Bajkonur, Terra
eBook - ePub

Bajkonur, Terra

Il deserto a un passo dal cosmo. Storia di una missione spaziale

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Bajkonur, Terra

Il deserto a un passo dal cosmo. Storia di una missione spaziale

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

"Ogni cosa punta verso il cielo. I sogni e le paure, i dolori e le gioie. Per quanto la Terra ci attragga non c'è essere umano che non abbia pensato, almeno una volta, a cosa succede sopra la nostra testa. Chi vive in quel continente sterminato che chiamiamo universo? Cosa accade nell'oscurità dello spazio? Sarà lì che un giorno costruiremo le nostre case? Domande che sembravano destinate a vivere solo nelle speculazioni dei filosofi e nelle fantasie degli artisti. Fino a quando, un giorno, nel luogo più inospitale del pianeta, il nostro sogno ha iniziato a prendere forma.Questo viaggio inizia in una terra che per secoli solo pochi mercanti hanno avuto il coraggio di attraversare, con timore, a cavallo o in groppa a un cammello; un oceano di erba secca, sabbia e detriti, troppo arido per costruirci qualcosa, troppo povero per essere conteso da qualcuno: è il deserto del Kazakistan, il luogo dimenticato da Dio che l'essere umano ha fatto diventare il suo trampolino di lancio per l'eternità. Nel 1953, infatti, un pezzo senza nome di quel deserto, sulle rive del fiume Syr Darya, venne invaso da un manipolo di alieni, di cui tutti avevano sentito parlare, ma che nessuno aveva mai visto: i russi. Furono loro a intravedere in quell'arsura, lontana da tutto ma vicina al cielo, il luogo più adatto a ospitare la «città delle stelle», il primo passo verso una straordinaria corsa allo spazio.Bajkonur, Terra – esordio letterario di Eliseo Acanfora, sceneggiatore dell'omonimo film documentario presentato al Vancouver International Film Festival e realizzato dal Saggiatore in partnership con Rai Cinema, Lux e The Piranesi Experience – racconta questa storia, fotografa i luoghi proibiti, dà voce agli abitanti del posto. Una narrazione costruita per tempeste di sabbia, bandiere sovietiche, reliquie di scienziati, immagini marziane e ultrasuoni, attraverso i quali l'autore immortala la più antica e argonautica delle ambizioni: conquistare l'universo, rendere abitabile l'infinito."

