Guida turistica per esploratori dello spazio
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Tutta la nostra storia è il racconto di un viaggio. Dalla caverna al bosco, oltre le montagne impervie, dentro il terrore degli abissi marini, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da scoprire. Fino a quando anche la Terra ha iniziato a starci stretta, e abbiamo rivolto il nostro sguardo sognante lassù, verso il cielo. Ancora più su, mai sazi di conoscenza: l'immenso cosmo, l'irraggiungibile spazio extragalattico.Ma come arrivarci, lassù? Come diventare esploratori dello spazio, turisti dell'infinito? Antonio Ereditato ci imbarca in questa traversata affidandosi alle possibilità della fisica. Ci guida nella costruzione di una caravella spaziale, assembla un equipaggio capitanato da un'intelligenza artificiale, mette in valigia la relatività einsteiniana, l'antimateria, le leggi fondamentali e gli esperimenti realizzati con gli acceleratori di particelle, scrivendo un libretto d'istruzioni comprensibile a tutti. Poi si parte: tappa dopo tappa, sull'imperscrutabileLuna, tra le stelle che illuminano i nostri sogni, a due passi dal Sole, sulla soglia perigliosa di un buco nero, oltre i confini del Sistema Solare, ai margini impossibili dell'Universo. A tu per tu con il mostro cosmico Sagittario A* – il Re della Galassia –, nel mezzo dello sconosciuto nulla, tra Andromeda e la Via Lattea, affacciati al finestrino della nostra navicella per ammirare per la prima volta ciò che non avremmo mai immaginato di vedere.Per fare infine ritorno sulla Terra quarantasette anni dopo, quando però, sul nostro pianeta, saranno trascorsi ben ventimila secoli. Cosa troveremo? Sarà la fine? No, forse solo l'inizio di una nuova, inaspettata avventura.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788865767610
parte prima
Cosa mettere in valigia
1. Scherzi della relatività ristretta
Nella teoria della relatività non esiste un unico tempo assoluto, ma ogni singolo individuo ha una propria personale misura del tempo, che dipende da dove si trova e da come si sta muovendo.
Steve Hawking
La relatività ristretta di Albert Einstein è il primo degli strumenti necessari per progettare e comprendere il nostro viaggio. La teoria descrive il moto dei corpi materiali per velocità relative che siano confrontabili a quelle della luce nel vuoto, pari a circa 300mila km/s. Infatti, le equazioni della meccanica di Galileo-Newton, che spiegano benissimo il moto di corpi relativamente lenti, non sono più in accordo con l’evidenza sperimentale quando si tratta di oggetti molto veloci: le predizioni della fisica cosiddetta «classica» sono verificate per gran parte degli eventi che accadono nella nostra vita di tutti i giorni, e perfino in molti degli esperimenti che conduciamo nei laboratori di fisica moderna; la relatività einsteiniana, al contrario, diventa necessaria per alcuni dei processi che avvengono nel magico mondo del microcosmo, l’universo delle particelle elementari, ed eventualmente anche per predire il moto di oggetti macroscopici, quali satelliti o astronavi, che possano viaggiare anch’essi a velocità altissime, dette relativistiche, prossime a quella della luce. In questi casi le regole del gioco cambiano e dobbiamo per forza sostituire la visione di Sir Isaac Newton con quella più estesa e completa di Einstein.
Albert Einstein sviluppò la sua teoria nella quiete bernese di inizio Novecento, al termine di un percorso logico-scientifico che si configurò come una grande rivoluzione del pensiero moderno, condotta mettendo in discussione, in modo operativo, concetti che apparivano del tutto fuori da un discorso scientifico. Einstein cominciò a discutere criticamente il significato della simultaneità degli eventi fisici e della loro osservazione, e poi continuò richiedendo la maggiore generalità possibile per la validità delle leggi della fisica, includendo sia il moto dei corpi, sia l’elettromagnetismo. Con Einstein il tempo ha perso la sua assolutezza, diventando una grandezza del tutto relativa allo stato di moto o quiete dei corpi; non esiste più un tempo assoluto e immutabile newtoniano, ma c’è un tempo diverso per ciascuno di noi, ovvero per tutti gli osservatori dei fenomeni fisici, in movimento gli uni rispetto agli altri. Il tempo einsteiniano, diverso per ognuno, non è semplicemente legato alla differente percezione soggettiva del trascorrere delle ore. Einstein parla proprio del ticchettare degli orologi, dell’oscillare degli atomi; il suo tempo, che è il tempo del nostro mondo in condizioni estreme, per altissime velocità, è un tempo anch’esso del tutto relativo, proprio come le lunghezze degli oggetti o le distanze spaziali tra luoghi diversi.
