Il ministro e le sue mogli
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Il ministro e le sue mogli

Francesco Crispi tra magistrati, domande della stampa, impunità

  1. 136 pagine
  2. Italian
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Il ministro e le sue mogli

Francesco Crispi tra magistrati, domande della stampa, impunità

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Francesco Crispi sposa Rosalie Montmasson a Malta nel 1854. Lei lo sostiene, è intraprendente, decisa, coraggiosa, unica donna fra i Mille di Garibaldi. I due vivono insieme per oltre venticinque anni. L'unità d'Italia cambia la loro vita, Francesco diventa deputato e con Rosalie al seguito si sposta nelle diverse capitali del Regno: Torino, Firenze, Roma. Il tempo passa e lei sfiorisce. IL rapporto tra i due si fa burrascoso. Lui è sempre più distante e sostiene che le loro nozze non hanno mai avuto validità. Nel 1878 si unisce a Lina Barbagallo con un matrimonio celebrato in casa perché nessuno sapesse niente. Nonostante gli sforzi, però, la notízía trapela e la stampa lo accusa di bigamia ponendogli alcune domande sulla sua moralità e sull'uso pubblico del suo potere. Ben sei domande dalle colonne de «Il Piccolo», it quotidiano più accanito. I giornali rivendicano il diritto di intervenire sulla questione sottolineandone la valenza pubblica. Crispi replica che sono fatti privati e a quelle sei domande non risponde. Perde però la fiducia del re ed è costretto a dimettersi da ministro. La magistratura apre un'inchiesta che si conclude con un giudizio a suo favore. Un "processo breve", anzi brevissimo. Crispi è ancora forte, nonostante le dimissioni, e la magistratura, piegata alle esigenze politiche, è sensibile al potere dominante.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788849830132

La sentenza

25 maggio 1878

Il processo

Come già sappiamo, il 27 dicembre del 1854, sull’isola di Malta, Crispi, alla presenza di due testimoni, a tarda sera, a casa del prete Marchetti, sposava Rosalie Montmasson.
Il 26 gennaio 1878, quando ancora il primo matrimonio non era sciolto, né mai era stato impugnato, e con la Montmasson ancora in vita, Crispi, nella città di Napoli, sposava la Barbagallo.
A tutta prima, non parrebbe esservi dubbio: Crispi era un bigamo e, quindi, punibile secondo il codice penale all’epoca vigente.
I maggiori giuristi del tempo ricordavano come la bigamia fosse considerata un reato abietto punito sin dall’antichità. «Nel Diritto Romano la bigamia era punita con l’infamia. […]. Le antiche leggi lo punivano con la frusta e la galera per gl’ignobili e con la relegazione pe’ nobili».
Addirittura – ricordava Francesco Carrara – «Giustiniano portò il castigo […] alla morte». Senza raggiungere punte così cruente, «altri statuti penali minacciarono chi la pena pecuniaria, chi la fustigazione, e chi l’estremo supplizio. Le leggi moderne hanno ridotto anche questa penalità a più ragionevoli proporzioni».
La pena prevista all’epoca del processo a Crispi dal Codice penale del Regno d’Italia era «la relegazione non minore di anni sette; salve le pene maggiori ne’ casi di falso».
Secondo l’art. 488 c.p. del tempo, commetteva il reato di bigamia «chiunque, essendo unito in matrimonio legittimo, ne contrae[va] un secondo, non ancora disciolto il primo».
La responsabilità penale di Crispi appare evidente.
Ma nel mondo del diritto è facile capovolgere certezze, creare e sviluppare questioni giuridiche, argomentazioni, spezzettare le norme e ricavarne concetti, moltiplicandoli, rilevare infinite sfumature. Non che questo sia sempre negativo, tutt’altro. Salvo alcuni rari casi, aiuta la più corretta applicazione della norma.
Ogni parola contenuta in un testo di legge diventa motivo di discussione ed ogni certezza può essere messa in dubbio.
E così anche per il reato di bigamia, che ha visto i più illustri giuristi cimentarsi, nel tempo, intorno a vivaci questioni interpretative. Cosa deve intendersi per matrimonio? E cosa dire dell’aggettivo legittimo? Quando un matrimonio può dirsi legittimo? Quando deve ritenersi disciolto il primo?
Sin qui siamo nell’ambito della pura teoria.
Ma è quando la norma si cala in un processo per verificarne la corrispondenza ad un fatto realmente accaduto che i caratteri della stessa appaiono ancor più sfumati e l’esito del giudizio si manifesta spesso tutt’altro che scontato.
Nelle antiche scuole di oratoria, veniva assegnato agli allievi un curioso ma utile esercizio: si illustrava un caso concreto e si chiedeva loro di scrivere ed argomentare due sentenze, una di assoluzione ed una di condanna.
Può sembrare incredibile ma, nella maggior parte dei casi, uno stesso fatto può essere letto ed interpretato in modo diametralmente opposto. E può anche accadere che il giudice abbia già deciso prima del tempo ed allora l’interpretazione dei fatti, l’interpretazione ed applicazione concreta delle norme segue il giudizio già esistente e non, come dovrebbe essere, viceversa. Per quanto difficile sia da accettare, ciò fa parte della natura umana.
In altre parole, si interpretano le norme, si interpretano i fatti ed i comportamenti umani. Basta trovare gli argomenti a sostegno della propria tesi. E non è sempre un’operazione così complicata.
È il vero e proprio pregiudizio.
E se questo è proprio della vita delle norme giuridiche e, si potrebbe dire, anche della natura umana, si può immaginare cosa accade quando a giudicare siano magistrati asserviti oppure compiacenti.

