Cento pagine di poesia
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Cento pagine di poesia

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Cento pagine di poesia

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Ricordato dai più come polemista e infaticabile promotore culturale, Giovanni Papini fu "inguaribilmente un poeta" secondo Borges e, secondo il Gianfranco Contini della Letteratura dell'Italia unita, scrisse le sue cose migliori in poesia: una vocazione che lungamente coltivò nel corso della sua vita. Oltre ai versi propriamente detti, il "poème en prose" e il frammento alla maniera vociana furono per lui luoghi d'ispirazione particolarmente felice, la stessa che è possibile rintracciare in questo Cento pagine di poesia, del 1915, prima e più importante raccolta di prose poetiche papiniane. Il libro, oggi poco conosciuto, divenne un punto di riferimento essenziale per la letteratura italiana del primo Novecento, influenzando intere generazioni di scrittori. In questa nuova edizione, si ripropone il testo della princeps, con l'accompagnamento di apparati che forniscono dettagli storici, interpretativi e filologici, in modo da restituire ai lettori non solo un libro di grande importanza culturale, ma anche un autore e un poeta "immeritatamente dimenticato" (ancora Borges), che qui si mostra in una veste per molti aspetti nuova e sorprendente.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788874629152
Cento pagine di poesia
Precauzione
Vogliono che sia soltanto poeta. E allora ecco un po’ di poesia.
Se sbagliarono non raglierò contro di loro. Ho in corpo, dopo tre mesi di purgazione, tutto l’evangelismo della lattuga.
Se mi scavo la buca in queste e simili credenze e fiducie — di aver sensibilità, ad esempio — non chiedo nessun rinvio di giudizio e guardo da molto lontano ogni eventuale avvocato.
Mi stuzzica l’idea — o mio cuore così civilmente limato — di restar solo coi miei peccati e squagliar finalmente nei catini delle belle lettere l’ultimo scampolo di ritrosìa.
Prendete e bevete: non ho di meglio in cantina.
Non è che prosa, a sfogliarla. E’ vino che non dà troppo di fuori a stapparlo e non bagna l’esterno circolo de’ calici. Vino da pasto, sul principio, e da trincarsi in bicchieri regolarmente cilindrici, tozzi e rozzi: roba da un diecino il pezzo. Vino toscano delle vigne di giù di qui, che non paion nulla, d’inverno, coi sarmenti strasciconi fra la terra che s’incrina all’asciutto del vento ma che a mezzo settembre rallegrano più del sole, quando si va per impoverirle.
Dopo, verso la fine, c’è un altro bere: tutto spirito, tonfo e spuma. Torbido, a chi piace il vin bianco vergine, via più gagliardo di quella sostantifica essenza che ingrandisce le parole requisite, le cose d’intorno — e perfino me stesso, a pensarci.
6 ottobre 1914.
Proprietà
uno
i miei amici
Cogli uomini non c’è da far bene. Alla mia età, col mio pessimo naturale, coi vizi che non riesco a levarmi di dosso, col gusto che c’è al giorno d’oggi per i latticini e il tabacco leggero, non mi salvo. Mi tocca a star solo.
Eppure una compagnia, ci vuole. Anche muta. Anche sorda. Anche inumana. S’è passata la stagione delle amicizie è sempre tempo buono per le conoscenze — semplici. Mi son buttato alle bestie e per ora ci sto.
Non sanfrancescherie: non sum dignus. E i lupi, anche da queste parti, non si vedon che ogni due o tre anni, ma in forma di pelli secche e accartocciate sulla schiena di un ciuco e un uomo li porta in giro accattando uova e farina. Se anche ci fossero non perderei il tempo a convertirli alla fede cristiana e all’amore per il prossimo imperciocchè se sgranocchiano qualche agnello di tanto in tanto ne mangian sempre meno, in capo all’anno, dei priori e dei pievani di montagna e di collina che li spellan da sè prima di friggerli: li ho visti co’ miei occhi.
Le bestie che mi vanno a genio non sono commestibili e neppure convertibili. Nè sono andato a cercarle nè le tengo schiave al piacer mio. (Aborrisco le caccie, le gabbie e i frati delle missioni). Son bestie semplici e selvatiche che menano vita solitaria come i più ragguardevoli filosofi di Laerzio. E i nostri rapporti son di buon vicinato senza galanterie in più.
Quassù, nell’asciutto mio orto campagnolo, dimora un bel rospo fra i teneri fusti delle vitalbe e tra i pelosi cespi dell’ortiche, proprio sotto la fratta, tra un nocciòlo e un ciliegio.
