Se abbiamo perduto Giobbe...
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Se abbiamo perduto Giobbe...

Che cosa insegna il Libro di Giobbe oggi agli psicanalisti?

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Che cosa insegna il Libro di Giobbe oggi agli psicanalisti?

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La parola di Giobbe, la parola della sventura, che d’un colpo, se solo lo vogliamo, se non la sconfessiamo, possiamo ritrovare sulla bocca muta di tutti gli sventurati di oggi, è una parola in grado di sostenere lo scontro coi discorsi di regime, di prestar voce a una coscienza collettiva silenziata dal battage quotidiano della terapia, che arriva da tutte le parti con lo scopo precipuo di mettere le cose a posto. Se abbiamo perduto Giobbe, con le sue domande folgoranti e indocili, abbiamo anche simultaneamente perduto l’altro.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788899193607
Argomento
Psychologie
Categoria
Psychoanalyse
SE ABBIAMO PERDUTO GIOBBE…

Il Libro di Giobbe: un amore che divide

Prima di entrare insieme nel Libro di Giobbe desidero esporvi la mia ricostruzione di un dialogo polemico tra due studiosi e grandi amici, centrato proprio sull’amore da entrambi condiviso per questo testo e, al tempo stesso, sul loro conflitto ideale e religioso al riguardo1.
Si tratta dello scambio di idee tra Sergio Quinzio (teologo, biblista, credente inquieto e disperato: ovvero uomo di una fede radicale, affatto scolastica, ma tragica e, a tratti, mistica) e Guido Ceronetti (filosofo, poeta, marionettista e, a sua volta, traduttore appassionato di testi biblici – tra i quali, appunto, il Libro di Giobbe).
Un’amicizia la loro che ha attraversato, spesso polemicamente, i decenni.
Ebbene: oggi (a mio giudizio) proprio da uno dei loro scontri polemici possiamo trarre anche noi linfa per provare a individuare le insidie di questo testo e soprattutto del nostro ascolto, laico o religioso che sia.
Possiamo identificarci ora con l’uno ora con l’altro, ora con nessuno dei due, restando tuttavia (credo) comunque scossi da questo scambio leale e sferzante, che non si nasconde e non ci nasconde la forza della posta in gioco né il livello palpabile di tensione e di contrapposizione che un libro come questo è in grado di scatenare.
Ecco, quindi, alcuni frammenti delle loro posizioni che vi propongo sotto forma di un botta e risposta, che ho tessuto così per dare il via al nostro appuntamento di oggi.
Dunque, Quinzio – appena letto un abbozzo della traduzione del Giobbe di Ceronetti – prende per primo la parola e dice:
Credo fermamente che – senza il cristianesimo – sia impossibile afferrare Giobbe!
No. Io non vedrò mai Giobbe in chiave cristiana – si oppone Ceronetti. La mia chiave di lettura è quella di una “aconfessionalità assoluta”. Non mi definisco laico, perché laicità mi mette fuori dal religioso: dove invece sto e non sto.
Peraltro è proprio in questa ambiguità che riesco a essere scrittore.
Non so se la religione sia per me una cosa da raggiungere o se quel che ho raggiunto sia tutta la mia religiosità possibile.
Di religiosità infatti credo di averne.
Più in là – secondo me – dovrebbe esserci o fede cieca o conoscenza. E di queste due sono nudo. La conoscenza tuttavia mi sembra preferibile, ma è anche irraggiungibile.
Del resto, caro Sergio, penso che un cristiano tenda a “coltivare” il suo dolore. Non cerca di abbatterlo, cerca piuttosto di tenerselo.
E con Giobbe, invece, non va affatto così!
E tu, proprio perché sei cristiano, non somigli a Giobbe.
Ma la verità è – replica Quinzio – che tu tendi a qohélettizzare Giobbe!
Il suo grido diventa, con te, ritmi di abbandono, di tristezza e di nostalgia. Non è più sdegno, non è più scandalo.
Perdonami la franchezza, Guido, ma tra fede e non fede c’è un abisso incolmabile.
Cosa vedono della fede gli occhi della non fede?
Cosa vedono della speranza gli occhi della non speranza?