La magistratura di quegli anni

Il codice di procedura penale in vigore era quello approvato con r.d. 26 novembre 1865 che, con le dovute modifiche, rappresenta il codice piemontese del 20 novembre 1859 esteso a tutta la penisola.
Tale codice introdusse nel Regno d’Italia il cosiddetto «sistema misto» quale combinazione fra il sistema inquisitorio e quello accusatorio.
Erano introdotte delle novità interessanti a partire dalla prima fase del procedimento, quella della «Istruzione preparatoria», che si poteva concludere con un rinvio a giudizio – e quindi si passava alla fase del giudizio vero e proprio con sedute pubbliche – oppure poteva pervenire ad un proscioglimento, che è quanto avvenuto nella vicenda che ha visto coinvolto Crispi.
Tutto aveva origine da un’iniziativa del pubblico ministero il quale rivolgeva formalmente al giudice la richiesta di istruire il procedimento.
Il giudice istruttore indagava, cercava prove, in segreto. «Egli dovrà […] raccogliere tutti i mezzi di prova che si presenteranno nel corso dell’istruzione, e fare tutte quelle indagini che possono condurre alla manifestazione della verità»; così recitava l’art. 84, comma 2, del codice di procedura penale.
Era il giudice che, nella fase delle indagini, interrogava i testimoni.
Dopo l’istruttoria, il fascicolo passava al pubblico ministero affinché concludesse e, infine, nuovamente all’istruttore che, per i reati più gravi, ad esempio quelli punibili con l’ergastolo, riferiva al collegio, mentre, per i reati meno gravi, quale quello di bigamia, decideva da solo se rinviare a giudizio o disporre il non luogo a procedere.
Decideva chi aveva indagato. E decideva con un occhio alle conclusioni di un pubblico ministero dipendente dal governo.
È ancora lontano il modello accusatorio, attualmente in vigore nella nostra penisola, che impone, come principio fondamentale, che chi svolge le indagini e chi poi giudica siano soggetti diversi. Perché sta nella natura umana non poter essere obbiettivi nell’esprimere un giudizio dopo aver tentato di rinvenire prove a sostegno della prova tesi.
In questa fase, le parti private, come l’indagato, la vittima ed i loro difensori, non partecipano.
È inutile soffermarsi su quanto accadde nella successiva fase del giudizio giacché il processo alla bigamia di Crispi non v’è mai giunto.
Quanto al pubblico ministero, egli era, per l’ordinamento giudiziario dell’epoca, il «rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria» ed era «sottoposto alla direzione del ministro»; era il «procuratore del Re». Si dovrà arrivare all’ordinamento giudiziario oggi in vigore per vedere quella «direzione» diventare solo, si fa per dire, «vigilanza» e alla Costituzione repubblicana per l’espresso riconoscimento del carattere dell’indipendenza da ogni altro potere.
Al tempo della sentenza Crispi, tuttavia, il pubblico ministero era uomo del governo, lo rappresentava, ed era diretto dal Ministro.

