1.
GLI ORARI DEI PASTI BEL XVIII SECOLO
L’orario settecentesco prevedeva sul continente una colazione al mattino appena svegli, che nella lingua internazionale delle classi elevate era chiamata déjeuner; un pranzo molto abbondante, o dîner, fra mezzogiorno e le due; una cena più leggera (souper) in serata. Questi orari sembrano essere stati condivisi ovunque: Goldoni, a Pisa, nel 1747, se era costretto a ritardare il pranzo fino alle due, trovava che era «troppo tardi per andare a mangiare da qualcuno dei miei amici», e mandava a ordinare il pranzo all’albergo. Trasferitosi nel 1762 a Parigi, dove rimase trent’anni, scoprì che lì le consuetudini non erano così rigide, e che l’ora normale in cui la corte e la buona società andavano a tavola erano proprio le due. Ma lontano da Parigi e in contesti informali anche la bonne compagnie pranzava prima, a mezzogiorno o all’una. Nelle memorie del conte Dufort de Cheverny, morto nel 1802, si ricordano gli orari osservati dal duca di Choiseul e dai suoi ospiti in campagna nei primi anni del 1770:
On faisait un déjeuner, on dînait à midi et l’on se quittait à quatre heures pour se réunir dans le salon à huit heures… Le souper était bon et solide, sans magnificence; on se mettait à table à neuf heures, on en sortait à dix.
Nel 1764 Boswell, nel corso del suo Grand Tour, riesce a farsi invitare a pranzo da Rousseau, e il grand’uomo lo invita a venire a mezzogiorno, in modo da avere il tempo di chiacchierare un po’ prima di sedersi a tavola, ma alle due e mezza il pranzo è comunque finito. Come si sarà notato, questi orari sono abbastanza simili a quelli in uso oggi in paesi come l’Italia o la Francia, ma chi ne concludesse che da allora ad oggi non si sia verificato nessun mutamento sbaglierebbe di grosso. Come un treno che accumula ventiquattr’ore di ritardo finisce per essere di nuovo in orario, così gli orari dei pasti hanno subito uno slittamento così accentuato fra la Rivoluzione Francese e la Prima Guerra Mondiale da ricollocarsi, alla fine, sulle stesse posizioni. Ma è rimasta una differenza linguistica ad avvertirci che nel frattempo è successo qualcosa: in francese, oggi – almeno nel francese ufficiale, che poi è quello di Parigi –, il pasto di mezzogiorno è chiamato déjeuner, mentre dîner è riservato al pasto della sera. Uno dei primi casi di questo nuovo uso è in una lettera di Madame du Deffand, del 1772, che racconta, proprio come Dufort de Cheverny, un soggiorno in campagna dal duca di Choiseul, ma dice «on déjeune» dove l’altro diceva «on dînait» – al di là del fatto che le ore da lei indicate sono probabilmente più corrette di quelle segnalate da Dufort, dato che qui si tratta di una lettera coeva ai fatti e non di reminiscenze:
on déjeune à une heure, y va qui veut; on reste après dans le salon tant et si peu qu’on veut; sur les cinq ou six heures, chasse ou promenade; on soupe à huit heures, et l’on se couche à toutes sortes d’heures.
Questa sostituzione di parole è l’indizio di un mutamento di abitudini che all’epoca cominciava appena a delinearsi, ma che si sarebbe manifestato in pieno entro la fine del secolo.
Per introdurre il tema, occorre innanzitutto osservare che in Inghilterra l’aristocrazia pranzava più tardi. Nel Journal di Swift, che si trovava a Londra negli ultimi anni della regina Anna, sono registrati inviti a pranzo da diversi ministri, ora alle tre, ora alle quattro. Nel 1735, un’ordinanza di corte segnala le tre come «the usual time of his Majesty’s retiring to go to dinner». Nel Joseph Andrews di Fielding (1742) un personaggio, che descrive la propria giornata come tipica dell’uomo alla moda, annota: «4 to 6 – dined». È vero che nel 1764 lord Holland invitava un amico a pranzo avvertendo: «We dine exactly at two»; ma altri lord pranzavano alle tre o alle quattro, e l’invito probabilmente è così preciso proprio perché l’orario è insolito.
