Come forestieri
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Come forestieri

Perché il cristianesimo è divenuto estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo

  1. 88 pagine
  2. Italian
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Come forestieri

Perché il cristianesimo è divenuto estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo

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Il cristianesimo non si intende più da sé. Le sue parole centrali, i suoi gesti, la sua morale e la sua teologia suonano estranei al cuore e alla vita degli uomini e delle donne di oggi. è diventato come"una lingua straniera". E credere risulta ogni giorno più difficile.In che modo siamo giunti a tale stato di cose? Quali le cause prossime e quelle remote? Quali le possibilità perché la fede cristiana ritrovi smalto e forza di convinzione?E soprattutto: in quale maniera debbono affrontare i credenti il loro attuale essere"come forestieri" in mezzo a un mondo che ha imparato a cavarsela senza Dio?Questi sono gli interrogativi al centro del saggio, che si propone dunque come una"piccola guida" per comprendere e vivere il nostro tempo.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788849833195

1.

Non possiamo non dirci pagani

Il Dio accessorio

DOBBIAMO CONFESSARLO APERTAMENTE: negli ultimi quaranta anni di storia collettiva dello spirito gran parte dell’umanità ha imparato a vivere senza Dio. La sua presenza non si contraddistingue più in modo netto dentro il continente dei nostri sentimenti, all’interno di quel plesso vitale detto “anima”,“coscienza”, “interiorità”, nel quale si decide del bene o del male da compiere, rifiutare, perseguire. Dio non è più necessario.
Egli, tutt’al più, è diventato un affare di Chiesa: dei preti, dei vescovi e dei teologi. Certo, ogni tanto qualche problema di tipo religioso affascina, stuzzica, sollecita dibattiti pubblici, televisivi, un “Porta a porta” (veniamo da Adamo o dalla scimmia del signor Darwin? Gesù ha avuto o no una discendenza francese dalla Maddalena? È meglio che i preti si sposino oppure manteniamo il celibato?). Ma tutto questo non tocca la vita quotidiana di migliaia di persone. Sono altri gli orientamenti, altre le premesse; altre, rispetto a quelle della religione cristiana, le promesse che la determinano.
La mattina non si ascolta la parola di Gesù, ma la previsione degli oroscopi. E guai a sottrarsi o a disturbare tale rito: con brusca rapidità si viene azzittiti oppure si alza il volume del televisore o della radio. E ognuno attende, lungo la litania dei segni zodiacali, la parola giusta per affrontare con un po’ di grinta la giornata che inizia. Nessuno, forse, crede davvero alle previsioni così generosamente offerte, ma il rito si compie.
E così dinanzi e durante lo svolgersi feriale della propria esistenza, per la normale gestione degli affari quotidiani, l’ipotesi Dio non scatta più. Dio è diventato estraneo, accessorio.
Pertanto, invertendo profondamente la nota frase di Benedetto Croce, se non vogliamo mentire a noi stessi, dobbiamo dire che oggi, avendo imparato a vivere senza Dio, non possiamo non dirci pagani.
Se l’epoca antica-medioevale era, infatti, caratterizzata da una vita che trovava proprio in Dio il suo maggiore riferimento: tutto era posto sotto lo sguardo e la provvidenza divini – una società dunque con Dio; e se l’epoca moderna si è emancipata da questo schema assumendosi il compito di rendere l’uomo “maggiorenne” e di conseguenza libero dal dominio dell’Onnipotente e della sua Chiesa – una società pertanto contro Dio; il tempo che viviamo ricorda molto da vicino l’epoca pre-cristiana: l’epoca dove Dio – almeno nella versione personale e specifica assunta nella religione cristiana – non c’era. La nostra dunque è una società senza Dio.
Dio è diventato perciò l’illustre dimenticato dell’epoca attuale (Houtepen 2001).
