Violenza
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Un'analisi sociologica

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Per dare un pugno in faccia a una persona e farla sanguinare, non occorre avere un corpo muscoloso. E non occorrono nemmeno motivazioni o ideologie particolari. Occorre superare ciò che Randall Collins chiama la «barriera emotiva della paura dello scontro» che si è sviluppata negli uomini in seguito al processo di civilizzazione. Gli scontri che avvengono nelle interazioni della vita quotidiana – per le strade, nei bar, sui luoghi di lavoro, nelle aule scolastiche ? si concludono, nella grande maggioranza dei casi, con insulti, grida e minacce. Anche nei rari casi in cui si giunge al contatto fisico, la violenza è, quasi sempre, incompetente e inefficace. Non è vero ? spiega Collins ? che gli uomini sono naturalmente violenti, pronti ad aggredirsi al minimo pretesto. Questa idea è un "mito" alimentato dal cinema, dalla televisione e dai romanzi. L'uomo si riempie di una grande tensione emotiva tutte le volte che è in procinto di aggredire o di essere aggredito. Affinché la violenza sia efficace, gli uomini devono interagire strategicamente per colpire in condizioni emotivamente favorevoli.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788849842685
Categoria
Sociologia

PARTE TERZA

Le dinamiche e le strutture delle situazioni violente

6. La minoranza violenta

La violenza si presenta sempre sotto forma di una ridotta porzione di individui che sono attivamente violenti, e di un numero ancor più ridotto di persone violente in modo competente. Sullo sfondo, è generalmente posizionata una folla più numerosa, che rimane emozionalmente coinvolta da quello che accade. A volte queste tre categorie sono verosimilmente parte dello stesso gruppo, degli stessi rivoltosi, dello stesso esercito o forza di polizia, della stessa gang, degli stessi sostenitori, un insieme ampio che si potrebbe definire nominalmente violento. Spesso, tuttavia, anche l’audience è stratificata, e divisa tra quanti sostengono i violenti e quanti sono semplicemente curiosi, affiancati in ultima istanza dagli spettatori casuali. D’altra parte possono anche esserci differenti strati di oppositori e vittime, possibilmente con i loro stessi sostenitori, i loro fiancheggiatori e così via. Tutti questi attori, insieme, creano la scena sociale, una struttura permeata di emozioni legate e alimentate dal confronto. La minoranza violenta è quella parte in grado di utilizzare a proprio vantaggio questo campo emozionale.

