senza i diritti di una cittadinanza piena. È cosa fondamentale per la serenità e l’equilibrio delle cure materne che la relazione di desiderio tra i genitori sia paritaria (senza intromissioni di rapporti di potere ad essa esterni), che la qualità femminile dell’accoglienza dell’altro non venga sfruttata, mortificata. La devozione materna è frutto del desiderio per il figlio non disgiunto dal desiderio per l’uomo, che regola il primo (anche quando la persona amata non è il padre effettivo o è un’altra donna).
Le donne riescono a mantenere vivo il desiderio per l’altro e a difenderlo, perfino in condizioni sociali avverse, ma spesso le circostanze sono troppo sfavorevoli a loro. La vita è piena di madri eccessivamente devote che annettono il destino dei figli nel proprio, usandoli come loro protesi difensiva nei confronti del mondo. Oppure di madri che soccombono alla difficoltà della loro funzione, abbandonando i figli al loro destino. La sofferenza psichica che, loro malgrado, trasmettono ai figli, non sempre evolve in patologie clinicamente riconoscibili, ma si trasforma in malessere collettivo profondo, in modalità esistenziali narcisistiche, autarchiche, che interpretano in modo fobico le relazioni sociali.
Garantire alla madre il diritto di essere una donna realizzata sul piano erotico come su quello del lavoro dovrebbe essere il primo obiettivo della civiltà, piuttosto che la sacralizzazione della maternità (che la svuota di verità) o la demonizzazione di chi cade sotto il suo peso.
Madame Bovary se l’è cercata
È, forse, ancora vivo il ricordo della giovane casertana spinta al suicidio da quell’entità impersonale, e per definizione irresponsabile, chiamata “rete”. Alcuni suoi video erotici, diventati di pubblico dominio, ruppero il suo vulnerabile equilibrio psichico. Passato il clamore mediatico, che ha aggiunto abuso all’abuso, nessuno dei problemi etici che la sua morte ci ha posto è stato affrontato veramente. La “rete” è un mostro che si nutre dei propri crimini, diventando più potente.
Nel dramma di un’azione crudele, che una volta avviata (per un errore della vittima, per la volontà di un sadico o per la dabbenaggine di un cretino di massa) nulla può più fermare, diventa palese la rivalsa del “servo” inanimato sul “padrone” vanesio e arrogante. La protesi digitale fagocita il corpo vivo delle relazioni sociali. Le leggi sono inadeguate, e la globalizzazione le rende il più delle volte inapplicabili. Il nostro modo di sentire e di pensare subisce una progressiva spersonalizzazione, assestandosi in schemi collettivi omologanti, prossimi a meccanismi di difesa primitivi.
Il voyeurismo viaggia alla velocità della luce e cancella spietatamente due sentimenti strettamente associati: il pudore e la compassione. Come la psicoanalisi ha da tempo intuito, si cerca di vedere a occhi aperti (con lo sguardo del giorno) quello che si vede a occhi chiusi (con lo sguardo del sogno): la “scena primaria”, l’amplesso erotico dei genitori. Dell’incontro erotico dei genitori il lattante ha un’intima intuizione attraverso il suo legame erotico con il corpo della madre (la donna si apre, o si chiude, in modo analogo come amante e come madre). L’intuizione è l’opposto del concreto vedere, del toccare con mano: è presentimento, immaginazione.
Lo psicoanalista francese Pontalis diceva che tra la stanza dei bambini e la stanza dei genitori ci deve essere un corridoio, un luogo di passaggio e di gioco. Tra il presentimento del lattante e la sessualità adulta ci deve essere una distanza, uno spazio intermedio, in cui il giocare diventa premessa, apertura, ricognizione. Nel voyeurismo il corridoio, e, con questo, il sogno e il gioco, si cancellano: guardare è un atto concreto. Si rigetta, come intollerabile, la sfumatura tra il visibile e l’invisibile, l’incertezza della penombra.