Ad ulteriore dimostrazione di ciò, uno sguardo puntuale e lucido all’ordinarietà della vita ci consegna la verità per la quale pochi, molto pochi, ritengono che, per accedere ad una “vita veramente vita” (Benedetto xvi), ci si può rivolgere alla fede cristiana. Se nel passato anche più recente, la fede ha rappresentato una valida opportunità per dare una configurazione riuscita alla propria esistenza, oggi non è quasi da tutti condiviso l’assioma secondo il quale «chi cerca la felicità deve rivolgersi altrove» (Lauster 2006, 5)? “Altrove”, cioè, rispetto al cristianesimo?
Un tale “altrove” è appunto quella forma di saggezza pagana, che sta sempre più caratterizzando il nostro vivere senza Dio: un vivere che tenta da sé di trovare le forze per reggere alle ambivalenze e ai rovesci del destino, e le ragioni per essere contento di sé.
Che la presente diagnosi non sia molto lontana dal vero, lo conferma l’emergere, nell’autocoscienza filosofica della nostra epoca, di un pensiero e di una proposta di un “nuovo paganesimo”.
In molti intellettuali contemporanei l’affermazione da cui siamo partiti – non possiamo non dirci pagani – non assume il semplice effetto di una constatazione, ma il tono di un invito accorato, caldo, persuasivo.
Il filosofo italiano Salvatore Natoli, per citare un nome autorevolissimo, è profondamente convinto di ciò. A suo avviso solo un nuovo paganesimo, consapevolmente assunto, potrebbe recuperare un rapporto diretto e immediato con i grandi temi della vita: quello del dolore, della felicità, della morte, calibrandoli sul metro dell’equilibrio e della forza. Attraverso quest’opzione l’uomo ritroverebbe la possibilità di essere all’altezza della sua finitezza senza promesse di metafisiche salvezze. Da tale intuizione dovrebbe sorgere la ricerca di uno stile di vita che esprima la conquista di una misura e di un equilibrio con la realtà che ci circonda. Pertanto viene meno ogni discorso su una trascendenza di tipo cristiano e all’uomo non resta che dominare la contingenza. Ciò che ci è concesso è una pace con il finito, anche una speranza, che può al più tradursi – come per i Greci – in «una manifestazione intensa della voglia di vivere» (Natoli 2002, 140).
Gli fa eco Umberto Galimberti, altro notissimo pensatore, per il quale è urgente il recupero della saggezza greca – saggezza pre-cristiana, appunto – la quale «guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron)» (Galimberti 2005, 26).
Lo scenario odierno dunque inviterebbe, secondo costoro, ma si potrebbero citare altri pensatori (Matteo 2001), l’umanità a (continuare a) prendere le distanze dalla fede cristiana, in quanto essa, a dispetto di ogni proclamazione teorica di intenti, provocherebbe una riduzione delle possibilità, non infinite del resto, per corrispondere in modo felice e sciolto all’avventura della vita.
Non conviene scommettere sul cristianesimo, in quanto Dio non serve.
Su tale orizzonte di vissuto e di teoria si sono da ultimo sviluppate – e non possiamo non dirne almeno qualcosa – alcune prese di posizioni contro il cristianesimo molto violente e incisive, le quali, in nome della logica e delle ragioni della ragione, lo accusano di essere molto semplicemente un credo letteralmente antiumano. Per questo va frontalmente combattuto, ridotto alle mille e più contraddizioni che l’attraversano, destituito di ogni fondamento di ragionevolezza, strappato dall’aura di intoccabilità sacrale che l’ha accompagnato per secoli e riportato alla sua verità: ovvero alla sua non verità essenziale. Il cristianesimo non è per l’uomo: è contro l’uomo. E qui dovrebbe risultare convincente, immediato, il grido di chi non può definirsi in alcun modo cristiano e meno che mai cattolico (Odifreddi 2007).
E quando Dio diventa accessorio, estraneo, straniero, addirittura nemico, allora, con tutta onestà, non possiamo non dirci pagani.

