Rivista di Politica 3/2014
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Verità e politica: esistenza, filosofia e democrazia

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Verità e politica: esistenza, filosofia e democrazia

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IndiceCONGETTURE E CONFUTAZIONIBetter together: il referendum scozzese e la preferenza per il Regno Unito di Claudio MartinelliL'IS e l'Iraq: il crollo della statualità e le scelte contradditorie degli Stati Uniti di Andrea BeccaroSe l'Europa ha perso il "motore politico" francese di Michele MarchiPer un bilancio del berlusconismo (guardando all'oggi) di Maurizio GriffoLa democrazia e i suoi equivoci (interpreti) di Danilo BreschiA cento anni dalla "Settimana Rossa" tra ricostruzione storica e immaginario noir di Emilia MusumeciDOSSIER: VERITÀ E POLITICALa verità come questione fondamentale e come problema politico Giulio De LigioLa verità della politica. Filosofia e democrazia in Cornelius Castoriadis Francesco CallegaroIl pensiero politico. Il conflitto tragico tra filosofia e democrazia Cornelius CastoriadisVerità dell'esistenza e politica in Eric Voegelin Umberto LodoviciSul dibattito e l'esistenza Eric VoegelinL'uomo di scienza e il politico. Per una filosofia pratica Pierre ManentSAGGIPolemiche ideologiche Aresh VedaeeL'informazione: effetti perversi di un bene politico Antonio Giuseppe BalistreriOSSERVATORIO INTERNAZIONALEPiccole guerre e grandi strategie Giuseppe RomeoANALISI E DISCUSSIONILa crisi, l'innovazione e lo Stato. Su due libri di Mazzucato e Phelps Alberto Mingardi

