Giuseppe
«Un attimo… qui c’è qualcosa che non va…» È la prima stazione, uguale per ogni via crucis di ogni genitore che ha un figlio con disabilità. Sono poche parole, pronunciate da un medico, ma che hanno la capacità di assestarti un sinistro da KO.
A noi sono state sparate in faccia dal ginecologo, al settimo mese di gravidanza. Non ricordo che giorno fosse, ma ricordo fin troppo bene quel momento.
Eravamo arrivati insieme a mia moglie per la solita visita mensile di controllo. Lo studio del dottore era stato ricavato in un angolo di un appartamento. Forse il suo. Per le scale saliva forte l’odore di fritto della rosticceria a piano terra.
«Ecco si metta seduta e metta le gambe qui…»
Solita spalmata di gel e la sonda dell’ecografo che si sposta su e giù sul pancione.
«Ecco il cuore… guarda come si muove…»
Io e mia moglie osservavamo lo schermo con stampata sul viso la tipica espressione emozionata dei genitori in attesa del primo figlio.
«Un attimo… qui c’è qualcosa che non va…»
Mentre cercavo, in un turbinio di pensieri ed emozioni di riconquistare la lucidità che sembrava essere svanita di colpo, sentii mia moglie esclamare spaventata:
«Dottore, non mi dica così, o Dio mi sento male…»
«Non faccia così signora, stia tranquilla… è che queste misure non mi convincono. Le braccia e le gambe sono più corte di quello che dovrebbero essere»
(«Meno male – penso io – nulla di grave»).
«Facciamo un po’ di calciparina, forse è un problema di circolazione. Stia quanto più possibile a riposo. Ci dobbiamo vedere più spesso però… facciamo ogni quindici giorni. Venga in ospedale, chiederò il consulto di un altro collega che è più esperto di me con l’ecografo.»
Uscimmo dallo studio perplessi, non sapendo bene se preoccuparci seriamente o essere tutto sommato contenti… in fondo poteva andare peggio. Poteva esserci una malformazione al cuore… un problema vitale… Per tutto il viaggio di ritorno continuavo a ripetermi nella testa spiegazioni plausibili e consolanti.
Lasciai mia moglie al lavoro e mi chiusi in bagno con l’iPad alla ricerca di cosa fosse che preoccupava realmente il ginecologo.
Google > arti inferiori al 5 percentile
Una schermata piena di forum e pagine sanitarie. Le parole più presenti erano acondroplasia e sindrome di Down. Il resto era un marasma di anomalie genetiche e cromosomiche che riportavano il nome proprio dello scienziato che le aveva scoperte.
«Che fortuna – pensavo – sapere che il tuo nome sarà per sempre associato alla disgrazia di una famiglia e di una persona.»
Chiusi l’iPad e indossai la maschera dell’imperturbabilità. Lasciai mia moglie a casa e uscii di corsa con la scusa di dover portare fuori il cane.
Telefonai subito a Massimo, il nostro amico medico che ci era stato sempre vicino e che insieme alla moglie Barbara aveva fatto da testimone al nostro matrimonio. Massimo fu come al solito comprensivo. Mi ascoltò e poi cercò di farmi ragionare, spiegandomi che in fondo quel dato isolato, in assenza di altre anomalie su organi vitali e di altri chiari segni clinici, non poteva essere la prova certa di una grave anomalia genetica. D’altronde, mi disse, non bisogna mai fasciarsi la testa prima di essersela rotta.
Ripetendomi la storia della testa rotta e della fasciatura rientrai a casa dove Mariateresa mi attendeva in lacrime.
Avevo commesso l’imprudenza di non cancellare la cronologia del browser e lei era andata a sbirciare cosa fossi andato a cercare per così tanto tempo sul tablet.
«Nostro figlio è handicappato, vero?» mi chiese piangendo.
