II. La costruzione del paesaggio alpino
1. Specificità del paesaggio alpino.
Fin qui, ho cercato di esplicitare la dimensione del paesaggio come «spazio di vita» mediante la fissazione di alcune coordinate di tipo storico, filosofico ed epistemologico che ritengo necessarie per non rimanere prigionieri di ambiti disciplinari e territoriali troppo chiusi. Occorre chiedersi, a questo punto, quali siano le costanti semiologiche del paesaggio alpino. A tal fine, diventa indispensabile fissare i tratti salienti del paesaggio tradizionale delle Alpi – spesso indicato impropriamente come «tipico» – attraverso il lungo percorso storico e preistorico che ha consentito l’affermarsi graduale della presenza dell’uomo sulle montagne.
Ho già sottolineato quanto la spinta all’addomesticamento dell’ambiente naturale rappresenti il tratto costitutivo della condizione umana. L’essere umano, per sua natura, tende a produrre incessantemente nuovi spazi artificiali, nuove rappresentazioni delle proprie visioni del mondo, della mentalità dominante in un determinato momento storico. La spinta a socializzare la natura e a fare del proprio habitat una rappresentazione culturale ha condotto i gruppi umani a lottare contro la selvaticità e contro l’inselvatichimento anche nei territori alpini. Le comunità, come abbiamo visto, trasformano il terreno in territorio ed è esattamente in questa trasformazione che si sedimenta il paesaggio come prodotto dell’ibridazione tra la componente naturale e quella culturale.
Per comprendere questo processo di costruzione del paesaggio possiamo guardare alle Alpi e alla loro storia. Esse rappresentano un luogo privilegiato da cui osservare tali dinamiche paesaggistiche. L’arco alpino è tra le catene di monti più antropizzate della Terra, dove a una straordinaria biodiversità naturale si accompagna un’altrettanto stupefacente etnodiversità culturale. È questo che rende unici i paesaggi alpini.
Passando, dunque, da una riflessione sul termine di paesaggio in generale all’analisi del paesaggio alpino in particolare, diventa imprescindibile uno sguardo a ritroso attraverso la storia insediativa che ha plasmato questo tipo di paesaggio1. Che cosa intendiamo, oggi, per paesaggio alpino? Per rispondere alla domanda è necessaria una riflessione sulle origini della presenza dell’uomo – inteso come «io sociale» e quindi come comunità, non come singolo individuo – in un territorio complesso come quello della montagna alpina, che potremmo definire come laboratorio antropologico per eccellenza della storia d’Europa. In questo senso diventa estremamente opportuno porre l’attenzione sui significati culturali delle Alpi recuperando la definizione data dal sociologo francese Robert Herzt, allievo di Émile Durkheim, che scorgeva nelle Alpi un «merveilleux conservatoire»: un meraviglioso contenitore di culture plasmate dall’adattamento alle sfide ambientali2.
Nell’ambito di questa riflessione, occorre precisare quali sono i presupposti e i limiti cronologici entro i quali volgere lo sguardo in un percorso diacronico che attraversa la storia puntualizzando alcune tappe fondamentali.
Le prime modificazioni dell’ambiente naturale alpino a opera dell’intervento dell’uomo risalgono alle età preistoriche, quando le comunità, dedite a uno stile di vita nomade, si avviano a un lento e graduale passaggio dal nomadismo al sedentarismo. Successivamente, un secondo momento di svolta si registra in età antica, segnatamente in epoca romana. Soprattutto nelle aree di fondovalle, l’Impero romano introduce nelle Alpi nuovi sistemi di viabilità, nuovi modelli di antropizzazione e nuove forme di controllo della popolazione mediante la romanizzazione giuridica e linguistica dei territori alpini. In seguito, il terzo e più importante cambio di paradigma si verifica in epoca medievale, dopo la costituzione del Sacro romano impero. Assistiamo, in questa fase, a una vera e propria costruzione del paesaggio alpino favorita da una serie di circostanze concomitanti di tipo climatico, politico, giuridico e amministrativo. Infine, in età moderna, l’affermazione dello Stato nazione produrrà inediti cambiamenti che modificano nuovamente la situazione in modo radicale e conducono agli assetti del paesaggio alpino così come si presenta oggi. Ma andiamo per gradi.