Il visibile espelle l’invisibile; la femminilità, l’apertura all’altro perdono il loro diritto di cittadinanza. La congiunzione erotica delle differenze (oggetto di rappresentazione nella scena primaria) cede il suo posto all’ibrido, all’androgino, al “tutto in vista”. Ne fa le spese il pudore: il sentimento che difende il nostro spazio privato dall’avidità dello sguardo altrui, ma anche quello, compassionevole, con cui il nostro sguardo difende lo spazio intimo degli altri, per non saccheggiarlo e svuotarlo. Se smarriamo il pudore con cui guardiamo e ci facciamo guardare, ne risente molto la sensibilità e la profondità del nostro sguardo. Si inaridisce la nostra capacità di immaginare, sognare ciò che vediamo per guardarlo dalla giusta prospettiva e distanza, che consente di unire prossimità e lontananza, differenza e affinità. Non vediamo veramente e quindi non ci sentiamo visti.
Il sentirsi non visti può portare disperatamente a esibirsi, ma solo per allontanarsi di più da ciò che effettivamente siamo, restare prigionieri nel campo visivo privo di prospettiva di uno sguardo compulsivo, assente a se stesso. Se dentro di noi un po’ di sensibilità femminile resiste all’oblio, cadiamo in un sentimento di “vergogna di essere”, nella percezione di un’esistenza inutile e irreparabilmente svilita. Nell’atto deliberato di morire, si incontrano ancora, fugacemente, la voglia di esserci, nel palcoscenico e teatro della propria uccisione (ultima sfida alla cecità assassina), e un uscire di scena in cui il pudore ritrova la sua ragione sconfitta, mentre la “vergogna di essere” viene restituita al suo mittente collettivo.
Poco dopo la morte della giovane sfortunata, Oliviero Toscani, intervistato nella trasmissione La Zanzara su Radio 24 (15/09/2016), l’ha brutalmente attaccata: «Non voglio insultarla ma è un po’ fessa, una fessacchiotta. Viviamo di comunicazione. Non puoi fare qualcosa del genere e poi stupirti, e ammazzarti. Devi sapere che può accadere, non puoi deprimerti. Ha fatto sesso e poi l’ha mandato in giro. Le andava bene che qualcuno vedesse. Se hai fatto un video è già una cosa pubblica, non rimane solo in tuo possesso».
Queste parole riflettono una mentalità collettiva anonima, nonostante la pretesa dei suoi portavoce di darle dignità di pensiero. Il mondo va in un certo modo, si dice, dunque chi si adatta è salvo e per i disadattati non c’è scampo. Eppure in quel suo discorso votato al conformismo (la provocazione, che apparentemente sembra sfidare tale conformismo, ne è in realtà serva fidata), Toscani faceva trapelare qualche emozione. Non digeriva la morte della giovane, e le si rivolgeva come se fosse ancora in vita, rimproverandola accoratamente. Rimprovero di un padre alla figlia. Rimprovero, più in profondità, di un figlio alla madre.
Nessuno percepisce meglio dei figli la fragilità della madre. Fragilità legata alla femminilità, alla vulnerabilità della sua esposizione unilaterale: l’esposizione, senza seconde intenzioni, all’altro. La percezione della vulnerabilità materna fonda il sentimento di compassione, ma esso si trasforma in terrore, tutte le volte che la ferita potenziale si manifesta come realtà concreta, lacerazione pregressa di nuovo sanguinante. Se l’apertura alla vita diventa voragine, il figlio, sull’orlo di un crollo irreparabile, ricusa la femminilità della madre, diventa promotore di un cinismo tanto inconsapevole quanto militante. Che lei non si conceda mai: possesso illusorio di tutti, conquista reale di nessuno.
Il realismo cinico, regolatore dei nostri scambi “comunicativi”, prescrive alla donna la rinuncia alla femminilità se vuole avere un posto nel mondo: come regina androgina o come oggetto di mercimonio, ugualmente neutro sul piano erotico profondo. Sono due forme di presenza diseguali sul piano del potere, ma ugualmente rassicuranti per una società che insegue l’anestesia in profondità e l’agitazione in superficie.
Le donne sappiano: Madame Bovary se l’è cercata. Il mondo non è casa per chi esita, inciampa, finisce in balia degli eventi. Rendiamo onore ai “vincenti” e abbiamo orrore dei “perdenti”. È un bel problema che i “vincenti”, costruiti come chiusura dell’essere, negazione folle del dolore, e incapaci di vivere veramente, sono caricature, maschere dell’esistenza. I “perdenti”, falliti nell’auto-alienazione, sono più vivi.