Ma la mattina presto e la sera tardi, chi lo vuole, è in una di quelle buchette che si son fatte per piantare i pomodori — sempre in quella stessa. E siccome da parecchi giorni non piove scendo nell’orto ogni mattina e ogni sera con la mezzina di rame e butto un po’ d’acqua intorno al suo covo. Il rospo non si muove neppure quando mi accosto e gode chiotto chiotto quella po’ di frescura, che gli par miracolosa. È un rospo grosso e corpulento, scuro di pelle e appena macchiettato qua e là di nero smorto e di giallo sudicio. Qualche volta mi guarda cogli occhi tondi alzati al cielo sereno e mi ringrazia col suo silenzio. Accetta il mio regalo senz’ombra di servilità e non mi ricompensa col fiato avvelenato del bene che gli fo. Vorrei che molti cristiani somigliassero a lui.
Più lontano da casa ho un altro amico. È un serpone che viene tutte le mattine, appena levato il sole, fra gli scogli dello Spicchio, sotto la croce nera che piantò Valente per l’anno santo. Non è una vipera e neppure un di que’ serpenti di razza indefinita che si trovano ne’ giardini della Bibbia o tra i piedi di Zaratustra. Nei libri lo chiaman biscia; quassù i contadini lo chiamano frustone perchè se qualcuno gli dà noia comincia a menar la coda. È un bel serpe lungo quasi un metro, coperto sopra di tante squamette nericcie e gialline con dei riflessi azzurri di madreperla e tutto bianco sotto. Ha il capo piccolo, un po’ a punta e lo muove sempre.
Tutte le volte che arrivo lassù lo trovo disteso a pochi passi sotto la croce, in un sodettino, tra i cardi color vino che fioriscono ora e l’ultime margherite che fra poco non saranno che pìppoli di zolfo. E neppur lui si muove quando mi avvicino perchè sa che non gli voglio male. E tutti due stiamo lì qualche momento a goderci il sole che sale in trionfo su dal Castagnolo e la brezza salutifera e leggera che ripulisce la pelle. Ma quando mi muovo per tornar via e il mio bastone sbatte nei sassi anche il serpente striscia curveggiando tra i cespugli dei cerri nani e sparisce giù nella carpinaia tra uno sfruscìo di frasche smosse per andare alle sue faccende. Io vado a casa dall’altra parte, e così ha termine il nostro quotidiano incontro elle ci lascia contenti l’un dell’altro. Lui non mi tenta e non mi s’avventa; io non gli tiro, come fanno su di qui, nè sassate nè bastonate. La nostra silenziosa amicizia è fondata sul rispetto.
Un altro amico sta proprio in casa con me per quanto non ce l’abbia chiamato. È uno scorpione ch’è venuto a nascondersi nel muro scortecciato del balco dove sto quasi sempre a leggere. Dev’essere uno scorpione bambino che ha lasciato da poco il buco paterno perchè, è piuttosto piccolo e timido. Non avevo mai visto uno scorpione fatto così bene: tutto di un bel nero morato, colle sue branche a golfo e ben disegnate e colla sua coda dispettosa che si rizza repentina appena sente rumore. Sembra disegnato pazientemente da un cinese coll’inchiostro di china. Dicono che nel solleone questi animali pinzano e hanno il morso cattivo ma con me s’è portato bene. Credo che si contenti di acciuffar qualche mosca e di dormire. È uno scorpione modello e mansueto, forse perchè non è cresciuto abbastanza. Si passa insieme parecchie ore e non mi ha dato mai noia. A volte sta nascosto in un crepo dell’intonaco o sotto una pietra smossa del davanzale. Un giorno l’ho trovato mezzo ristupidito dentro le pagine del Corriere della sera ma s’è riavuto subito appena l’ho scosso dal foglio. Ho avuto un bel da fare a salvarlo dalla paletta delle mie donne che lo volevan morto per forza, per paura che facesse male alle bambine. Eppure una mattina l’ho visto, svegliandomi, al muro, tra i ferri del letto, e mi aveva rispettato per tutta la notte. Suppongo volentieri che lo scorpione, come certi scrittori maledetti, valga assai più dei suoi detrattori. E fino a prova contraria lo stimo e non l’ammazzo.
