Non regalatemi una banca
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Prefazione di Paolo SavonaHa senso oggi, per un privato, investire in una banca italiana? Il settore – dopo anni di pulizia dei bilanci e ricapitalizzazioni mostruose – rappresenta ancora un'opportunità oppure è un rischio mal calcolato? La risposta di Ernesto Preatoni, imprenditore che ha dato il via a una carriera caratterizzata da una serie di geniali intuizioni proprio attraverso l'acquisizione e la successiva vendita di alcuni tra i più importanti istituti di credito italiani, è tranchant: le banche oggi non solo non rappresentano un affare, ma addirittura costituiscono, nella stragrande maggioranza dei casi, imprese rischiosissime quando non tecnicamente fallite. Aziende che un imprenditore coscienzioso non vorrebbe gestire neppure se gli venissero regalate. Aziende che possono essere salvate solo dallo Stato. Da qui il titolo di questo nuovo libro, in cui Preatoni racconta la ratio con la quale decise di puntare sul settore del credito negli anni '90, i successi raccolti attraverso le operazioni condotte, ma anche lo sconcerto provato, scoprendo fino a che punto si fossero deteriorati, nel giro di pochi anni, i bilanci delle banche italiane. Preatoni racconta i retroscena di un settore – quello bancario – che se l'uomo della strada ha sempre percepito come paludato e guidato da rigidi e illuminati tecnici in grisaglia, si rivela, sin dagli anni '80, nella realtà, come un insieme di imprese con a capo funzionari poco preparati, spesso guidati nelle proprie scelte dall'amicizia con questo o quel rappresentante di qualche centro di potere sul territorio. Imprese che sembrano aver fatto utili nonostante manager insipienti e attenti solo ad accrescere il proprio potere. Nel corso del libro l'autore ricostruisce la parabola discendente del settore, dando conto a tutti quei piccoli risparmiatori convinti, loro malgrado, a investire in azioni e obbligazioni di banche fallite, del perché il credito sia arrivato a un tale punto di deterioramento e del perché in molti, già parecchi anni fa, probabilmente conoscessero quanto avanzato fosse lo stato di crisi delle banche italiane. Insomma: il settore, così com'è, difficilmente potrà continuare a sostenere l'economia reale. Il mercato e la regolamentazione europea non lo permettono più. Gli istituti di credito non hanno perciò un futuro? Secondo l'autore potrebbero non averlo, a meno che chi li gestisce non adotti un nuovo modello di business per tornare a fare banca. Come? Attraverso un cambio, radicale, di paradigma, che adegui il settore ai nuovi scenari di mercato.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788849853506
Argomento
Economics

Capitolo Quarto

Il seme del disastro

Un giovane collaboratore una volta mi ha fatto una domanda che mi ha dato da pensare. Mi ha chiesto com’era gestire una banca. All’inizio gli risposi quasi scocciato: «Io non ho mai voluto gestire nessuna banca, a me interessava acquisirle per poi rivenderle». Dico la verità: sono arrivato, sì e no, a metà della frase.
Mentre parlavo, infatti, mi ha attraversato la testa un pensiero, fatto di tutti i titoli di quotidiani dedicati alle perdite di Monte Dei Paschi di Siena, Popolare di Vicenza, Veneto Banca e via elencando di disastro in disastro. Prima di concludere la risposta, ho guardato il mio collaboratore e ho provato a spiegargli cosa trovai quando, alla fine del 1988 mi trovai a partecipare agli organi di governo del Credito Bergamasco.
Il momento più importante per la banca era costituito dalla riunione del consiglio di amministrazione. In quella sede venivano prese le decisioni più importanti per il futuro della banca. Ora: il ricordo più impressionante che ho di quei momenti risale al primo consiglio in cui venni coinvolto.
All’ordine del giorno, come in ogni riunione, c’era l’approvazione di una trentina di finanziamenti di grosso importo. Si tratta di pratiche assai complesse, potenzialmente ad alto rischio per l’istituto se il creditore smette di pagare le rate e, per questo motivo, implicavano anche una responsabilità assai significativa per gli amministratori.
Io sinceramente mi chiedevo come facessero quelle persone a prendersi una responsabilità così grande: si trattava, infatti, di decidere su prestiti che avevano richiesto anche sei mesi di lavoro e incartamenti. Come facevano questi signori, nel giro di un pomeriggio, ad approvare oppure a respingere operazioni di tanta complessità?