LA LEGGE DEI PICCOLI NUMERI APPLICATA A CHI È VIOLENTO IN MANIERA ATTIVA E COMPETENTE

Ricapitoliamo brevemente i dati dei capitoli precedenti. Il punto di partenza è quello riguardante la percentuale di truppe del fronte che nel corso della Seconda guerra mondiale ha in sostanza portato avanti gran parte dei combattimenti, appena il 15-25%; un dato in linea con le prove fotografiche riguardanti la maggior parte dei conflitti del ventesimo secolo. In periodi storici precedenti, in presenza di un più stringente controllo organizzativo delle formazioni compatte della fanteria, la proporzione di fuoco era più alta, ma al tempo stesso la competenza nel colpire il bersaglio di gran lunga più bassa. Nelle guerre antiche e tribali, si è tuttavia osservato come i combattenti attivi erano relativamente molto pochi. Dopo la Guerra di Corea, gli eserciti occidentali iniziarono a modificare i metodi di addestramento dei soldati per ottenere un tasso di fuoco più alto; ma la competenza rimase ancora bassa, come dimostrato dal livello di munizioni sprecate in battaglia. I dati concernenti la guerra del Vietnam hanno poi dimostrato come le truppe della fanteria erano divise essenzialmente in tre categorie: una piccola porzione (circa il 10%) che non aprì il fuoco quasi mai; circa il 45% che a volte aprì il fuoco, a volte no; e un altro 45% che virtualmente sparò quasi sempre. Le percentuali dei soldati con il maggiore tasso di fuoco erano più alte tra i volontari, il rango più basso tra le reclute; mentre tra le truppe meno entusiaste, solo un quarto rientrava nel gruppo di quanti sparavano con maggiore frequenza – in linea dunque con le conclusioni di S.L.A. Marshall. Anche dopo le riforme dei metodi di addestramento, solo una minoranza di soldati rimase per così dire, aggressiva, mentre una massa di soldati ordinari continuava a fare giusto il necessario di ciò che richiedeva il loro ruolo. Anche coloro che erano tra i più attivi nel fare fuoco non erano necessariamente precisi nel colpire il nemico, e di conseguenza la frazione di chi manteneva un alto tasso di fuoco in maniera competente era ancora più ridotta.
Per quanto riguarda invece la violenza della polizia, è possibile distinguerne diversi livelli: la forza di routine utilizzata per fermare i sospetti; un alto livello di forza inclusa quella considerata «eccessiva»; e le sparatorie. A livello nazionale, e prendendo in considerazione tutte le forze di polizia, tra lo 0,2 e lo 0,3% degli agenti spara contro qualcuno nel corso di un anno, in episodi che per un terzo si rivelano fatali (FYFE 1988; GELLER 1986)1. Le sparatorie e altre tipologie di violenza della polizia sono molto più comuni nelle grandi città, dove il livello di crimine e di attività delle gang è più alto. Nel caso della polizia di Los Angeles, ad esempio, il 7,8% di tutti gli agenti è stato coinvolto in una sparatoria, mentre lo 0,2% ha aperto il fuoco in tre o più sparatorie (CHRISTOPHER 1991, pp. 36-40). I dati sull’utilizzo della forza di routine sono invece distribuiti in maniera più ampia. Il 70% degli agenti della polizia di Los Angeles è rimasto coinvolto in almeno un episodio del genere, in cui generalmente la forza consiste nell’utilizzo di tattiche per immobilizzare e arrestare i sospetti. Questa forza è considerata tanto «normale» quanto «legittima», e risulta piuttosto concentrata in alcuni gruppi: il 5% degli agenti migliori e di grado più alto è responsabile del 20% di questi incidenti, e il 10% dei poliziotti migliori di rango più basso ne è responsabile per il 33%. Seguendo un trend simile, i rapporti che indicano un utilizzo eccessivo della forza o di tattiche improprie, hanno coinvolto all’incirca il 21% della polizia2. Questa élite particolarmente violenta appare inoltre ulteriormente stratificata: il 2,2% dell’intera forza di polizia di Los Angeles ha nei propri registri almeno quattro o più di simili accuse, mentre lo 0,5% ne ha sei o più. Quest’ultimo gruppo, le cosiddette «teste calde» del dipartimento, risulta tra l’altro come il più attivo anche negli episodi di routine, con una media di 13 rapporti in comparazione ai 4,2 di tutti gli agenti che sono ricorsi a ogni tipo di forza. La media di episodi, per il poliziotto che non ricorre alla forza, è invece di uno all’anno: una cifra dunque minore rispetto a quella dell’intera forza di polizia; mentre «le teste calde» hanno almeno tre o quattro incidenti all’anno. Nei casi di incidente, le «teste calde» appaiono poi come tra le più violente, con il 58% dei loro rapporti che contengono accuse di utilizzo eccessivo della forza, mentre questa percentuale per gli altri agenti scende al 14%.