I campanili muti

Abbiamo affermato: Dio è divenuto nella nostra epoca una questione di Chiesa.
Nulla di più abissalmente distante dalle intenzioni di Gesù. Anzi addirittura sembra giungere ad un suo ripiegamento e rivolgimento lo slancio vitale con il quale il giovane rabbino di Nazaret portò fuori dal Tempio la questione di Dio, collocandola nel suo posto vero: all’interno della vita quotidiana, delle relazioni più vitali, dei centri pulsionali dell’essere umano. Dio è infatti di tutti semplicemente perché è per tutti.
Sulla scorta di questa radicale convinzione egli si scontrò con il sistema sociale, culturale e religioso del suo tempo, il quale, come era ragionevole presupporre, lo condannò e lo eliminò. Ma non riuscì a ricucire completamente lo strappo di quella ferita. Gesù, difatti, rifiutandosi di mettersi al posto di Dio e quindi concretamente accettando la morte inflittagli, dichiarava con più forte eloquenza che nessuno, neppure lui, che pure ne era l’eletto, il Messia, il Figlio prediletto, poteva prendere il posto che a Dio spetta: il posto di chi solo può assicurare circa la bontà finale del destino di ciascuno. Ebbene, oggi proprio una tale apertura promettente e promuovente intorno a Dio sembra essere stata richiusa: nessuno si aspetta più da lui alcunché.
È un affaire della Chiesa, alla quale ciascuno, a suo rischio e pericolo, può offrire il proprio ascolto. Pubblicamente, Dio non ha nulla da insegnare.
E allora, come sta la Chiesa?
Non molto tempo fa, i suoi responsabili, parlando della crisi che attualmente investe il cristianesimo, hanno usato un’immagine davvero efficace: hanno detto che i campanili sono diventati muti, ovvero non rappresentano più il segno di un’interpretazione globale e condivisa dell’esistenza (cei 2004). Si sono integrati con il resto del paesaggio urbano: non segnano né segnalano alcuna discontinuità. Così come il tocco delle campane è perfettamente integrato nella cacofonia ordinaria delle nostre strade. Paradossalmente, proprio nella loro perfetta assimilazione al paesaggio urbano, i campanili diventano estranei all’uomo qualunque e danno a pensare che la fede cristiana oggi non si intenda più da sé. È diventata così disomogenea rispetto ai comandamenti del pensare e del vivere contemporanei che l’atto del credere non viene più percepito come un gesto umanamente significante e rilevante, come corroborante e facilitante l’esistenza ordinaria.
Di conseguenza le chiese sono sempre più vuote. Di giovani soprattutto. I quali, in verità, non le frequentano non perché abbiano deciso in un momento puntuale della loro crescita di porsi contro la Chiesa e meno che mai contro Dio, ma perché, non avendo ricevuto dai loro genitori alcuna testimonianza circa la convenienza del cristianesimo, hanno imparato a cavarsela senza Dio. Non avvertono il bisogno di rivolgersi a lui né di ascoltarne la parola. Non sanno letteralmente credere né pregare. Sono semplicemente senza fede: increduli(fuci 2008).
Di fronte a tutto ciò, la presenza degli anziani aumenta dentro le comunità cristiane. E i due fenomeni creano un terribile circolo vizioso.
Ci sarebbe bisogno di parrocchie che generino alla fede, che insegnino a credere e a pregare, che favoriscano un primo contatto con Dio ed invece diventano sempre più immobili, andando dietro a quelli di sempre, che, invecchiando, non riescono né vogliono smuoversi dalle loro pratiche di culto, sempre pronti invece ad impedire ogni cambiamento. E il cambiamento impedito ostacola l’avvicinarsi dei giovani.
Come reazione a tale immobilismo, nel frattempo sono state inventate, elaborate e promosse nuove forme di esperienza religiosa: quelle dei movimenti carismatici, delle Giornate Mondiali della Gioventù, dei pellegrinaggi. Spesso tali eventi inviano segnali di controtendenza: piazze stracolme, dichiarazioni a favore della religione cristiana e delle sue presenze istituzionali, quantità considerevoli di conversioni. Non si dimentichi, tuttavia, che sono tutte modalità di tipo occasionale, fuori dall’ordinarietà, che allontano per un momento la vera urgenza della Chiesa odierna, aggravandola: l’immobilità della vita delle parrocchie, che non riescono in alcun modo a farsi carico della prima generazione giovanile incredula.
Senza giovani, però, le tante comunità cristiane diffuse sul territorio rischiano di scomparire per il semplice mancato ricambio generazionale.
La situazione della Chiesa non è dunque buona.
Ma ritorneranno i campanili a prendere di nuovo parola? A richiamare alla mente quanto Dio abbia a che fare con quella ricerca della felicità che tocca in sorte ad ogni uomo e ad ogni donna? A ricordare la bontà della scommessa cristiana?