Volete la risposta? Semplicemente non se ne occupavano.
Il consiglio di amministrazione – in quella riunione come in molte altre – sembrava più o meno una classe di liceali quando si ritrova di fronte a una supplente di scarsa esperienza e, magari, anche di una materia non esattamente importante. Se ne fregavano. Mentre il direttore generale leggeva l’ordine del giorno, gli altri semplicemente sbadigliavano, mangiavano, chiacchieravano, telefonavano, scrivevano, facevano qualunque cosa, tranne entrare nel merito della questione. Restai allibito.
Non dissi niente ma cercai di capire su quali basi i consiglieri decidevano di approvare o respingere la richiesta di finanziamento di questo o quel cliente (che spesso era anche azionista). La procedura era semplicemente questa. Chi chiedeva il prestito doveva prendere contatto con il dirigente giusto. Se ci riusciva andava tutto a posto. Altrimenti la domanda veniva respinta. Il contenuto della richiesta era assolutamente secondario. Contava soprattutto l’amicizia giusta. Tanto più semplice da trovare se l’area di attività della banca era piccola. Se andiamo a vedere le banche commissariate dalla Banca d’Italia, leggiamo tutti nomi di luoghi non riconducibili alle grandi città: Bcc di Terra d’Otranto, Istituto per il Credito Sportivo, Cassa di risparmio di Ferrara, Cassa di risparmio di Loreto, Cassa di risparmio di Chieti, Popolare dell’Etna, Popolare delle Province Calabre, Banca Romagna Cooperativa, Bcc Irpina, Banca Padovana, Banca Marche, Cassa Rurale di Folgaria, Credito Trevigiano, Banca di Cascina, Banca Brutia. Difficile rifiutare un finanziamento all’amico con cui il presidente è stato a cena la sera prima.
Oggi la situazione non è molto diversa. La mistica del localismo è stata sempre spacciata come il valore aggiunto delle banche popolari e del credito cooperativo. Come i parroci di campagna o il maresciallo dei carabinieri anche il banchiere conosce bene la comunità in cui opera. Per questo non può sbagliare. In realtà il localismo si è rivelato il veleno che ha ucciso le banche. Attorno alla banca si è creato un reticolo fatto di complicità, di rapporti di confraternita ma anche di ricatti che ha annullato qualunque capacità di valutazione del merito di credito.
Per far funzionare una banca locale serve un supplemento di moralità e un senso di responsabilità che supera di gran lunga quella del buon padre di famiglia richiesto dal codice civile. Invece la nostra storia è popolata di “ominicchi” come li aveva definiti Leonardo Sciascia. Lo stesso ragionamento vale per Mps. Addirittura in forma esponenziale: la terza banca italiana con sede in una città da centomila abitanti. A Siena dove non c’era famiglia che non avesse un congiunto impiegato al Monte e non c’era impresa o bottega che non conoscesse i dirigenti. La banca finanziava tutto. Anche il Palio per non parlare della squadra di basket, plurivittoriosa a livello nazionale ed europeo, e di calcio. A Siena lo chiamavano “Babbo Monte”. Come non capire. La politica faceva il resto. “Abbiamo una banca?” chiede carico di speranza Piero Fassino, segretario Ds a Giovanni Consorte che, con Unipol, sta scalando Bnl. Dimentica che il partito una banca già la controlla pur senza mai averci investito un soldo. Proprio per questo non ne aveva nessun rispetto.
Considero la distrazione dei consigli d’amministrazione il germe di ogni male delle banche italiane, in particolare per quanto riguarda il tema dei non performing loans, un termine complicato per rendere più difficile la comprensione ai contribuenti che stanno salvando le banche italiane il fatto che manager infedeli o incapaci abbiano prestato soldi a casaccio ad amici. Soldi che non sono più tornati indietro e che hanno fatto fallire le banche. Per anni ha funzionato un circolo vizioso: nei consigli d’amministrazione venivano eletti i compagnucci di merende del blocco di potere che controllava la banca. Poi i finanziamenti venivano concessi agli stessi amministratori o ai loro sodalizi. Le selezioni in base al merito di credito funzionavano solo per gli estranei al circolo. Dovevano essere proprio bravi e avere progetti molto validi per ottenere i prestiti che cercavano. Anche così, però, era difficile. Io, per esempio, non facendo parte di nessun club, ho sempre avuto molte difficoltà quando ho bussato alle porte delle banche italiane. Infatti poi ho smesso.