L’orrore crea assuefazione se si riduce a effetto shockante. Lo shock è parte di una strategia comunicativa, di cui Toscani è stato protagonista: connettere una cosa perturbante con una cosa da vendere che è rassicurante. La prima è digerita rapidamente e dimenticata, ma la seconda resta nella mente. La lezione tragica è stata capovolta.
Le figure tragiche, nella letteratura come nella vita, figure paradigmatiche del dolore (non del peccato, della colpa o della stupidità), ammoniscono con il loro fallimento che non è facile essere felici e appagati (e non si deve pretenderlo come compensazione ideale alla propria frustrazione). Sono vive, e nel momento della loro caduta svelano l’inganno della divisione tra forti e deboli, tra smaliziati e fessi. Madame Bovary ha smarrito l’oggetto desiderato. Nondimeno, il suo gesto non è morto. Cerca ancora dentro di noi. Basterebbe che lo proteggessimo, un poco.
La libertà femminile e il desiderio
Nel 2009 il Parlamento ha approvato una legge a favore delle donne che stabiliva che per i reati di violenza sessuale e in presenza di gravi indizi di colpevolezza il carcere fosse l’unica misura cautelare da adottare. Equiparava in questo modo questi reati a quelli legati alla criminalità organizzata. Nel 2010 la Corte Costituzionale ha ritenuto questa norma in contrasto con la Costituzione. La Consulta intendeva difendere il principio del «minor sacrificio possibile» che deve disciplinare la restrizione di libertà personale. Rispetto al reato mafioso, il reato sessuale sarebbe «meramente individuale» e potrebbe dunque essere affrontato con misure restrittive alternative a quella del carcere. La violenza sessuale di gruppo era ritenuta esclusa dalla correzione di rotta, essendo un reato di tipo associativo.
All’inizio del 2012, la Corte di Cassazione ha dato un’interpretazione estensiva della sentenza della Consulta, allargando la sua applicabilità anche alla violenza sessuale di gruppo, perché, secondo il suo punto di vista, «presenta caratteristiche essenziali non difformi» dagli altri reati sessuali. Restando nel campo della definizione formale del reato di tipo associativo la decisione della Corte è giusta: un gruppo di stupratori non ha nulla a che fare con l’organizzazione costante nel tempo e ben radicata nel territorio di un’associazione mafiosa. Sennonché il trattamento riservato ai mafiosi non è dovuto alla forma particolare della loro organizzazione, bensì alla pericolosità sociale del loro agire. Esso si configura in un progetto eminentemente sovversivo non finalizzato alla trasgressione della legalità bensì alla sua abolizione.
Guardando la violenza sessuale secondo questa prospettiva i conti delle due Corti (Consulta e Cassazione) tuttora non tornano. Sul piano delle conseguenze sociali la violenza sessuale nei confronti delle donne è devastante perché mina alle sue basi il principio costituzionale dell’uguaglianza. Nessun uomo vive nella condizione di violenza psicologica costante in cui vive la donna: il senso di limitazione profonda della sua libertà che deriva dal fatto che il suo vestire, il muoversi in determinati orari o luoghi, il suo comportamento estroverso, aperto, la sua curiosità, la possono esporre a ricatti, assalti sessuali verbali o concreti, fino allo stupro. Si tratta di uno stato d’animo che è necessariamente messo da parte, per poter vivere, ma che inevitabilmente è sempre presente in forma latente, sempre pressante e penalizzante in modo invisibile.
Tra i motivi della diffusa violenza sessuale nei confronti delle donne, sono due a imporsi maggiormente alla nostra attenzione: la reazione al timore inconscio di castrazione che attiva la crescente affermazione femminile in campi tradizionalmente (e arbitrariamente) considerati di pertinenza maschile; l’invidia ancestrale del maschio nei confronti del godimento erotico della donna. Dire che le violenze sessuali siano, nella sostanza, individuali, e pensare che siano meno eversive nei confronti della Costituzione dell’agire mafioso è un errore. Esse maturano nell’ambito di correnti di imitazione e di complicità collettive estremamente ampie e spesso inconsce, che se mancano dell’apparato org...