Anche altri ricercatori hanno identificato trend simili. Toch (1989) ha ad esempio indicato che un ristretto numero di agenti della forza di polizia di Okland è stato responsabile per gran parte della violenza. Bas van Stokkom, che ha studiato la polizia olandese ad Amsterdam, sostiene che i nomi di una ridotta porzione di agenti compare nella maggior parte dei reclami presentati dai cittadini per comportamento duro o aggressivo dei poliziotti (comunicazione personale con l’autore, settembre 2004; si veda anche VAN STOKKOM [2004]; e il capitolo 14 in GELLER, TOCH [1996]).
Anche dall’altra parte della legge la violenza è piuttosto concentrata. Studi di gruppo, che hanno seguito giovani maschi sin dalla loro nascita, hanno identificato un segmento violento del 15% che ha perpetrato all’incirca l’84% dei reati violenti (WOLFANG et al. 1972; COLLINS 1977). Chiaramente non tutti i crimini sono violenti, ma il dato è consistente, con un trend secondo il quale circa il 6-8% di adolescenti e giovani adulti maschi sono responsabili del 60-70% di tutti i reati nella loro fascia d’età3.
Gli studi sui detenuti mostrano inoltre una ripetizione frattale di questo trend più ampio, suggerendo l’esistenza di un’élite criminale all’interno di una popolazione di attivisti criminali. Blumstein e altri ricercatori (1986) hanno ad esempio identificato una piramide di criminali tra coloro che scontano pene detentive per furti e rapine4: il 50% che ne compone la base aveva commesso cinque o meno reati all’anno (uno ogni dieci settimane); il 10% del gradino successivo aveva effettuato rapine più di una volta a settimana, mentre proseguendo ancora verso l’alto il 5% aveva commesso 300 o più reati all’anno, quasi uno al giorno. Alla punta estrema si trovava invece un gruppetto ridotto, «gli aggressori violenti», che avevano commesso almeno tre reati ogni due giorni (CHAIKEN, CHAIKEN 1982). Un altro studio sulla popolazione carceraria ha rilevato che il 25% di questa era composta da criminali di carriera, responsabili del 60% delle rapine, dei furti d’appartamento e dei furti d’auto (PETERSON et al. 1980). Una ricerca che ha invece seguito giovani delinquenti fino ai loro trent’anni ha categorizzato tre tipologie di ladro: il criminale di carriera, parte di un’élite di circa il 3%, che ha mantenuto un alto tasso di reati; una «classe media criminale», che comprende un altro 26%, che ha mantenuto un tasso di reati intermedio; e infine la maggioranza dei criminali meno costanti, il 71%, che nel corso degli anni ha abbandonato il crimine (LAUB et al. 1998). In tutti questi studi i criminali più attivi sono anche quelli più violenti, ma di questa violenza è responsabile un’élite ridotta all’interno di una più ampia popolazione criminale, che a sua volta rappresenta una sottocategoria parte di una popolazione ancora più ampia. Mettendo dunque insieme queste due tipologie di ricerche, ne risulta che tra il 25 e il 40% dei criminali commettono (o vengono condannati per) la gran parte dei reati criminali più seri. Moltiplicando questi numeri con il 20-40% della popolazione maschile che è stata arrestata (FARRINGTON 2001; BLUMSTEIN et al. 1986; WOLFGAN et al. 1972; POLK et al. 1981; WIKSTROM 1985), è possibile inferire che tra il 5 e il 15% di tutti i maschi commettono gran parte dei reati più seri5. Il limite estremo della popolazione criminale è rappresentato dalla porzione più ampia degli individui che non hanno avuto alcun tipo di problema con la legge (il riferimento è ancora solo al sesso maschile). In un tipo differente di studio, basato su questionari autocompilati e non sui rapporti della polizia, alla domanda se la propria attività criminale è stata scoperta e punita o meno, il 36% dei teenager neri e il 25% di quelli bianchi hanno dichiarato di aver commesso uno o più reati violenti (ELLIOTT 1994).
Giungendo a questi dati da un’angolatura differente, le percentuali delle fasce d’età di quanti appartengono alle gang sono difatti molto più basse di quanto si creda comunemente. A livello nazionale, nel 2003 il numero dei membri delle gang era di 730.000, di cui l’11,5% ragazzi neri e ispanici tra i 15 e i 24 anni, una stima di massima poiché alcune gang sono composte anche da altre etnie6. Facendo una comparazione storica, negli anni ’20 del secolo scorso a Chicago circa il 10% dei ragazzi tra i 10 e i 24 anni era parte di una gang; il 13% se si prende la popolazione di immigrati7. Alcune di queste cifre sono particolarmente alte in determinate comunità etniche (30% in quelle nere e ispaniche della California del Sud nei primi anni del 2000; il 40% degli italiani a Chicago negli anni ’20 del 1900), nonostante non abbiano mai raggiunto la maggioranza della popolazione giovanile maschile. Molte delle prime gang non erano caratterizzate da un alto livello di criminalità, non erano particolarmente armate e gli episodi violenti in cui rimanevano coinvolte non erano frequenti. Al contrario, le gang contemporanee sono