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788849843545

CONGETTURE E CONFUTAZIONI

Better together:
il referendum scozzese
e la preferenza per
il Regno Unito

di Claudio Martinelli
«Sono nato nel Regno Unito, vivo bene nel Regno Unito, preferisco essere scozzese restando nel Regno Unito, piuttosto che avventurarmi su un terreno incerto e oscuro». Con queste parole un collega dell’Università di Edimburgo mi spiegava, alla vigilia del referendum, le semplici ragioni che l’indomani lo avrebbero portato a votare contro l’opzione indipendentista. Parole rappresentative di un mood molto diffuso in un elettorato pragmatico e disincantato, al cui interno hanno prevalso considerazioni concrete di carattere “utilitaristico”, a scapito di pulsioni di ordine etnico e nazionalista.
Cionondimeno, il referendum indipendentista celebrato il 18 settembre 2014 costituisce un punto di svolta nella storia costituzionale del Regno Unito. La vittoria dei “No”, ottenuta con una maggioranza schiacciante (55,3%, e con una partecipazione al voto pari all’84,6%, particolarmente massiccia), andata ben oltre le più rosee aspettative degli unionisti, conclude in modo chiaro e netto una lunghissima vicenda storica con radici plurisecolari in cui si intrecciano inscindibilmente miti identitari e problematiche socio-economiche.
Senza rievocare le lotte medievali per l’indipendenza scozzese, basti ricordare che nel 1603, alla morte di Elisabetta I (che non lascia eredi), viene stretta l’“Unione delle Corone” di Scozia e d’Inghilterra: Giacomo VI di Scozia diviene per via ereditaria anche Giacomo I d’Inghilterra. Un’unione personale che avrebbe potuto sciogliersi, giuridicamente e politicamente, in qualunque momento. Solo con l’Act of Union del 1707, che stabilisce l’Unione tra i due Parlamenti, viene sancita la nascita del Regno Unito di Gran Bretagna, di cui fanno parte Inghilterra, Galles e Scozia (e a cui nel 1801 si aggiungerà l’Irlanda). Ma questa fusione parlamentare arrivava dopo secoli di lotte tra i due popoli, tensioni e conflitti per ragioni economiche, religiose, culturali, con boicottaggi di iniziative imprenditoriali e commerciali. L’Act of Union 1707 mirava a chiudere queste diatribe e a definire sia gli spazi comuni (tra gli altri, il Parlamento di Westminster), sia i reciproci ambiti di autonomia (per esempio, quelli relativi all’ordinamento giuridico, al sistema giudiziario, alle differenti Chiese nazionali). Questi, però, erano soprattutto gli intendimenti degli inglesi, che sostanzialmente imposero l’accordo agli scozzesi, una buona parte dei quali non lo volle accettare dando vita alle rivolte giacobite che imperversarono fino alla metà del Settecento.
Questa breve panoramica mostra come le ragioni che stanno alla base dell’indipendentismo scozzese non solo sono radicate ma anche teoricamente giustificate da una sorta di subordinazione patita nei confronti degli inglesi, che per lunghissimo tempo hanno faticato ad accettare la necessità di concedere forme di autogoverno agli scozzesi, pur nell’ambito di uno Stato unitario, e dal desiderio di affermare una specificità culturale i cui caratteri sono ben visibili a chiunque abbia modo di frequentare le Isole Britanniche. Prova ne sia la fondazione fin dal 1934 dello Scottish National Party (un partito fautore di un nazionalismo sui generis: progressista, europeista e inclusivo, anche sul tema dell’integrazione degli immigrati); nonché le reiterate richieste di una parte cospicua della società scozzese verso il governo di Londra per il riconoscimento di forme più accentuate di autonomia legislativa e amministrativa, che però arriveranno solo alla fine degli anni Novanta con l’avvio del processo di devolution e la costituzione di un vero e proprio Parlamento scozzese.
È in questo quadro storico e concettuale che maturano le condizioni per lo show-down che porta alla celebrazione del referendum indipendentista. Nel 2011 l’SNP vince le elezioni per il Parlamento di Edimburgo, conquistando la maggioranza assoluta, e il suo leader Alex Salmond, First Minister dello Scottish Government, mette questo risultato politico sul tavolo della trattativa con il Primo Ministro David Cameron, giocando la carta del pronunciamento popolare circa il futuro della Scozia.