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Bajkonur, Terra di Eliseo Acanfora in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Scienze biologiche e Scienza generale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788865767498
1. La piccola tempesta
Sospinta dal vento, aveva percorso chissà quanti chilometri sopra le lande del deserto profondo prima che qualcuno potesse notarla. Lungo il tragitto aveva aggregato molti detriti sabbiosi che stazionavano a mezz’aria poco sopra il suolo, consolidandosi ulteriormente e raggiungendo una densità tale da mantenere inalterata la massa per centinaia di chilometri.
Una nuvola di sabbia di questo tipo è un fenomeno molto raro: incute un sentimento di curiosità e di timore, ma quest’ultimo non si tramuta nella paura che si proverebbe davanti a una grande tempesta di sabbia. Inoltre, per potersi formare, deve nascere in un luogo preciso dove la sabbia sia pregna di una cospicua quantità di pulviscolo di quarzo capace di donarle un insolito colore rosa elettrico, violento, contrastante.
È questa la prima immagine che ci si trova davanti sulla strada per Bajkonur.
Nei suoi movimenti la nuvola si esibisce in vortici e piroette lente e oniriche, per giungere lì dove ci sia almeno un essere umano in grado di osservarla e di testimoniarne l’esistenza, prima di estinguersi di nuovo, dissolta, riconfusa col suolo, avvitata nell’ultima giravolta, un attimo prima di tramutarsi in semplice sabbia sporca.
A chi la guarda da terra potrebbe regalare un’ispirazione, un’emozione, la meravigliosa stretta allo stomaco che inesorabilmente provoca un evento che sappiamo irripetibile. Il prezzo da pagare per questo miracoloso dono è uno shock da abbagliamento molto doloroso nel momento in cui decidiamo finalmente di volgere lo sguardo altrove.
La nuvola di sabbia rosa si è appesantita durante il tragitto, solca il terreno piatto avvolgendosi su sé stessa, e da una modesta altura si nota come il suo andamento sia simile a quello di un gigantesco animale che incede solitario e decrepito in cerca di nutrimento, in un deserto privo di vita e privo di altri suoi simili.
Potrebbe essere un insetto-mammifero o un mammifero-insetto, ameba e anemone di mare, e vista la stazza dovrebbe nutrirsi di interi branchi di elefanti per sopravvivere. Fortunatamente l’unica vera fonte di nutrimento per la nuvola altro non è che la luce: più si avvicina il crepuscolo, più rinvigorisce il suo caratteristico colore rosa e definisce i suoi lineamenti, le sue spirali interne, le sue esalazioni variabili. Diventa un bagliore di lucentezza abbacinante, una scintilla che precede il buio. Come un sogno a occhi aperti impone immagini mentali di breve durata, allucinazioni frammentate, voli emozionali a bassa quota che si distaccano dal terreno per ricaderci pressoché all’istante, talora dolcemente, altre volte in modo brusco.
Sono le sette di una sera di maggio e il timido mostro rosa, dopo essersi manifestato a pochi ma significativi sguardi attoniti, si dispone a spegnersi per sempre. Calata la notte si perderà nel buio, il suo colore scomparirà nel blu circostante, per concedersi un ultimo sussulto di rosa nell’eventualità che transiti sotto un lampione. Poi, niente più. Al mattino la nuvola si sarà già dissolta e della sua straordinarietà non rimarrà nulla.
Ogni nuvola sul deserto è foriera, oltre che della normale carica elettrostatica, anche di una malinconica avvisaglia. Sarà l’ultima che chi passa di lì per caso potrà vedere per mesi, forse anni.
Si tratta di un miracolo senza altro scopo che la meraviglia. La forma e il portamento delle nuvole del deserto non sono di alcun aiuto: nessuna è capace di portare la pioggia. Sono nuvole deboli, nuvole beta, troppo in alto per ascoltare le litanie di un’improvvisata danza della pioggia laica, troppo piccole per sperare di schermare il sole e consolare, anche solo brevemente, un viso affranto, pietrificato e arso tanto dal cielo quanto dalla rifrazione dei raggi che si infrangono sulla sabbia grigio-giallastra.
Poiché in loro è raro trovare conforto, è più comune scorgervi un fascino, specchiarsi nel riflesso della loro forma siano esse nuvole acquee, nuvole di sabbia o nuvole di plastica…
È in questa prodigiosa forma che inizia il nostro viaggio.
2. Sposalizio
Si alzano verso il cielo circa duecento palloncini bianchi. Si librano in volo verso il blu che sovrasta il deserto del Kizilkum, sopra il paesino di Tyuratam, istmo geopolitico kazako tra la città di Bajkonur e l’omonimo cosmodromo appartenenti alla Russia. Placidi e silenziosi si involano verso l’atmosfera, in un gruppo compatto che si dilata e inizia subito a sfaldarsi appena trafitto dalla prima timida folata di vento. Quando ognuno di loro ha trovato un proprio percorso continua la strada da sé; quelli più gonfi di elio sfrecciano verso l’alto, gli altri iniziano a faticare o già a rantolare verso il suolo. Da lontano appaiono come una nuvola artificiale creata per donare un’anima terrena a quel cielo inclemente, inflessibile nel presentarsi con un’unica tinta che alle tre del pomeriggio non sfuma nemmeno ai limiti dell’orizzonte.