Aggiungo un elemento. Chi mi conosce, chi mi ha seguito nelle mie battaglie sul tema delle banche sa che ho sempre lottato contro il concetto di banche popolari (la Lecco e il Credito Bergamasco non erano banche popolari), che poi, alla fine, Matteo Renzi con un decreto e un colpo di mano ha giustamente abolito. Almeno per le dieci popolari più grandi, che ormai era impossibile considerare banche del territorio. Erano istituti di dimensione nazionale e talvolta anche internazionale che utilizzavano però la governance delle banche popolari per difendere il ruolo dei gruppi dirigenti. Erano gestioni autocratiche, il cui statuto prevedeva il principio di “una testa, un voto”. Potevi avere quante azioni ti pareva, il tuo voto valeva sempre e solo uno.
Sulla base di questo principio i sindacati hanno governato per 50 anni molte di queste banche a cominciare dalla Banca Popolare di Milano potendo contare sul voto dei dipendenti e dei pensionati azionisti. Un’aberrazione. Tanto è vera questa mia affermazione che Luigi Luzzati, l’economista che ha creato un secolo e mezzo fa il sistema delle banche popolari in Italia (fu tra i fondatori della Lodi e della Milano), aveva vietato ai dipendenti di esserne anche azionisti. Capiva benissimo il conflitto d’interessi che si sarebbe creato. I suoi successori, però, hanno sostanzialmente tradito la sua eredità. D’altronde l’interesse era reciproco: i capi del sindacato e i dirigenti della banca si spartivano il potere alle spalle dei clienti e degli azionisti. Il presidente o l’amministratore delegato chiedevano i voti in assemblea per essere confermati (o eletti) insieme al resto del consiglio d’amministrazione. I sindacati, attraverso le filiali, naturalmente mettevano a disposizione quello che serviva. Tranne poi, il giorno dopo l’assemblea bussare alla porta della dirigenza per incassare il credito che avevano ottenuto. Fino a quando l’economia ha tirato gli utili dell’intermediazione hanno coperto le perdite. Quando il grasso è scomparso sono rimasti solo i bilanci in rosso.
Ora: uno dei fatti di cui più spesso i rappresentanti di queste banche si sono vantati per molto, troppo tempo, era la vicinanza della banca al territorio e la capacità, quindi, dei manager e dei dirigenti dell’istituto di valutare con criterio il valore dei prestiti concessi alla propria clientela.
Niente di più falso e di più sbagliato. Il tema qui non è se il direttore della filiale di Carate Brianza di una certa banca sia o meno in grado di giudicare il merito creditizio di questo o quell’imprenditore brianzolo. Il tema è – come ha dimostrato, ad esempio, il caso di Banca Popolare di Vicenza – che clienti e consigli di amministrazione insipienti si sono sostenuti a vicenda per anni, scambiando addirittura pacchetti di azioni con prestiti. Ovvero: eravamo arrivati al punto che gli imprenditori venivano finanziati purché con parte del prestito acquistassero azioni della banca, sostenendo così il titolo. Siamo alle soglie dello schema Ponzi.
E ci stupiamo se il settore si è schiantato?
Io in ogni caso non mi sono per niente stupito quando ho avuto la possibilità di leggere cosa accadeva in Veneto. Del resto, non c’è niente di nuovo sotto il sole: nel 1994, nel pieno della battaglia che ingaggiai per conquistare la Banca Popolare di Crema, fui obbligato a una serie di azioni legali per “convincere” gli amministratori dell’istituto ad accettare tra i soci alcune persone che, insieme a me, stavano acquistando azioni della banca. Si trattava di persone specchiatissime, che non venivano iscritte a libro soci perché gli amministratori, spaventati all’idea che si potesse andare alla conta in assemblea, si appellavano alla famosa “clausola di gradimento”.
Si trattava di un codicillo nello statuto della banca – un codicillo che è servito per anni alle popolari a tenere lontani tutti gli eventuali soci “scomodi” – secondo il quale i vertici dell’istituto avevano la possibilità di escludere dal diritto al voto eventuali azionisti ritenuti sgraditi. Di solito si applica a chi ha commesso reati gravi, ad esempio. Nel nostro caso – mentre scalavamo la banca – i vertici della Crema decisero di escludere me e alcuni azionisti che insieme a me stavano comprando azioni, senza una chiara motivazione.