L’Arca di Mosè

Facciamo un passo avanti.
Stiamo diventando pagani, perché Dio (e ancora di più la Chiesa) non appare necessario per la vita. Ebbene, quali sono le ragioni fondamentali di tutto ciò?
La sociologia della religione parla a proposito della condizione attuale del cristianesimo di una crisi di illeggibilità: «la difficoltà maggiore che marca la situazione presente della Chiesa è precisamente quella dell’illeggibilità. […] L’incomprensione di cui oggi ha il sentimento di essere circondata in modo ingiusto […] è dovuta all’esaurimento di un’identità che ha perduto il suo ancoraggio in una cultura comune, per molto tempo condivisa oltre il gruppo assottigliato dei suoi fedeli» (Hervieu-Léger 2003, 311).
Viviamo quindi un tempo in cui la fede non viene compresa nella sua originalità, in cui non riesce più a mostrare la sua forza e la sua bontà. E per questo nessuno la cerca.
Del resto, basterebbe sfogliare le pagine di qualsiasi articolo che tratta del cristianesimo per afferrare quanto poco di esso si conosce, diciamo così, a livello di cultura generale: si confondono le cose più elementari (dal patriarca che realizzò l’Arca dopo il diluvio al significato della Quaresima, dal numero degli evangelisti al valore dei sacramenti), nessuno avverte l’urgenza di una precisione che in altri ambiti sembra maniacale, le poche nozioni apprese al catechismo appaiono sufficienti agli intellettuali di destra e di sinistra per esprimere la loro opinione sui temi della morale, della fede e se capita del paradiso e dell’inferno, senza dimenticare il purgatorio. La cultura media in questo settore degli studenti universitari lascerebbe sbigottito più di un teologo che volesse interrogarli: tutto è attraversato con superficialità, con un che di sufficienza rispetto ad una realtà spesso considerata anacronistica, e che la storia sta appunto premurandosi di consegnare ai musei.
Già solo per questo, è quasi impossibile al cittadino medio occidentale rendere e rendersi ragione delle verità messe in campo dal Vangelo. Più in profondità, poi, un tale “analfabetismo” del cristianesimo tradisce che i modi attuali di pensare, gli stili di vita e le promesse cui viene legato l’esercizio della libertà umana sono ormai fortemente sganciati e irrelati con l’universo valoriale e teologico cristiano.
Non si approfondisce la propria conoscenza del cristianesimo, perché esso non tocca alcun interesse esistenziale. Perciò l’uomo comune non riconosce più con immeditata evidenza la forza e l’incremento di umanità che la fede possiede, secondo il Vangelo: non la percepisce più qu...

Indice dei contenuti

  1. Come forestieri
  2. Colophon
  3. dedica
  4. Prefazione di Gianfranco Ravasi
  5. Indice
  6. Prologo
  7. 1. Non possiamo non dirci pagani
  8. 2. Come il cristianesimo (ci) è diventato estraneo
  9. 3. Un’estraneità profetica
  10. Epilogo
  11. Riferimenti bibliografici