“Handicap” con tutte le paroline e situazioni satellite era un termine ricorrente a casa mia. Mia sorella, psicologa, aveva lavorato da sempre in centri per disabili ed era frequente che mi raccontasse di situazioni personali e familiari davvero complicate. Eppure quella parola mi aveva sempre spaventato a morte. Ogni volta che avevo accompagnato la Linda al lavoro o che ero stato al centro per sistemare il computer che trovavo puntualmente incasinato o bloccato da virus, malware e diavolerie varie, ero tornato a casa piuttosto scosso. Mi chiedevo come potesse essere la vita di un genitore con un figlio autistico o con uno di quei ragazzi sulla sedia a rotelle, con il sostegno per il collo e lo sguardo perso nel vuoto.
Ho sempre avuto la cattiva abitudine di dover programmare ogni attimo della mia vita. Passo così gran parte del tempo a immaginare cosa farò fra uno, due, dieci anni e a cercare di individuare le possibili soluzioni ai tanti possibili problemi che si potrebbero presentare nella vita. Cominciai presto, fatto un rapido calcolo delle probabilità, a cercare di pensare a come sarebbe stato avere un bambino affetto da sindrome di Down, a cosa avrebbe potuto o non potuto fare, a quello che avrei potuto fare per migliorare la sua autonomia e ad angosciarmi immaginandolo adulto e senza più il papà e la mamma a proteggerlo e guidarlo. Talvolta pensavo invece a cosa significasse essere acondroplasici. Passavo le giornate sui forum, su siti specializzati e pensavo ai tanti “nani” diventati famosi, non ultimo qualche illustre politico.
Le settimane presero a susseguirsi velocemente. Dalle ecografie fatte ogni volta in team (il ginecologo, il suo collega ecografo-esperto, e il nostro, grazie al Cielo, onnipresente amico Massimo) non si cavava un ragno dal buco. Gli arti crescevano, ma sempre al di sotto del percentile minimo.
«Sarà un fatto costituzionale. Io seguo una donna in attesa di un bambino acondroplasico e posso garantirvi che le curve di crescita del feto non sono certo come queste,» diceva il collega ecografoesperto.
«Sono convinto che non ci sia nessun problema» gli faceva eco il nostro amico medico.
«Sono molto preoccupato. Temo che sia un bambino sindromico. Ma lei signora per quale motivo non ha voluto fare l’amniocentesi? Che età ha detto che ha? 35? Capisco…» continuava a ripetere a tarantella il nostro ginecologo quando aveva la possibilità di parlarci faccia a faccia senza la presenza del nostro amico e del suo perito collega.
Il fatidico momento arrivò, come al solito, in maniera inaspettata. Mancava qualche giorno alla festa di San Giuseppe, santo a cui per affetto e devozione avevamo deciso di affidare il nostro bambino chiamandolo appunto Giuseppe. I risultati dei tracciati lasciavano pensare che il piccolo sarebbe venuto alla luce con ogni probabilità proprio il 19 o nei giorni immediatamente successivi.
Giuseppe nacque invece il 13 marzo.
Penso che il giorno della nascita del proprio primogenito sia un momento indimenticabile per tutti. Ero tornato come un fulmine dal lavoro, lasciando a metà una di quelle innumerevoli riunioni che caratterizzano la vita di una casa editrice. Le contrazioni a dire il vero erano iniziate dalla notte, ma sia io che mia moglie avevamo attribuito quello strano mal di pancia al kebab speziato mangiato la sera prima.
Preso dalla foga, feci una manovra maldestra per uscire dal cortile del condominio e diedi una gran botta all’altra nostra macchina. Non mi fermai a vedere cosa fosse successo e partii di gran filata, con il paraurti posteriore mezzo staccato, verso l’ospedale di Catanzaro in una fantozziana corsa, con il clacson a distesa e agitando un braccio fuori dal finestrino per evitare di travolgere i passanti e cercare di bypassare traffico, ingorghi e semafori.