Gli argomenti di Einstein, suffragati dal successo della sua teoria confrontata all’evidenza sperimentale, sono diventati imprescindibili per qualsiasi successiva discussione su tempo e spazio e non possiamo più fare a meno delle sue ipotesi alla base della relatività, sia dal punto di vista scientifico sia filosofico. L’evoluzione del concetto di tempo nel corso dei secoli ha portato da un terribile e un po’ caotico soggettivismo prenewtoniano – in cui in sostanza ognuno diceva la sua – a un tempo assoluto newtoniano e, infine, di nuovo a un relativismo potremmo dire assolutistico, nonché, di conseguenza, a una nuova forma di soggettivismo basata su fattori scientifici e verificabili. L’assolutismo, ovvero l’assolutezza del tempo, si è spostato con Einstein allo spaziotempo, poiché le equazioni della relatività mescolano assieme le tre coordinate spaziali e quella temporale. Questa è stata, in sintesi, la vera rivoluzione del fisico di Ulm.
Einstein rispose a una domanda in apparenza banale e in realtà rivoluzionaria: «Ma la velocità c che compare nelle equazioni di Maxwell che descrivono perfettamente i fenomeni elettromagnetici, la velocità della luce, ha un così grande valore rispetto a quale sistema di riferimento? Se per assurdo andassi incontro a un raggio luminoso a cavallo di un altro raggio, la velocità relativa di avvicinamento sarebbe 2c, due volte quella della luce?». Se così fosse, esisterebbe un solo sistema di riferimento, tra gli infiniti disponibili, nel quale le equazioni di Maxwell avrebbero validità. Questo sarebbe il riferimento privilegiato dell’etere, l’ipotetico mezzo invisibile e senza massa, che oggi sappiamo non esistere, attraverso cui le onde elettromagnetiche (la luce per esempio) si propagano, anche se apparentemente nel vuoto fisico, come accade nello spazio cosmico. Sì, vuoto, ma riempito di etere, rispetto al quale stelle, galassie, pianeti e astronauti si muovono con velocità diverse. La luce, quindi, viaggia con velocità c soltanto nel sistema di riferimento nel quale l’etere è stazionario, in quiete. Addio invarianza delle leggi dell’elettromagnetismo per trasformazioni galileiane. La fisica classica si fonda, infatti, sull’assunto che le leggi che la descrivono devono essere le stesse – cioè appunto invarianti – per tutti i sistemi di riferimento detti inerziali, in quiete o in moto rettilineo uniforme tra loro.
Già una ventina di anni prima delle riflessioni di Einstein, i fisici americani Albert Michelson e Edward Morley avevano ideato e realizzato un esperimento fondamentale per il successivo sviluppo della relatività, nel quale un interferometro combinava i raggi luminosi di un banco ottico, i cui bracci ortogonali viaggiavano assieme alla Terra con una data velocità rispetto all’ipotetico etere stazionario. Le figure di interferenza osservate alla fine del cammino dei raggi avrebbero dovuto quindi essere diverse al variare della direzione di moto dell’interferometro (e della Terra) rispetto all’etere – giorno/notte, estate/inverno. I due scienziati, però, non osservarono alcuna variazione, alcun diverso valore della velocità della luce. Il risultato dell’esperimento era così del tutto compatibile con la costanza della velocità della luce, uguale a c indipendentemente dal sistema di riferimento, e provava la non esistenza dell’etere. Fa sorridere il fatto che oltre cent’anni dopo quell’esperimento decisivo, comprovato da mille altre evidenze, ancora oggi molta gente parli di trasmissioni radiotelevisive via etere.
L’esperimento di Michelson e Morley offrì solide basi al successivo sviluppo della teoria della relatività ristretta di Einstein, benché il geniale fisico teorico avesse lasciato intendere che i risultati dell’esperimento non fossero stati determinanti per il suo lavoro. Egli partì da due assunti per sviluppare la propria teoria:
1) tutte le leggi della fisica, incluse meccanica ed elettromagnetismo, devono essere le stesse per una qualsiasi scelta del sistema di riferimento inerziale;
2) la velocità della luce ha lo stesso valore c in ciascuno di tali riferimenti.