La possibilità di indire un tale referendum non era contemplata tra le materie oggetto della devoluzione; pertanto il governo nazionalista scozzese non avrebbe mai potuto fare questo passo senza il consenso di Londra. A sua volta, il Cabinet del Regno Unito, e in particolare il Primo Ministro, colse rapidamente la necessità politica di non frapporre ostacoli a questa consultazione, pena l’ulteriore incremento di consensi per il partito nazionalista e una recrudescenza delle velleità indipendentiste. Per la verità Salmond aveva prudentemente cercato di ottenere da Cameron la “third option”, cioè l’inserimento, accanto a quello sull’indipendenza, di un ulteriore quesito con cui chiedere ai cittadini se fossero favorevoli ad un ulteriore incremento dei poteri devoluti al Parlamento di Holyrood, sulla falsariga di quanto avvenuto nel precedente referendum del 1997, in cui con due quesiti separati era stato richiesto di pronunciarsi sull’istituzione di un Parlamento scozzese e sui poteri di imposizione fiscale dello stesso. Ma su questo punto Cameron non volle sentire ragioni perché capiva che l’unico modo per volgere a proprio favore questa partita politica era imporre un quesito secco, formulato nei termini seguenti dalla Electoral Commission: “Should Scotland be an independent country?”.
Una volta raggiunto l’accordo politico tra i due Governi (firmato a Edimburgo il 15 ottobre 2012) la strada verso il referendum era spianata, anche se sul piano giuridico la sua indizione ha poi seguito un procedimento inevitabilmente macchinoso e con qualche passaggio controverso in ordine alla correttezza costituzionale.
Tecnicamente l’iter vede l’approvazione nel corso del 2013 di due paralleli Scottish Independence Referendum Bill da parte dei Parlamenti di Holyrood e di Westminster, volti a disciplinare le regole giuridiche sulla base delle quali il referendum avrebbe dovuto svolgersi. Tra quelle strategicamente volute dall’SNP, due in particolare hanno destato da subito notevoli perplessità: l’estensione del diritto di voto ai sedicenni e la limitazione del suffragio attivo a tutti i residenti in Scozia, quindi con inclusione dei cittadini comunitari e l’esclusione degli scozzesi non residenti, come, per esempio, coloro che vivono in Inghilterra e che si suppone essere in maggioranza unionisti.
Nel frattempo si erano già formati i due comitati contrapposti: Yes Scotland per gli indipendentisti e Better Together per gli unionisti. Il primo è egemonizzato dall’SNP e comprende anche alcune formazioni indipendentiste minori; al secondo aderiscono le strutture scozzesi dei tre partiti britannici tradizionali: Conservatori, Laburisti e Liberal-Democratici. Tutti questi soggetti politici danno vita ad una campagna referendaria intensa, vivace, combattuta sia sui media che nelle piazze, ma sostanzialmente corretta e serena, nella consapevolezza della portata epocale della posta in gioco. Ma, appunto, quale era la reale dimensione della scelta in questione? Sul piano istituzionale era tutto sommato abbastanza semplice dare una definizione precisa: la cancellazione dell’Atto di Unione del 1707, con una sorta di ritorno all’unione personale successiva al 1603, con due Parlamenti pienamente sovrani sui rispettivi territori e una Corona in comune, per lo meno fino ad un vagheggiato futuro referendum scozzese con l’opzione Monarchia-Repubblica.
Molto più arduo era prevedere le esatte conseguenze di una eventuale vittoria degli “Yes” sul piano economico-finanziario. Che ne sarebbe stato della currency, ovvero dell’unione monetaria? Da sempre la Scozia, tramite alcune sue banche, batte una moneta, la Sterlina scozzese, che si pone in un rapporto paritario con il GBP stampato dalla Bank of England; ma ovviamente questo rapporto è strettamente legato al fatto di essere parte dello stesso Stato. Gli scozzesi avrebbero voluto conservarlo comunque, ma gli inglesi facevano loro presente che non lo avrebbero consentito. Allora, per tutta risposta, gli scozzesi minacciavano di non accollarsi la propria parte di debito pubblico (che peraltro nessuno sapeva indicare con certezza come calcolare). E ancora, come trattare i futuri proventi del petrolio del Mare del Nord: tutti scozzesi, magari con la previsione di un indennizzo per le altre Country del “vecchio” Regno Unito, oppure da suddividere, e in che modo? Per non parlare del rapporto con l’Unione Europea: la richiesta di ingresso della Scozia come Stato autonomo, fortemente caldeggiato da tutte le formazioni indipendentiste, come sarebbe stato accolto politicamente dagli Stati della Ue? Alcuni avrebbero certamente innalzato un muro temendo, come la Spagna, il diffondersi del virus separatista. Inoltre, sul piano giuridico, era già scattato un acceso dibattito, in Gran Bretagna e anche fuori, tra chi riteneva possibile applicare l’articolo 48 del TUE, cioè la norma che presiede alla modifica dei trattati, e chi invece richiamava la necessità di fare riferimento all’art. 49, che disciplina le ben più macchinose e lente modalità di adesione di uno Stato ex-novo. Non esistendo precedenti cui appellarsi il dibattito era destinato a protrarsi nel tempo.