Ma l’amico più allegro è la ghiandaia che ho preso l’altro giorno dalle mani poco pietose di Nello della Diomira. Con un ventino ho fatto la felicità di due esseri. La mia gaggia — in questi posti le ghiandaie le chiaman così — è giovanina, un po’ spennata, e parecchio ingorda ma fa piacere ad averla intorno. Ogni momento si sente sulla finestra o su per la scala il suo crè crè prepotente. Vuol mangiare. Apre il suo becco lungo e fa veder la bocca rossa e fonda che par fin troppo grande per un animalino così minuscolo. E quando s’imbocca apre le sue ali che son la sua bellezza — azzurre e nere al sommo — e mormora e gorgoglia rifacendo in sordina il suo verso. Ora che le ciliege son finite anche ai poggi è diventata carnivora e ingoia creste di galletti e cuori di piccioni ch’è un piacere a vederla. Ma si contenta, se non c’è altro, anche di ricotta e di pan mollo. Quando è sazia viene innanzi a salterelli, mi si mette accanto, si pulisce il becco alla tesa del mio cappello, volta la testa da una parte eppoi dall’altra e ogni tanto mi fa festa con un suo breve gorgheggio gutturale e patetico che non è più il grido aspro e bramoso della fame. Poi caccia un volo e si ferma sul noce ammirando, colle sue pupille nere e rotonde, gli assalti che i galletti dànno di già alle galline o le corse delle lucertole su per i muri del capanno.
Ma la sera, quando è buio fitto ed io non so dove sian rifugiati nè il rospo, nè il serpe, nè lo scorpione, nè la ghiandaia, — ma la sera quando comincia a esser tardi e il vento rinforza e gli ultimi mietitori son tornati a cena — ma la sera quando l’ultimo barlume d’occidente s’è spento e i grilli cominciano il loro infinito canto d’amore da tutti i campi della valle — ma la sera quando la fonte versa inutilmente il suo getto freddo e sonoro nella vasca stellata e ogni bambino ha rasciugato il pianto nel sonno — ma la sera mi ritrovo solo un’altra volta e torno verso la croce a contemplare le montagne tutte rigide e nere e ad ascoltare le invisibili macchie mormoranti dal fiume alle cime. Un amico mi rimane, che non è nè bestiale nè umano e neppur divino. In queste nottate che la luna si leva tardi o non c’è, il cielo è pieno di stelle fino agli estremi dell’orizzonte. Non ne avevo mai viste tante. Sembra che ogni sera ne vengan fuori delle nuove tanto son fitte da tutte le parti, grosse e piccine, placide e tremanti, accostate le une alle altre quasi a toccarsi eppure così stranamente solitarie. Io mi stendo sull’erba e m’inebrio con loro di spazio, di silenzio e di solitudine. E sento più che mai d’esser solo e abbandonato sulla terra come la terra è sola e abbandonata in questa lontana moltitudine dell’universo. A forza di fissare in alto mi sembra che a poco a poco le stelle si moltiplichino e si stringano assieme e che tutto il cielo non sia più che un gran velo ardente, più chiaro del giorno; un infinito fremito luminoso; un oceano tranquillo ondeggiante di lampi e di luci senza confine; un diamante unico, calmo nei suoi mille fuochi. Non sento e non vedo la terra in questo meriggio stellare nè v’è ombra di buio in questa illuminazione celeste. E se il freddo non facesse scuotere e rabbrividire questo mio corpo forcuto vorrei aspettar lì quella vera notte ch’è l’alba.
due
la mia donna
Sei venuta dai monti epperò eri bianca e fresca come l’ultima neve di marzo.
Sei venuta dalle macchie e le tue labbra eran dolci e rosse come le fragole nascoste sotto l’erba.
Sei venuta dalle pasture e la tua carne era odorosa come i fiori selvatici che scelgon le capre.
Sei venuta dalle pecore e il tuo cuore tremava sotto la camicetta come quello degli agnelli sotto la lana.
Sei venuta dalle fonti fredde e dai fossi chiari e il tuo riso pareva uno scroscio di trilli.
Sei venuta dai boschi pieni di nidi e il tuo canto somigliava all’allegrezza mattiniera del merlo.
Sei venuta dal paese dei cerri e delle noci e la tua persona era dritta come un fusto e le tue poppe eran sode al par dei malli.
Tu eri la salute ed io la malattia e perciò t’ho desiderata.
Tu eri la gioia ed io la tristezza e per questo t’ho voluta.
Tu eri la gioventù ed io la vecchiaia e allora t’ho presa a forza con me.
Tu eri la bellezza ed io la bruttezza e perciò t’ho afferrata per sempre.
Io sono ora — dopo tanti anni dal primo sguardo — più sano, più allegro, più giovane, più bello di prima.
Tu sei ora meno sana meno allegra meno g...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il libro
  3. Collana
  4. Frontespizio
  5. Colophon
  6. Introduzione
  7. Nota al testo
  8. Cento pagine di poesia
  9. Profilo del curatore
  10. Note azzurre