Nel pranzare così tardi, l’aristocrazia inglese anticipava l’evoluzione che investirà in seguito il continente; il che lascia pensare che il mutamento sia stato anche un frutto dell’anglofilia che proprio allora cominciava a diffondersi fra le classi elevate europee. L’Inghilterra settecentesca appare all’avanguardia anche da un altro punto di vista: l’introduzione di un contrasto negli orari dei pasti fra la società fashionable e tutto il resto della popolazione. Nel suo poema satirico The Progress of Marriage Swift descrive le tribolazioni di un anziano ecclesiastico che ha fatto la sciocchezza di sposare la figlia di un lord, e deve abituarsi agli orari di lei, che «sits down for dinner just at four», quando ormai «the Dean, who used to dine at one / is mawkish, and his stomach’s gone». Affiora qui anche un altro tratto che caratterizzerà il mutamento di fine secolo, e cioè la consapevolezza che gli orari dei pasti possono essere una scelta voluta e caricarsi di implicazioni sociali. Quando si trovano sul continente, comunque, anche i britannici seguono orari più mattinieri: nel 1764 Richard Boswell, durante il suo Grand Tour in Germania e Svizzera, pranza intorno a mezzogiorno-l’una e cena alle otto.
2.
IL PASTO DI MEZZOGIORNO, O IL PASTO PIÙ IMPORTANTE?
Il nome di un pasto può essere legato sia al suo orario, sia alla sua consistenza. Oggi nella coscienza dei parlanti sembrerebbe prevalere decisamente l’orario: conversando con due storici inglesi, entrambi mi hanno confermato che per loro un pasto consumato all’una non può che chiamarsi lunch, anche se è formale e prolungato. Nel XVIII e XIX secolo termini come dîner, dinner e pranzo portano invece con sé la connotazione, molto forte, di pasto principale della giornata. Bisogna tener conto che all’epoca chi poteva permetterselo mangiava, e beveva, enormemente di più di quanto non si usi oggi; ma il soprappiù era quasi tutto concentrato nel pranzo, che non comprendeva mai, neppure nella piccola borghesia, meno di quattro o cinque piatti, di cui almeno due di carne. Chi desiderasse una conferma può andare a vedere i menu («Note di pranzi») con cui Pellegrino Artusi conclude la sua Scienza in cucina (1891); si tratta, beninteso, di pranzi con invitati, ma chiariscono comunque quali fossero le abitudini della borghesia – i piatti di carne, in ciascuno di questi menu, sono almeno tre se non quattro, un lesso, un umido, un fritto e un arrosto. E non si trattava della prassi di una ristretta élite, giacché l’autore, nella prefazione alla quindicesima edizione, si vanta di aver già venduto 58.000 copie del suo libro.
L’idea che ci fosse un pasto nettamente più importante degli altri spiega come mai molti avessero addirittura l’abitudine di non cenare affatto. Federico il Grande, che pranzava «alle dodici precise», in tarda età aveva smesso di cenare, anche se non di invitare a cena: quando gli ospiti, alle dieci, si mettevano a tavola, lui si ritirava e andava a letto. Kant, secondo De Quincey, si alzava al mattino presto, prendeva diverse tazze di té e lavorava senza mangiare nulla fino al pranzo, che cominciava all’una e quando c’erano ospiti poteva durare anche fino alle quattro o alle cinque; il filosofo poi andava a letto presto e non cenava più. Secondo il suo segretario, Buffon pranzava alle due e «c’était son seul repas» (ma in una lettera del 1776 lo scienziato invita a pranzo un conoscente «à midi ou midi et demi»). Lo stesso Goldoni, a Parigi, intorno al 1787, trova normalissimo incentrare la giornata su un unico vero pasto:
M’alzo alle nove della mattina, fo colazione con ottima cioccolata… Lavoro fino a mezzogiorno, passeggio fino alle due… Desino spesso fuori… Dopo pranzo non mi piace lavorare né passeggiare. A volte vo al teatro, e più spesso faccio la partita fino alle nove di sera; rientro però a casa prima delle dieci, e prendo due o tre cioccolatini con un bicchier di vino annacquato: questa è la mia cena.
Spostandoci a oriente di qualche migliaio di chilometri, anche il protagonista dei Fatti d’altri tempi nel distretto di Pošechon’je di Saltykov-Ščedrin, Vasilij Porfiryč, che nella provincia russa intorno al 1820 continua a vivere come ai vecchi tempi, «mangia una sola volta al giorno ed esige che il pasto sia servito alle due precise».
Quella di non cenare è, beninteso, un’abitudine individuale: fino ai primi anni dell’Ottocento nella letteratura e nei diari la cena è menzionata quasi altrettanto spesso del pranzo; è però sempre evidente che si tratta d’un pasto meno sostanzioso. Perciò lo spostamento degli orari del pranzo, di cui parleremo, non va confuso con un semplice mutamento nella terminologia, ma comporta una diversa collocazione oraria del pasto più importante, intorno a cui tutta la giornata si articola, e con essa la stessa percezione del tempo: espressioni come «l’après-dîné» o «nel dopopranzo» erano comunemente usate per dire «nel pomeriggio».