Presentai svariate denunce contro gli amministratori della Crema per l’uso illegittimo di quella clausola, denunce che vennero accolte dalla Corte di Appello di Brescia. Proprio in quel periodo, per un caso fortuito, incontrai Cesare Pasquali, il presidente della Banca: mi aggredì con violenza verbale e una virulenza che trovavo totalmente fuori luogo. Per me si trattava di affari, non era certo una questione personale.
Non riuscivo a capire. Solo con il tempo ebbi più chiara la situazione. Quel signore, di scarsa cultura e poche conoscenze tecniche, non voleva perdere la banca perché sarebbe scomparso dal club dei notabili della sua comunità. Come presidente della Crema aveva una visibilità sociale molto elevata. Gestiva potere economico, finanziario e politico: sindaci, consiglieri comunali, deputati facevano la file per ottenere il suo appoggio e qualche finanziamento (la politica costa). Faceva affari, i suoi concittadini lo riconoscevano per strada, si scappellavano al suo passaggio. Era stato nominato presidente del Rotary. Nella sua testa non gli stavo portando via solo una banchetta di scarse dimensioni, gli stavo rubando il posto al sole che pensava di essersi meritato e lo facevo unicamente per ottenere una plusvalenza. Per lui tutto questo era inaccettabile.
Devo dire che però la sua visione era inaccettabile anche per me.
Mi stavo rendendo conto – e questa per me ormai è una realtà consolidata – che spesso gli istituti di credito in Italia sono stati controllati e gestiti da totali sprovveduti. Senza alcuna idea del modello di business che deve avere un’azienda attiva in questo settore. Banche considerate delle corazzate inaffondabili solo per il fatto di aver generato cassa per anni senza bisogno di affinare troppo un business rimasto uguale a se stesso per troppo tempo. Trattate come un bancomat a cui attingere per questa o quella iniziativa e come centro di potere sul territorio e nel Paese. Naturalmente con la complicità della politica. Il sistema delle banche popolari controllava un numero abbastanza cospicuo di parlamentari in maniera piuttosto trasversale: dal senatore di questo o quel partito, fino ai responsabili economici di partiti di maggioranza e di opposizione e deputati delle fazioni che si definivano contro il sistema. Ecco perché si sentivano assolutamente intoccabili. I capi delle banche popolari non volevano nessuna riforma e sapevano che nessuna riforma sarebbe stata approvata senza il proprio consenso.
Avevano fatto soldi – pensavano soci e manager – in passato e avrebbero continuato a farne anche in futuro.
La realtà si è rivelata diversa, però. Anzi, drammaticamente diversa: oggi il settore bancario – anche se lorsignori, ovvero governo, associazioni di categoria e sindacati – hanno paura di dirlo si ritrova a un punto di svolta che assomiglia a quello che, negli anni ’80, ha dovuto affrontare l’industria dell’acciaio. Le banche online, la concorrenza degli istituti stranieri e i nuovi requisiti di capitali collegati alla sorveglianza unica sul settore bancario, costringeranno chi opera in questo settore in Italia a tagli di personale draconiani e a chiusure massicce di agenzie e filiali. O così o fallire, non c’è verso.
La situazione sarebbe stata diversa se in passato gli istituti fossero stati gestiti con un po’ più di criterio. Sento spesso raccontare – soprattutto dai manager che hanno presentato rendiconti deludenti – che le banche hanno sofferto per colpa dei tassi zero imposti dal Quantitative Easing di Draghi. ...

Indice dei contenuti

  1. NON regalatemi una banca salvo che...
  2. Colophon
  3. Prefazione: Una mia lettura di “NON regalatemi una banca salvo che...” di Paolo Savona
  4. Capitolo Primo: Serviva un altro libro sulle banche?
  5. Capitolo Secondo: “Siamo al dunque” (ma qualcuno fa finta di non saperlo)
  6. Capitolo Terzo: Il genio secondo il Perozzi
  7. Capitolo Quarto: Il seme del disastro
  8. Capitolo Quinto: La moralità cattiva scaccia quella buona
  9. Capitolo Sesto: Scambi di favori e di prestigio
  10. Capitolo Settimo: La galleria degli orrori
  11. Capitolo Ottavo: La cinghia di trasmissione
  12. Capitolo Nono: Una strana telefonata
  13. Capitolo Decimo: Il saldo della crisi
  14. Salvo che….
  15. Ringraziamenti
  16. Indice