2. Le prime frequentazioni.
La frequentazione delle Alpi da parte delle comunità umane in epoca preistorica e protostorica è di tipo stagionale, cioè legata ai cicli climatici, e va riferita a una presenza irregolare, non permanente, non residenziale. Sulle Alpi, la residenzialità che comincia con il Neolitico è una residenzialità a macchia di leopardo, molto diradata, scarna e frammentata.
Questo modello perdura per molto tempo. L’esempio dell’«uomo venuto dal ghiaccio» – Ötzi, la mummia del Similaun conservata a Bolzano al Museo archeologico dell’Alto Adige – insegna qualcosa in questo senso. Ötzi, che si avventurò nel suo cammino circa 5000 anni fa sulle terre ghiacciate della Val Senales, non era un montanaro residente o sedentarizzato ma apparteneva a una comunità di individui transumanti che si muoveva nei territori alpini secondo processi di mobilità legati alle stagioni. Si comportava come fanno ancora oggi i pastori vaganti nelle Alpi. La società pastorale transumante è, infatti, un retaggio di arcaismo nella modernità. «Transumare» significa proprio questo: il passare da terreno a terreno. Quando, ancora oggi, vediamo i pastori con le greggi di pecore dirigersi verso la pianura nelle stagioni fredde, e quando li vediamo risalire in estate verso la montagna, dobbiamo pensare esattamente a questo. La transumanza era un tipo di attività molto diffusa in era preistorica.
Questi gruppi di individui hanno introdotto profonde modificazioni al territorio costruendo paesaggi collegati alle attività pastorali, agricole, minerarie. Nella costruzione del paesaggio alpino, non si può disconoscere il contributo che tali comunità umane hanno avuto nella modificazione dei soprassuoli attraverso l’estrazione dei minerali (rame, bronzo, ferro), i primi tentativi di agricoltura stanziale mediante l’addomesticamento degli animali da destinare al pascolo vagante e l’utilizzo dei terreni pascolativi ottenuti con l’impiego del fuoco.
Numerose tracce di questi nuclei insediativi sono state portate alla luce da archeologi e paletnologi, di cui possediamo testimonianze importanti. Penso alla Provincia di Sondrio (Valchiavenna, Pian dei Cavalli) ma, anche, alla provincia di Brescia (Valcamonica). In età preromana, inoltre, non dimentichiamo le popolazioni retiche riferite ai territori del Tirolo storico, compresa l’attuale provincia di Trento. La Rezia, un tempo, era un territorio vastissimo che, da ovest a est, si estendeva grossomodo dal passo del San Gottardo fino alla Carnia friulana, passando per i Grigioni e per l’area trentino-tirolese. In età preromana, queste aree erano interessate dalle popolazioni retiche, di cui sono testimonianza ancora oggi le minoranze ladine in Trentino e Sudtirolo.
In età antica, con l’avvicinarsi della fondazione dell’Impero romano, assistiamo ai primi mutamenti significativi del paesaggio alpino. Da un punto di vista climatico l’epoca romana ha conosciuto periodi di grande rigore e, quindi, di tendenziale inospitalità delle terre alte, come si evince dalle testimonianze degli autori classici. Le prime fonti bibliografiche sulle Alpi compaiono nell’opera dello storico romano Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) che, negli anni di poco precedenti alla nascita di Cristo, definisce le Alpi come il luogo dove le nevi si confondevano col cielo e dove creature mostruose si mostravano irrigidite fra i ghiacci spaventosi: un posto dove tutto dava nuova esca alla paura. Ancor più nota l’espressione di Tacito (55-120 d.C.), oratore e senatore romano, che nel suo De Germania scrisse delle Alpi come di un accidente della natura, un ostacolo ai traffici commerciali, culturali e militari: «infames frigoribus Alpes». Tali testimonianze non riflettono soltanto la durezza di un ambiente montano freddo e inospitale ma anche, e soprattutto, la presenza di un immaginario in cui le Alpi venivano considerate un mondo ostile, un ostacolo, una barriera. Anche nelle opere del geografo greco Strabone (60 a.C.-25 d.C.) e del naturalista Plinio (23-79 d.C.) si trovano preziose informazioni rispetto a questo territorio. Appartengono a loro, con Tacito e Tito Livio, le prime fonti scritte sulle Alpi.