L’operazione che tu compi sulle Scritture appartiene dunque per me a quelle sottili e fascinose operazioni che si possono fare tentando di accostare mondi diversi.
Eppure – obietta Ceronetti – io questo abisso incolmabile tra fede e non fede non lo vedo.
D’altronde, per vederlo, dovrei avere la tua stessa idea di fede.
Credo, Sergio, che le vere differenze tra noi siano due.
La prima è che io posso avvicinarmi ai tuoi scritti senza preconcetto, mentre tu non puoi farlo con i miei.
L’altra, fondamentale, è che io non mi sento cristiano. Col cristianesimo sono in rottura ormai da lunghissimo tempo.
Vengo attirato dal cristianesimo di quando in quando, e in particolare dalle sue eresie.
Ma resto sempre in bilico tra la demolizione razionalista e la follia mistica.
Tu hai il tremendo coraggio di dire che qualunque altra traduzione (sia essa buona o cattiva, per te fa lo stesso) se ha evitato di lottare parola per parola con il grande Testo, è comunque migliore della mia.
Però io traggo alimento soltanto dalla lotta con la parola; di lì non riesco a muovermi perché se no perderei equilibrio e forze.
Invece tu (lo incalza) devi sacrificare, alla verità in cui credi, la comprensione di innumerevoli cose, e prima di tutto delle parole profonde e meravigliose che – se mai le ascoltassi – finirebbero per perderti.
Lo capisco. Ma mi rattrista.
Ho fiducia nei tuoi accenti, perché finora non ho sentito il cristianesimo come un ostacolo a comprenderti. Eppure accade che il tuo talento cristiano sia capace di suscitare in me tutto il mio anticristianesimo.
Tuttavia devo ammettere che il nostro contrasto si dispiega sul piano intellettuale e non in una zona che offenda il nostro rapporto umano.
Di fronte a tali dichiarazioni, Quinzio controbatte: tu forse hai l’impressione di potermi offrire una più larga e comprensiva accoglienza, ma in realtà non è così.
Infatti tu accogli tutto tranne quell’unica cosa che per me è importante e cioè il carattere “esclusivo” della mia intenzione. Carattere che tu neghi proprio nel momento in cui accogli la mia intenzione come un elemento del tuo mondo di forme poetiche.
Preferirei – credimi Guido – un rifiuto netto e orripilato, che mi darebbe per lo meno l’illusione di avere toccato una tua corda, di non essere scivolato come acqua su di te.
Tu, invece, non hai la consapevolezza della tragica desolazione, della disperata astrazione, della fatale falsificazione che si compie vedendo nelle parole di Giobbe quello che definisci: un «venerato monumento in lingua ebraica».
Ma non è così!
Le parole di Giobbe sono esclusivamente il miserabile relitto della sua speranza tradita.
Di certo, tutto quello che sta a cuore a te e che t’impegna tanto profondamente, non interessava affatto Giobbe sul suo letamaio.
Al contrario: lui si scagliava precisamente contro tutto il «venerato monumento in lingua ebraica» che lo precedeva.
Ti chiedo: secondo te, esiste una traduzione di un testo, a distanza di continenti e di millenni, che non sia l’“invenzione di un contemporaneo” o la “parafrasi di un letterato” e che quindi non si possa datare e collocare con precisione se non come un prodotto del suo particolare orizzonte culturale?
Io credo che i tuoi testi biblici – Guido – siano i figli di un poeta piemontese del ventesimo secolo, con tutto ciò che esso implica circa i suoi gusti e in particolare circa il suo sogno di trovare un significato nel culto della parola antica dei “venerati monumenti”: cioè con qualcosa di assolutamente lontano, inconfrontabile e incompatibile con l’autore antico.
Forse sarò anche capace, se il Signore mi aiuterà, di leggere il tuo Giobbe senza pensare troppo alla “poetica” sottostante.
Ma vorrei a mia volta pregare te di domandarti davv...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. I Quaderni di Polimnia
  3. Presentazione
  4. William Blake, “Job Rebuked By His Friends”
  5. Frontespizio
  6. Colophon
  7. Se abbiamo perduto Giobbe…