Tutte queste incertezze, su cui ovviamente ha puntato molto Better Together, venivano scansate da Yes Scotland dicendo che tanto poi si sarebbe trovato un accordo su tutti questi aspetti con i soggetti interessati, senza drammi e problematiche eccessive. L’elettorato, però, ha mostrato di non fidarsi affatto di queste rassicurazioni, temendo di perdere per sempre le condizioni di una realtà socio-economica che tutti gli osservatori definiscono invidiabile sotto molti punti di vista (la Scozia è una delle aree europee che meglio si è ripresa dalla crisi e la cui crescita economica farebbe, in termini relativi, la fortuna di molti governi nel mondo). Preferendo la permanenza nel Regno Unito ha invece dato fiducia alle promesse elargite copiosamente, soprattutto verso la fine della campagna referendaria, da tutti i partiti britannici, i cui leader hanno perfino firmato congiuntamente un Manifesto, intitolato significativamente “The Vow”. Nel documento, Cameron, Miliband e Clegg si impegnano ad ampliare i poteri decisionali del Parlamento scozzese, in particolare sul tema dell’utilizzo delle risorse relative al Servizio sanitario nazionale (NHS), e ad elaborare una road map chiara e certa attraverso cui approvare un Act parlamentare con cui vengano ampliati gli spazi di autonomia per tutte e quattro le nazioni di cui si compone lo United Kingdom.
Ed in effetti sembra proprio questo il dato politico più rilevante determinato dalla vittoria dei “No”: avere costretto tutti i partiti tradizionali, o per lo meno le loro leadership, ad uscire allo scoperto su questi temi, abbandonando diffuse e antiche ritrosie, per contemplare la necessità di addivenire ad ulteriori e più forti devoluzioni di potere in materia fiscale e di welfare.
Si apre ora per il Regno Unito una nuova partita istituzionale, non priva di punti interrogativi e di delicati nodi politici. La battaglia per la devolution sarà tutta da giocare a Westminster e gli esiti finali non sono affatto scontati. Intanto perché sono sul tappeto diverse possibili graduazioni, quantitative e qualitative, ribattezzate dalla dottrina con alcune eloquenti sigle: Devo-more; Devo-plus; Devo-max. Inoltre, perché non vanno trascurate le voci critiche, che già si sono levate all’interno del Partito conservatore, sostenitrici di un punto di vista molto diffuso in Inghilterra che sottolinea come una struttura dello Stato di tipo autonomistico-federale non appartenga alla tradizione britannica e pertanto debba essere rigettata. In questo quadro è del tutto evidente che dovranno essere affrontate e risolte tutte le problematiche riguardanti le asimmetrie prodotte finora dal processo di devolution, come la cosiddetta West Lothian Question, cioè la situazione di fatto per cui i deputati scozzesi a Westminster si occupano legislativamente di tematiche interne all’Inghilterra (priva di processo devolutivo), mentre non può accadere il reciproco; o la Barnett formula, ovvero il meccanismo finanziario che regola i trasferimenti di risorse dal Governo di Londra alle Amministrazioni devolute, fortemente criticata in dottrina a causa dei suoi rigidi automatismi che tolgono spazio alla contrattazione tra centro e periferia e finiscono per deresponsabilizzare la gestione della spesa da parte delle autonomie territoriali.
Insomma, una fase politica nuova e suggestiva che si apre proprio grazie alla chiusura della storica partita indipendentista. E da questo punto di vista bisogna riconoscere come il vero vincitore di questa battaglia epocale sia certamente David Cameron, che ha preteso di giocare una partita forse azzardata (se le cose gli fossero andate male avrebbe concluso la sua carriera politica), ma che a conti fatti ha chiuso una questione epocale che covava sotto la cenere della società scozzese da più di trecento anni e che spesso era stata una spina nel fianco di molti Primi Ministri, compresa Margaret Thatcher. Prendendo esempio proprio dalla Lady di Ferro e dalla sua propensione a combattere a viso aperto battaglie decisive (Falkland, minatori del Galles, sindacati onnipotenti), Cameron ha voluto sfidare i nazionalisti sul loro terreno, riportando una vittoria storica, soprattutto per un Premier tory. Certo, ora dovrà prepararsi a fronteggiare la contrarietà di una parte importante del suo partito all’incremento della devolution, e tuttavia non bisogna dimenticare che recentemente lo stesso Cameron non ha esitato a spaccare il gruppo parlamentare conservatore pur di portare a termine vittoriosamente la battaglia di principio in favore del riconoscimento dei matrimoni gay, conseguita grazie ad un’alleanza trasversale con i laburisti a Westminster.
In conclusione, sia consentita un’annotazione comparativa. Il referendum scozzese ha eccitato gli animi di molti movimenti indipendentisti presenti in Europa: Catalani, Baschi, Fiamminghi, Corsi, Padani, etc., tutti presenti con un cospicuo numero di attivisti nelle città scozzesi durante la settimana del voto, nella convinzione che un risultato favorevole alla disgregazione del Regno Unito avrebbe creato un “effetto domino” anche nei loro Paesi, nei quali sarebbe stato più semplice chiedere di celebrare consu...

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  4. Numero 3 Luglio-Settembre