Un altro refolo si alza dal terreno facendo vorticare la sabbia per pochi istanti, e già a circa cento metri di altezza anche i palloncini cominciano a volteggiare creando spirali che li allontanano sempre più l’uno dall’altro; a quel punto ogni singolo palloncino è solo e riconoscibile; separati irrimediabilmente gli uni dagli altri, non si sfioreranno mai più tra loro. Da lì in poi ognuno compirà la sua ascesa, ognuno a un certo punto comincerà a sgonfiarsi e a ricadere verso il terreno tramutandosi nel breve passatempo di un bambino o di un cane, galleggiando forse anche per chilometri trasportato dalla corrente del fiume Syr Darya che scorre poco lontano, incastrato in una tettoia, stritolato sotto la ruota di un camion, prima di esplodere tra i rovi disseminati un po’ ovunque, o tra le mani di qualcuno che vuole far prendere uno spavento a un amico assorto in altri pensieri.
Qualunque sia il loro destino, questi piccoli tasselli di un sogno nebulizzato hanno tutti un’origine comune: li ha lanciati verso il cielo una sposa, nel giorno del suo matrimonio una volta uscita sul piazzale davanti la moschea celeste e oro di Tyuratam. Sopita la labile meraviglia del momento del lancio, tutti gli invitati assiepati sotto il sole applaudono e lodano la coppia che ha da poco pronunciato il sì. Ventitré anni lui, Rustam, diciannove lei, Aliya, si baciano e si lasciano andare all’ovazione che gli invitati dedicano loro quando lo stuolo di palloncini comincia a sparire dal campo visivo e il contatto con la luce del sole accecante del deserto inizia a far male agli occhi.
Tra le casette di legno sgarrupate della periferia del paesino inizia a snodarsi, spedito e smargiasso, un corteo di auto bianche – Toyota e Daewoo fuori mercato in Europa –, che accompagna con caroselli e zig-zag tra le corsie l’auto degli sposini, un Hummer H2 modello limousine, un simbolico «carro armato dell’amore» che pare assemblato con lo scopo esplicito di scortarli senza scossoni e nella più tronfia opulenza fino alla fine dei loro giorni.
Sono ancora piuttosto lontani dalle rive del Syr Darya, dove si celebrerà il banchetto nuziale, così, non appena il corteo si è allontanato dalla strada protetta da filo spinato che delimita il territorio russo della città di Bajkonur, a destra e a sinistra della carreggiata si staglia solo il deserto. Si può intravedere soltanto un piccolo gasdotto locale che si allontana in direzione dell’orizzonte, dove svetta una foresta di elettrodotti, alti dai quindici ai quaranta metri, i cui cavi si intersecano e si propagano in tutte le direzioni; all’altezza della strada invece, usciti poco fuori dai centri abitati, non si vedono altro che carcasse di furgoni, autobus e motrici sovietiche abbandonate; memorabilia di un tempo passato che in pochi rimpiangono ma che altrettanti pochi hanno la forza di rimuovere, forse anche per la difficoltà, almeno nella zona, di scolpire un degno e sfavillante presente che sia in grado di seppellire definitivamente questo passato.
Così tra gli scheletri di vecchi edifici residenziali, yurte di cui rimangono solo le assi in legno, e gli esoscheletri delle auto, delle vecchie turbine e degli elicotteri Mi-26, si è fatta strada la sabbia che però non si è mai alzata a sufficienza per ricoprirli del tutto. In questa porzione di mondo stepposo l’alternanza di canicola estiva e gelo invernale ha reso la sabbia densa come un tessuto epiteliale affetto da un’irrimediabile forma di alopecia.
Osservando il deserto freddo ci si costruisce in testa l’idea che il terreno sia in grado di ospitare la vita, di far sbocciare i semi trasportati dal vento, di ricoprirsi di erba verde; eppure non ci riesce, perché un organismo fragile come uno stelo d’erba, o come un tronco appena affiorato, non può resistere ai venti, alla neve e soprattutto all’assenza di precipitazioni senza che ci siano già fusti maturi, avvallamenti ben celati e la giusta dose di ombra e acqua a proteggerlo.
Le dune, che nell’immaginario collettivo simbolizzano la definizione stessa di «deserto», qui non sono che cumuli all’altezza delle caviglie, sulla sommità dei quali cresce un’erbetta indecifrabile e amorfa che nell’aspetto ricorda dei cardi miniaturizzati e sfibrati, commestibili solo per i cammelli, marroncini, pungigliosi e pruriginosi.