Il lettore attento ha capito bene. Se a cavallo di un raggio luminoso – o in maniera equivalente di uno dei fotoni che lo costituiscono – vado incontro a un altro raggio, la velocità relativa sarà ancora c e non 2c! In realtà, una tale cavalcata è impossibile per principio, ma il risultato non cambierebbe se fossi sulle spalle di un oggetto materiale che viaggi al 99.9999 per cento di c. La conseguenza di questi due assunti è catastrofica: è la meccanica newtoniana a non essere corretta e le trasformazioni cinematiche che permettono di passare da un sistema di riferimento a un altro, che si muova a velocità v rispetto a esso, non sono più quelle classiche di Galileo ma quelle sviluppate all’inizio del xx secolo dal fisico olandese Hendrik Lorentz e utilizzate da Einstein nel formalismo matematico della sua teoria. Il tempo e lo spazio di Einstein si fondono assieme in maniera inscindibile nello spaziotempo. Tali trasformazioni e le bizzarrie che esse producono sono il prezzo da pagare per avere tutte le leggi della fisica invarianti per tutti i sistemi di riferimento inerziali.
Cerchiamo di capire quali sono queste implicazioni con qualche esempio più chiaro. Secondo la teoria della relatività, se nel mio laboratorio misuro la lunghezza L0 di un tavolo, un collega che si muova rispetto a me con velocità costante v, osserverà per lo stesso tavolo una contrazione lungo la direzione del moto e la sua lunghezza misurata L sarà più piccola di L0 di un fattore che è funzione della velocità relativa tra di noi. La differenza tra L e L0 aumenta all’approssimarsi di v alla velocità della luce c. Utilizzando un esempio di carattere astrofisico-spaziale, la distanza che misuriamo tra la Terra e un pianeta lontano apparirà molto minore a un cosmonauta che si muova ad altissima velocità verso il pianeta. Al contrario, per una velocità relativa piccola, L e L0 tendono a divenire uguali, come predetto dalla meccanica classica di Newton… e dal senso comune.
In maniera simile, se nel nostro laboratorio terrestre stimiamo la durata di un evento, per esempio quella di un giorno, pari a T0 (24 ore), il nostro amico in moto sull’astronave con velocità v, otterrà per l’arco di tempo del nostro giorno misurato da lui, T, un risultato difficilmente comprensibile: il nostro tempo per lui si dilata. Quello che per noi è un giorno lungo 24 ore a lui appare più lungo, quanto più vicina a c è la nostra velocità relativa v. Di conseguenza, all’astronauta che si allontana da noi i nostri movimenti apparirebbero accelerati alla sua osservazione, mentre, al contrario, a noi i suoi sembrerebbero rallentati, come in un film in slow motion. Nella relatività di Einstein, quindi, spazio e tempo non sono separati come nella meccanica classica ma, al contrario, sono fortemente correlati, come detto, attraverso il concetto di spaziotempo.
Proviamo a chiarire la situazione traducendola in numeri. Se la velocità v dell’astronave è pari a poco meno di un terzo di quella della luce, diciamo 90mila km/s, per il nostro collega il suo percorso astronomico sarà del 5 per cento più breve, mentre un nostro giorno durerà per lui non 24 ore ma 24 ore e 72 minuti. Un ottimo modo per ringiovanire o, se preferite, per fare viaggi nel futuro. Pensate, infatti, a un vascello spaziale con il quale partire per un viaggio di andata e ritorno lungo un anno, condotto addirittura alla velocità del 99 per cento di c. Bene, quando tornerete a casa, per colpa (o merito) della dilatazione relativistica dei tempi, per i vostri amici rimasti ad aspettarvi sulla Terra saranno passati ben 7 anni. Va rimarcato che questi effetti aumentano fortemente con l’approssimarsi alla velocità della luce. Passare dal 99 per cento di c al 99.9 per cento genera esiti notevoli, ma rende di conseguenza tecnologicamente sempre più complesso il raggiungimento di simili velocità. Ben diverso, però, è il caso del microcosmo delle particelle negli acceleratori, per le quali correre al 99.99999 per cento della velocità della luce è cosa normale. Qualcuno, tuttavia, potrebbe chiedersi perché mai, per puri motivi di simmetria, nell’allontanamento relativo tra noi e l’astronauta, sia lui a restare giovane alla fine del viaggio e non noi! Questo è il cosiddetto «paradosso dei gemelli». La risposta è che le due situazioni non sono equivalenti. Per far aumentare la velocità relativa tra viaggiatore e base Terra è necessario accelerare il cosmonauta e decelerarlo al ritorno, e ciò si ottiene applicando delle forze su di lui, per esempio per mezzo del propellente del missile. Egli solo quindi percepirà un’accelerazione (e anche forte) per raggiungere la sua velocità di crociera e non noi, di fatto fermi sul nostro pianeta.