responsabili di un numero maggiore di omicidi, ma la mera appartenenza a una gang non implica che la maggior parte dei membri compiano atti di violenza nella maggioranza dei casi. Nel 2003 il numero di omicidi è stato di 16.500; se quindi ipotizziamo che la metà di questi è stata perpetrata da gang, ne consegue che solo 1 su 88 membri di una banda criminale (dunque l’1,1%) ha in teoria commesso un omicidio nel corso dell’anno. Le gang ricorrono generalmente al combattimento come rito di passaggio, a volte per cambiare la propria posizione all’interno del gruppo (ANDERSON 1999; JANKOWSKI 1991). Non esistono tuttavia dati sul numero di questi combattimenti, nonostante sembra che la pratica sia molto più frequente all’interno della gang stessa8. Ne consegue che anche nel caso di un gruppo palesemente violento, solo una percentuale minima appartiene all’élite di quanti commettono assassinii.
Anche se si considera il limite estremo della curva di distribuzione della popolazione quasi criminale, questo non rappresenta la maggioranza in nessuno di questi studi. Si avvicina nel caso dei campioni tratti dalle comunità della classe operaia o dalla popolazione afroamericana di fine ventesimo secolo, ma il segmento violento che comprende tutti i livelli di attivismo e violenza efficace si aggira tra il 60-80% della popolazione maschile che commette al massimo violazioni superficiali della legge.
Per determinare con precisione l’élite violenta all’interno della popolazione totale, è possibile utilizzare la cifra che si riferisce a quel 10% di detenuti responsabile di un elevato numero di reati violenti, o a quel 3% di criminali di carriera che ha commesso reati dall’età adolescenziale in poi. Queste due cifre consegnano una stima che si assesta all’incirca tra lo 0,6 e l’1,2% di tutti i maschi nell’estremità più bassa, e tra il 2 e il 4% in quella più alta, che si riferisce a quanti compiono violenza in maniera persistente. La cifra più bassa è tra l’altro simile alla percentuale di killer competenti dalla parte ufficiale della legge, come i cecchini o i piloti dell’aviazione. La cifra più alta è invece simile al livello di violenza della polizia.
Per quanto riguarda le altre tipologie di violenza considerate in questo libro, solamente alcune permettono di ottenere delle stime sulla proporzione dei perpetratori. Nelle scuole, ad esempio, la percentuale dei bulli varia tra il 7 e il 17% dei ragazzi e tra il 2 e il 5% delle ragazze. I combattimenti organizzati tra eroi sono necessariamente limitati a un’élite. Nelle società nobiliari, l’aristocrazia militare, generalmente caratterizzata da simboli di prestigio come ad esempio l’indossare la spada, era tra il 2 e il 5% della popolazione (LENSKI 1966). In vari Paesi europei, dai primi del diciassettesimo fino al diciannovesimo secolo, il numero dei duelli raggiunge il picco di 200-300 per anno, ma la cifra standard era di circa venti o anche meno. Ciò vuol dire che anche prendendo come riferimento il numero più alto, la media era di un solo duello per una popolazione maschile adulta di 60.000; e anche in gruppi particolarmente predisposti a tale pratica, come quello degli ufficiali tedeschi, la cifra di 10-75 duelli per anno interessava al massimo lo 0,8% dell’intero corpo degli ufficiali9. All’interno di questa categoria, dunque, esisteva solo una minuscola élite di duellanti, parte dei quali aveva duellato alcune decine di volte.
Per quanto riguarda gli individui alla ricerca di divertimento sfrenato, si è visto nel capitolo 5 che al massimo il 10,3% dei consumatori abituali di alcool è rimasto coinvolto in un’aggressione semplice nel corso dell’anno, e il 3,3% in episodi più violenti. Non è escluso che gli attaccabrighe più efficaci nei party siano coloro che bevono poco o sono astemi, ma i dati etnografici suggeriscono che anche questi «specialisti» rappresentano un gruppo ancora più raro. Tra gli atleti, la partecipazione più ampia alle risse si riscontra tra i giocatori di baseball, poiché per tradizione tutto il team è obbligato a riversarsi sul campo nel corso di un confronto, nonostante siano in pochi a prendere attivamente parte allo scontro. A giudicare dalle sospensioni e dalle multe inflitte per le zuffe, quanti rimangono coinvolti in risse vere e proprie non sono più di due o tre su una squadra di 25 giocatori, più i 10 dello staff dell’allenatore (al massimo il 10%). Nel football americano un massimo del 5-10% di giocatori, su una squadra di 45 ...

Indice dei contenuti

  1. Violenza
  2. Colophon
  3. Introduzione
  4. VIOLENZA Un’analisi sociologica
  5. PARTE PRIMA Gli sporchi segreti della violenza
  6. PARTE SECONDA La violenza organizzata e contenuta
  7. PARTE TERZA Le dinamiche e le strutture delle situazioni violente
  8. Epilogo: conclusioni pratiche
  9. Bibliografia