Il tempo tra una contrazione e l’altra diventava sempre più breve ma in realtà non sapevamo se quello che noi consideravamo breve fosse realmente breve… Arrivammo finalmente in ospedale dove scoprimmo con sollievo che in realtà non solo non eravamo affatto in ritardo ma secondo i pronostici dell’ostetrica ci sarebbe voluto sera per far venire alla luce il piccolo.
Non avevo mai visto una donna in procinto di partorire. Ero scioccato dal dolore che faceva contorcere mia moglie. Pensavo alle parole del libro della Genesi: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli» capendone solo in quel momento, per la prima volta, la drammatica tragicità. La preoccupazione per la salute del bambino aveva lasciato improvvisamente il posto a quella per Mariateresa. Cercavo di esorcizzare le immagini di amorevoli madri morte di parto che anni e anni di letture di romanzi ottocenteschi avevano depositato in qualche posto ben custodito della memoria.
Improvvisamente, contrariamente ai pronostici iniziali, uno dei ginecologi in servizio decise di portare mia moglie in sala parto. Avvisai Massimo, il nostro amico medico, che lasciando i suoi pazienti si precipitò di sotto in ostetricia. Un’infermiera mi chiese di preparare subito il primo cambio del bambino e, senza capirci granché, mi diressi verso la stanza a prendere il sacchetto di cotone con scritto in azzurro “Giuseppe” che conteneva body, tutina e cappellino.
Mentre uscivo trafelato dalla stanza incontrai il nostro ginecologo, quello dello studio sopra la rosticceria.
«Non mi sento molto bene, mi spiace, vado a casa», disse rispondendo al mio sguardo inquisitorio.
«Ma lei non si deve preoccupare, ci sono i miei colleghi… più tardi telefono io.» Come se quella telefonata fatta da quell’“io” sarebbe stata da sola sufficiente a ripagare l’enorme fiducia che avevamo posto in lui sin dal principio.
«In ogni caso – continuò il dottore congedandosi – dobbiamo sperare vada tutto bene, altrimenti si ricordi che io l’ho avvisata sin dall’inizio. Non dica poi che non gliel’avevo detto…»
«Certo dottore, me l’ha detto, stia tranquillo», risposi con uno sguardo così gelido che avrebbe probabilmente fatto solidificare una tazza di tè bollente.
Massimo aveva ordinato alle infermiere di non farmi entrare in sala parto. Voleva proteggermi da un trauma che, forse, a suo avviso, non sarei stato in grado di sopportare. Così rimasi ad aspettare fuori, a passeggiare su e giù nella stanza a fianco come uno di quei mariti dei romanzi ottocenteschi di cui sopra, finché non vidi uscire il nostro amico vestito di verde con in mano il cellulare.
«È andata benissimo. È un bambino bellissimo e sanissimo. Ha preso dieci su dieci di Apgar» mi disse abbracciandomi e facendomi vedere la foto di un piccolo neonato urlante con le braccia spalancate al cielo.
Quei mesi di tensione raggrumata nella gola e sul petto si sciolsero in un pianto liberatorio. Parenti e amici accorsi a condividere con me quel momento mi abbracciarono, riempiendomi di baci e mi parlavano ridendo mentre mi stringevano la faccia tra le mani. Ma io non capivo una parola di quello che mi stavano dicendo. Avevo la testa altrove, dietro quella porta. Non vedevo l’ora di vedere Giuseppe e di poter riabbracciare Mariateresa.
Mi fecero entrare dopo un po’. Un’infermiera mi fece dare un’occhiata veloce al bambino, nudo, chiuso in una specie di scatola trasparente. Gli guardai subito la faccia alla ricerca dei classici segni delle sindromi più note che conoscevo ma non mi sembrava di notare alcunché. Era un bambino bellissimo. Era mio figlio ed era lì in quella scatola di plastica a fare bollicine di saliva con la bocca.
Stetti un po’ con Mariateresa in una stanza appartata.
«Sei stata brava, amore – le sussurrai – sei stata brava. È un bambino bellissimo.»
Mentre ritornavo in camera incontrai un medico piccolino di statura, con gli occhiali grandi che con voce dolce...