Sviluppiamo ulteriormente le considerazioni precedenti sui viaggi interstellari, ritornando all’esempio di sopra. Definiamo innanzi tutto un anno luce (a.l.) come il tragitto percorso dalla luce in 365 giorni, pari all’incredibile distanza di circa 9500 miliardi di chilometri. Ora, per i cosmonauti i 7 anni luce coperti dall’astronave per raggiungere un ipotetico pianeta lontano, apparirebbero contratti e corrisponderebbero, per una velocità del 99 per cento di quella della luce, a circa un solo anno luce. In questo modo il viaggio verso il pianeta durerebbe molto meno per i membri dell’equipaggio che non per la sala controllo della missione e per tutti noi terrestri. E abbiamo detto che la riduzione del tempo del percorso è tanto maggiore quanto più la velocità dell’astronave si approssima a c: 99.9 per cento, 99.99 per cento e così via. Si tratta di un punto chiave dell’intero discorso. A livello intuitivo potremmo pensare che passare dal 99.99 per cento al 99.9999 per cento della velocità della luce possa accorciare la durata del viaggio spaziale in maniera irrisoria, ma ciò è falso perché gli effetti di contrazione e dilatazione di spazio e tempo crescono vertiginosamente all’approssimarsi a c. In parallelo, come vedremo a breve, il dispendio energetico per un aumento pur infinitesimo della velocità diviene progressivamente enorme.
In linea di principio, il viaggio lungo 7 anni luce potrebbe durare un solo giorno. Perfino attraversare la Via Lattea da parte a parte, una distanza di 100mila anni luce, potrebbe aver luogo in un lasso di tempo arbitrariamente breve, a patto di risolvere le immani limitazioni tecnologiche nel somministrare la necessaria energia alla navicella spaziale per accelerarla fin quasi alla velocità della luce. Peccato poi che gli astronauti non potrebbero raccontare a nessuno le meraviglie viste durante il loro viaggio perché, tornando a casa dopo aver toccato i confini della galassia, troverebbero tutti i terrestri invecchiati di… 200mila anni!
Di fatto, spingersi ad altissime velocità fa sì che ogni missione nello spazio sia contemporaneamente un incredibile viaggio nel tempo, permettendo così di esaudire uno dei sogni di sempre dell’uomo, almeno per quanto riguarda i viaggi nel futuro. Tuttavia, dal punto di vista pratico, il discorso è più complesso di quanto possa apparire. Lo affronteremo più in là.
A questo punto è possibile fare un’osservazione intrigante, anche se figlia di un caso limite e pertanto irrealizzabile. Appurato che le lunghezze diminuiscono fortemente all’approssimarsi a c e che, di conseguenza, si riduce per gli astronauti il tempo necessario a percorrerle, se un fotone – che per definizione viaggia esattamente alla velocità della luce – potesse essere cosciente di sé, percepirebbe di impiegare un tempo nullo per passare da due luoghi del cosmo comunque lontani tra loro, da lui pertanto ritenuti coincidenti!
Non potendo però noi cavalcare un fotone, proviamo ad affrontare il discorso del raggiungimento di altissime velocità dal punto di vista fisico e tecnologico. La relatività einsteiniana prevede che tutte le variabili cinematiche e dinamiche che descrivono il moto dei corpi materiali siano differenti rispetto alle corrispondenti grandezze newtoniane per velocità vicine a quelle della luce. Consideriamo il caso dell’energia e della quantità di moto di un corpo, due grandezze per le quali sussiste un principio di conservazione: in un qualsiasi processo o reazione che avvenga in un sistema ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Introduzione
  4. Parte prima. Cosa mettere nella valigia