Il corteo si ferma e Aliya, la sposa, tutta contenta scende dalla limousine addentrandosi per pochi metri in questo placido mare di sabbia.
Si esibisce in serpentine sempre più bizzarre per evitare che l’erbetta graffi il suo elegante vestito celeste ricamato con volteggianti motivi dorati, in tinta con l’architettura della moschea. La giovane si ferma, ride, guarda indietro invitando il novello sposo a unirsi a lei, e appena Rustam la raggiunge la prende in braccio sollevandola da terra.
Si alza un po’ di vento, la sabbia dà fastidio persino a loro che in questa terra sono nati e cresciuti; il fotografo, anche lui in apprensione per la sua reflex, scatta a raffica con i due che, nonostante il piccolo disagio, non lesinano sorrisi di autentica felicità.
In quella porzione di deserto, alle spalle degli sposi, si erge una magniloquente riproduzione di un lanciatore Sojuz, il modello di navicella spaziale sovietica che ancora oggi è il vettore più utilizzato per trasportare astronauti, componenti e viveri in orbita. Di colore verde opaco e lunga all’incirca una quarantina di metri – come l’originale –, la riproduzione poggia su un basamento altrettanto appariscente: un trapezio rivestito da lastre di finto marmo brillantato a mo’ di opale, in cui uno dei due lati è più alto dell’altro al fine di donare al modello un’aria di dinamismo, proprio come se fosse montato su una rampa di lancio, pronto per decollare.
Si racconta che quella riproduzione sia una delle tante usate nel periodo sovietico per motivi di studio da parte dei primi ingegneri pionieri della corsa allo spazio, e che una volta divenuta obsoleta sia stata donata dai russi alla cittadina limitrofa di Bajkonur, che ha deciso di piazzarlo lì, aggiungendovi un basamento realizzato non da un artista ma direttamente sul posto dagli operai incaricati per l’istallazione (destino comune alla maggioranza delle riproduzioni di carri armati, aerei, trattori, missili, elicotteri, macchinari industriali che costellano quasi tutte le città sopra i diecimila abitanti in tutto il mondo ex sovietico).
Kitsch o naïf più o meno involontario, realismo socialista in scala 1:1, ma di fatto struggente nella sua solitudine, nel suo essere goffamente più grande e più appariscente delle strutture che il corteo si è lasciato alle spalle. L’improbabile connubio artistico tra il burocrate locale che ha deciso di piazzarlo lì, a lato della strada, e gli operai che hanno costruito il basamento provoca un sentimento interlocutorio: una simile e così inattesa decontestualizzazione lascia adito a interpretazioni molto personali, l’esatto contrario dello scopo sovietico che mirava a trasmettere gloria, rigore, magniloquenza, una sola via interpretativa. Fuori dal suo ambiente il razzo si mostra nella sua forma più umanizzata, solo nell’immensità del deserto lascia pensare a quanto la sua controparte reale possa essere ancora più sola di fronte all’immensità dello spazio profondo, che più passa il tempo più paradossalmente ci sembra inesplorabile. Il sibilo del vento che si scontra contro la carena vuota provoca una sensazione di silenzio interiore profondissimo, capace di condurre l’animo di chi osserva in un purgatorio emozionale nel quale la familiarità delle forme scompare al cospetto del loro essere sovrapposte a colori arcaici, spazi infinitesimali, rimandi (non voluti) all’assoluto.
Essendo una riproduzione non deve celebrare (concettualmente) l’esplorazione dello spazio, e non c’è un motivo specifico del perché sia stata posizionata proprio lì, in quel punto esatto. Non c’è una ragione artistica né filosofica, poiché il monumento non si relaziona al paesaggio «per volontà dell’artista», ma per il solo fatto che si trova lì, e il paesaggio non si relaziona al monumento perché esso, per quanto diverso, è pur sempre un puntino, un granello di polvere in uno spazio oltremodo più vasto.
Chi abita uno spazio così vasto e distaccato finisce col vivere una comunità priva di una memoria collettiva vera e propria a tal punto che qui i monumenti non sorgono quasi mai ad (perpetuam rei) memoriam, ma piuttosto pro memoria: gli abitanti di fronte a questi monumenti preferiscono anteporre la loro localizzazione geografica al messaggio che veicolano poiché, potendo scegliere, solitamente la memoria umana si lega più volentieri ai luoghi fisici che ai concetti astratti.
Quel modello di Sojuz fu tirato fuori da un hangar e fu riposizionato lì. Da quel giorno (e grazie all’ausilio dell’uniformità del deserto) rappresenta un qualcosa che è lì da solo ed è diverso da tutto il...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. 1. La piccola tempesta
  4. 5. Vie per il cielo
  5. 12. Elektrichka
  6. Crediti fotografici
  7. Immagini