Da un punto di vista politico e geopolitico, anteriormente alla fondazione dell’Impero romano, le Alpi appartenevano alle Gallie a ovest, alla Rezia nella parte centrale (Tirolo compreso) e all’area venetico-illirica a est. Nel 63 a.C. Augusto fondò l’Impero romano e, durante la sua reggenza, romanizzò i territori alpini portando il limite delle regioni italiche a lambire le Alpi. Tradizionalmente, l’anno 6 a.C. è riconosciuto come il punto di arrivo: la romanizzazione dell’arco alpino è compiuta. Sul colle de La Turbie, a 480 metri di quota, nel dipartimento francese delle Alpi Marittime a monte del Principato di Monaco, sul confine augusteo fra Liguria e Provenza, Augusto fa erigere un grande monumento marmoreo. È il Trofeo delle Alpi, su cui vengono incisi i nomi di tutti i popoli alpini sottomessi durante la romanizzazione e riconducibili alle tre grandi famiglie dei Liguri, dei Reti e dei Venetici. Tra questi, quarantasei complessivamente, molti sono leggibili ancora oggi: i Venostes della Val Venosta, i Breuni e gli Isarci della Val d’Isarco e i Genuanes, probabilmente identificabili con gli abitanti della Val di Genova ma, più in generale, della Rendena e delle Valli di Non e Sole. Sull’epigrafe del monumento, oggetto più volte di lavori di conservazione e di ripristino, si legge dei «popoli alpini che si trovavano dal mare superiore a quello inferiore […] ricondotti sotto il potere del popolo romano».
La presenza romana inizia a interessarsi alle Alpi come corridoio di transito. Mutatis mutandis, le strade romane erano, per i Romani, quello che sono oggi per noi le autostrade: grandi opere infrastrutturali finalizzate a un attraversamento veloce dell’arco alpino, che i Romani consideravano barriera orografica. La vocazione della catena alpina al transito di uomini e merci, dal sud al centro dell’Europa, dall’ovest all’est, ha privilegiato ai tempi dei Romani la logica dei flussi transalpini nella realizzazione delle vie consolari. I grandi corridoi di accesso ai passi hanno portato all’insediamento di mansiones, ovvero di stazioni realizzate per le necessità logistiche. Le vie delle Gallie nell’Ovest delle Alpi, quelle retiche nel Centro Alpi, ivi compresa l’asta dell’Adige, quelle dell’Alpe Giulia dell’Est Alpi hanno permesso la penetrazione attraverso il difficile acrocoro alpino. Rispetto ai radi insediamenti preromani, dislocati in forma discontinua su pianori rivolti all’esposizione solare, i corridoi vallivi diventano strategici per il tracciamento delle vie consolari. Queste ultime, tuttavia, non si sviluppano sul fondovalle in vicinanza dei fiumi, a causa dei pericoli di esondazione sui terreni golenali, ma si mantengono prevalentemente al di sopra delle piane alluvionali seguendo percorsi sopraelevati. Non a caso le popolazioni locali si erano insediate, da tempo, su terrazzi solivi al riparo dai rischi idrogeologici.
La romanizzazione delle Alpi, comunque, introduce la coltivazione della vite e le tecniche di caseificazione, apportando parziali modificazioni al paesaggio precedente. Tali modificazioni paesaggistiche interessano, però, fasce di terreno ad altitudini non elevate, al di sotto dei 1000 metri.
3. L’epopea dei dissodatori.
La massiccia trasformazione del paesaggio alpino inizia diversi secoli dopo la romanizzazione. Essa è collocabile attorno l’anno Mille e va ricondotta all’epoca dei grandi dissodamenti medievali, un periodo che storici e antropologi ricordano anche come la «grande epopea dei dissodatori». È la più grande «occupazione» delle Alpi da parte delle comunità umane che la storia ricordi. Un periodo aureo3, un momento cruciale in cui si assiste alla colonizzazione rurale dell’arco alpino, un fenomeno che ha grande rilevanza sociale, antropologica, giuridica, politica e amministrativa.