L’inchiesta frettolosa e la difesa del Crispi

L’indagine avviata dalla Procura generale del re in Napoli si svolse in tempi molto rapidi. Il primo passo che formalizzava l’avvio della procedura era del 4 marzo. Due mesi e mezzo dopo, il 20 maggio 1878, l’indagine era conclusa ed il Procuratore del re chiedeva al giudice Istruttore che venisse dichiarato «non farsi luogo a procedimento». In appena cinque giorni, a tambur battente, il giudice istruttore accolse pienamente quella richiesta, seppure argomentando in modo parzialmente diverso dal magistrato requirente.
Tutto si decise in meno di tre mesi per una vicenda che, in quanto partita da Malta, aveva un risvolto internazionale.
L’interesse dei documenti giudiziari rinvenuti presso l’Archivio Centrale dello Stato è indubbio, sia per la risonanza che la storia dei due matrimoni ebbe sulla stampa, sia per gli effetti politici su Crispi, costretto a dimettersi sull’onda dello scandalo e poi riabilitato sul piano giudiziario proprio dalla pronuncia del giudice istruttore. Ritornò ancora da protagonista della vita politica italiana e, un decennio dopo i fatti che qui si narrano, diventò Presidente del Consiglio.
Sarà per come era congegnata la Magistratura di quegli anni, quella requirente e quella giudicante, per il peso politico dell’uomo sottoposto ad indagini, per l’oggetto di quelle indagini, ovvero la moralità, l’immagine pubblica di quell’uomo politico, per lo scandalo mediatico che ne era derivato, fatto sta che, leggendo quei documenti, l’impressione che se ne ricava è quella di un’istruttoria frettolosa – come se l’imperativo fosse quello di chiudere il più presto possibile – condotta con un sotteso pregiudizio, come se l’obiettivo da raggiungere fosse quello di dare veste giuridica alla tesi fornita da Crispi.
I due magistrati la fanno propria, finanche, come vedremo, nelle descrizioni più personali che lui diede delle ragioni che l’avevano spinto a quel passo, a sposarsi a Malta proprio allora e in quelle circostanze – «nel modo quasi clandestino con cui fu proceduto alla celebrazione di quelle nozze», com’ebbe a scrivere il giudice istruttore.
Quei magistrati definiscono quello di Malta «simulacro di matrimonio», esattamente come lo aveva definito nelle proprie difese Crispi.
«Il Piccolo», proprio sugli argomenti offerti da Crispi aveva espresso il proprio parere: «per sua difesa, altro non accampa che cavilli di gius canonico condannati dalla religione e, più che dalla religione, dalla morale».
Quei cavilli condannati dalla religione e dalla morale vennero ripetuti e fatti propri dai due magistrati.
Un’indagine ed un giudizio a senso unico.
Crispi era dimissionario, è vero, ed anche osteggiato da una parte dell’opinione pubblica, ma rimaneva pur sempre un potente uomo politico con un rilevante potere. Era stato disarcionato, ma non era rimasto a terra a farsi travolgere; aveva reagito, aveva combattuto.
A difendere Crispi in giudizio c’era l’avv. Diego Tajani, integerrimo magistrato d’origine calabrese, noto perché a Palermo nel 1871 aveva incriminato il questore Albanese accusandolo di trescare con la mafia.
Sconfitto a Palermo, si dimise dalla magistratura e poi trionfò a Roma. Fu lui l’eroe della discussione parlamentare dell’11 e 12 giugno 1875 quando i deputati del nuovo regno ascoltarono, sbigottiti ed increduli, quell’uomo alzarsi e pronunciare parole di fuoco contro il governo e contro i protettori della mafia in Sicilia. In modo spietato aveva detto: «la Maffia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale».
Tajani godeva di un immenso prestigio dopo quelle sue denunce. Ora era vicepresidente della Camera dei Deputati e alla fine dell’anno sarebbe stato nominato Ministro di Grazia e Giustizia. Il suo ascendente presso la magistratura napoletana, che ben lo conosceva per come faceva l’avvocato, era indubbio.
La scelta di farsi difendere da Tajani era sicuramente una mossa azzeccata sia perché era un bravo avvocato sia perché aveva una qualche possibilità di influenzare, anche solo in via indiretta, i giudici. Tajani s’era laureato a Napoli e in quel foro esercitava la professione di avvocato. Era conosciuto ed era stimato; e, a sua volta, conosceva l’ambiente ed i magistrati che vi lavoravano.
Tajani da solo, però, non tranquillizzava fino in fondo Crispi che chiese l’aiuto di Pisanelli perché intervenisse direttamente sui magistrati. Era nervoso, non si sentiva sicuro, era preoccupato – «mi dicono che pensino ad una scappatoia per non decidere secondo giustizia» – temeva che i giudici si lasciassero influenzare da altri, e perciò implorò aiuto: «fa’ quello che puoi per dare coraggio a coteste anime paurose. Fa’ che io esca dalle angustie di un processo, che mi tormenta tanto l’anima, quantunque abbia pura la coscienza da ogni macchia».
Quelle «anime paurose», evidentemente, furono debitamente rincuorate.
Come richiesto dal Procuratore del re alla fine di una elaborata, quanto discutibile requisitoria, il giudice istruttore, con una meno elaborata ma ancor più discutibile decisione, dichiarò «non farsi luogo a procedimento penale».
La considerò una «splendida sentenza». Già, più di quanto potesse aspettarsi; quell’indagine non giunse mai a processo, si arrestò prima, non si fece luogo a procedimento penale, si evitò il pubblico dibattimento e tutta l’eco che avrebbe portato...

Indice dei contenuti

  1. Copertura
  2. Titolo Pagina
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Il matrimonio con Rosalie Montmasson Malta, 27 dicembre 1854
  6. Il matrimonio con Lina Barbagallo e lo scandalo Napoli, 26 gennaio-27 febbraio 1878
  7. La sentenza 25 maggio 1878
  8. Allegati
  9. Appendice iconografica
  10. Bibliografia