Una ricognizione consapevole del paesaggio alpino deve partire dal basso medioevo. È questo lo snodo centrale e, in termini epistemologici e antropologici, il principale cambio di paradigma. La società alpina, con il reticolo dei villaggi che ne costituiscono la trama e l’ordito e con la trasmissione dei suoi paesaggi familiari, costruiti, addomesticati, deve essere analizzata soprattutto a partire dal grande spartiacque cronologico rappresentato dall’XI secolo. In questa fase si verificano una serie di circostanze concomitanti che potremmo definire «variabili del cambiamento». Elementi di discontinuità rispetto al passato che intervengo come motori di trasformazione dei paesaggi alpini. Tra questi elementi, ve ne sono tre in particolare: la variabile climatica, la variabile geopolitica e la variabile giuridico-amministrativa. Si aggiungano a questi tre livelli, sui quali mi soffermerò di seguito in modo approfondito, alcune considerazioni di tipo economico-demografico e una breve nota su una suggestione mistico-religiosa diffusasi tra la popolazione nel corso del medioevo.
Quanto alle prime considerazioni, quelle economiche e demografiche, non va dimenticato il fatto che la popolazione europea, dopo essere diminuita drasticamente fra l’età romana e l’alto medioevo, a partire dall’VIII secolo d.C. ricominciò a crescere con un aumento progressivo che si fece dirompente dopo l’anno Mille, soprattutto tra i secoli XI e XIII. Ciò comportò, su vasta scala, nuove esigenze di tipo economico che si tradussero nella fame di terre da coltivare, nella necessità di nuovi prati da adibire al pascolo e nel bisogno di potenziare i commerci. Quanto alla seconda considerazione, quella di tipo mistico e religioso, va fatto un cenno, come nota marginale, alla diffusione del mito millenarista. A causa di questa antica credenza, alimentata da l’Apocalisse di Giovanni («Quando i mille anni saranno compiuti, Satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni ai quattro punti della Terra», Ap, 20: 7,8), registriamo attorno all’anno Mille una certa velleità delle popolazioni di spingersi verso la montagna per sfuggire alla catastrofe biblica della fine del mondo («Mille e non più Mille»). Questa suggestione contribuisce a suscitare nuovo interesse per la montagna come spazio abitativo e come zona franca, lontana dai pericoli connessi alle paure millenariste.
L’addomesticamento della montagna in epoca medievale e tardo medievale, tuttavia, si deve non soltanto a spinte di tipo economico, demografico e religioso ma, anche e soprattutto, a profonde motivazioni storiche e naturali di tipo climatico, politico, giuridico e amministrativo. Mutazioni morfologiche ambientali, cambiamenti climatici a cadenza ciclica e orientamenti politici diversi hanno avuto altresì conseguenze ragguardevoli nella trasformazione degli scenari paesistici alpini.
4. Le variabili climatica e politica.
Verso la fine del XII secolo si assiste in Europa a un innalzamento generalizzato delle temperature come prodotto di un cambiamento climatico su larga scala. Tale periodo è noto agli storici del clima con la denominazione di optimum climatico. Definito anche come «periodo caldo medievale», fu un momento inusuale di clima relativamente caldo nella regione del Nord Atlantico, durato circa 500 anni, dal XI al XVI secolo con punte dal XII al XIII secolo. A partire dall’anno Mille e, significativamente, dopo il 1100, si registra un rialzo termico4. Questo andamento determina una forte riduzione dell’estensione delle masse nivo-glaciali alle quote elevate e libera porzioni di territorio assai rilevanti che, progressivamente, vengono colonizzate dalle piante pioniere di alta quota. Ciò provoca anche un nuovo interesse, da parte delle comunità, verso le terre alte e medio-alte, che gradualmente vengono popolate.
L’optimum climatico rende appetibili i territori alpini, rende percorribili i valichi posti a quote medio alte e attraversabile la montagna. Quelle quote elevate, che prima del XI secolo erano ancora occupate dalle masse nivali e glaciali, diventano luoghi di insediamento sostenibile di medio e lungo corso dove trovano agio gli sviluppi di nuova vivibilità e una nuova percorribilità nelle Alpi. Il trasferimento di una residenzialità stanziale a quote superiori ai 1000 metri diviene uno scenario possibile con la conseguente nascita di insediamenti permanenti non stagionali.
Per insediamenti stagionali si intendono gli alpeggi e le malghe, dove ci si reca in estate per il pascolamento temporaneo, cui fa seguito il ritorno nei fondivalle al termine dell’autunno. In questo caso, invece, si stabiliscono insediamenti permanenti fino a quote superiori ai 2000 met...