Calabria geo-antropica
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Un'accurata analisi sul campo quella di Giuseppe Isnardi, che con dovizia di particolari e una conoscenza diretta del territorio calabrese maturata in anni di frequentazione, ci proietta nei più intimi aspetti geografici, storici, culturali e sociali di una Calabria che ha tanto da offrire e anche tanto da migliorare. della Calabria Isnardi non racconta solo povertà e arretratezza ma, attraverso la conoscenza diretta, vissuta e maturata in costante dialogo con uomini e istituzioni ci regala uno studio approfondito degli aspetti geografici e antropologici. dal 1921 al 1928, isnardi riporta la propria personale esperienza vissuta nel catanzarese e nella Calabria come direttore delle scuole primarie, e dove ritorna nel 1938 come incaricato del Congresso Geografico Italiano. Un uomo che per tutta la vita ha incanalato le proprie energie in opere di recupero e valorizzazione dei territori e della cultura calabrese.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788849844146
Categoria
Viaggi
Calabria geo-antropica

Calabria pittoresca

Quando penso alla Calabria per rievocare alla mia fantasia il carattere pittoresco del suo paesaggio, mi vien fatto spontaneamente di rivederla così, in una pura luce di semplice, antica bellezza.
Rivedo una strada che, staccandosi dalla breve pianura litoranea, si addentra in una vallata corta e larga, alzandosi a poco a poco sul fianco dell’arida fiumara che ne occupa il fondo. Ora la strada attraversa terreni coltivati, ora macchie e sterpeti, segnati qua e là da gruppi di querce, da bellissimi pini italici allarganti al sole la gran chioma; ora taglia un bosco luminoso di ulivi diritti sul terreno gialliccio, ora fiancheggia aranceti e giardini cinti da muriccioli, sui quali siepi di cactus giganteschi sembrano traboccare col groviglio delle loro spatole minacciose.
Passano greggi graveolenti di capre irrequiete, fra gli strani richiami gutturali dei pastori, e lasciano dietro di sé nubi dense di polvere. Passano i traini dalle ruote variopinte, i carri lenti e traballanti tirati da grandi buoi grigi e, due volte al giorno, con fracasso di ferraglie, l’automobile postale che fa diecine di chilometri per raggiungere dai paesi della montagna la stazione ferroviaria.
Lunghi, interminabili intervalli di silenzio succedono a questi brevi rumori nella campagna ampia, assolata. Par di avvertire, al di là degli alberi e delle siepi, la presenza del mare, di udire il ritmo calmo e solenne del suo respiro.
Poi la strada esce dal folto degli uliveti e attacca decisamente il fianco di un colle su cui biancheggia aereo un villaggio. La vista comincia a spaziare sulle bassure abbandonate, e presto la valle apparisce per intero, segnata nel mezzo dal letto biancastro della fiumara ove luccica un nastro tortuoso di acqua, tutto un grigiore di ulivi sui fianchi, con chiazze oscure di boschetti d’aranci e qualche rara macchia chiara di case.
L’ampliarsi dell’orizzonte aggiunge sempre nuovi elementi di bellezza al gran quadro: ondulazioni leggere di colli, lunghe dorsali gialle e a mano a mano azzurrine nella lontananza, tra fiumara e fiumara, e il mare che occupa spazio sempre maggiore alla vista, finché immenso apparisce nel suo candore deserto. Dirupi coronati di ruderi o di piante vengono disegnandosi, forme bizzarre o solenni di montagne sorgono improvvisamente, diafane nel cielo. Nell’insieme è un’armonia così meravigliosa di forme nobili e aggraziate, un trapasso così dolce e sfumato di tinte e di luci che chi continua a salire, su per le svolte della lunghissima strada verso l’irraggiungibile villaggio, non sente la stanchezza del cammino, non pensa ad altro che a godere di quel prodigarsi inesauribile di bellezze. L’uomo di altra regione si sente lontano, come trasportato in un paese di sogno, ma non sperduto né oppresso; anzi gli pare di non aver mai vissuto in così serena e confidente libertà di spirito come in quelle ore singolari.
Chi ha veduto e ammirato così il paesaggio di Calabria, dal mare alle dorsali dell’estremo Appennino donde la vista spazia sui due mari vicinissimi, chi in certe tiepide soste del burrascoso inverno meridionale ha vedute le immense distese di terra, chiazzate del roseo e del candido dei peschi e dei mandorli in fiore, che discendono dalle serre catanzaresi o dalla Sila sino alla costa, porta in sé, per sempre, la memoria nostalgica di una bellezza tutta particolare, unica, di paesaggio.
In quei giorni di improvvisa primavera e poi nel periodo di calma frescura che va dal termine della piovosa e ventosa stagione invernale sino al principio della lunga estate secca e infuocata, tra il principio di aprile, all’incirca, e la metà di maggio, anche i deserti della costa ionica, fra Catanzaro e Cotrone e, a intervalli, fra Cotrone e Metaponto (così rassomiglianti a certi tratti di Maremma, con le loro ondulazioni incolte in cui affiora il terreno biancastro, e gli stazzi per il bestiame brado e i fossi cespugliosi), anche certe grandi e tristi solitudini senza case, senza strade e senza alberi acquistano un carattere di meravigliosa espressività pittoresca.
Una fioritura di steppa dà tinte calde al terreno che pare gonfiarsi in fugaci impeti di vita, e su di essa radi cespugli e arbusti di oleandri mettono note di colore più vivo, mentre i colori purpurei, violacei, verdi, azzurrini della gran muraglia silana fanno uno sfondo fantastico alla gran distesa palpitante di vita breve ed intensa. Il viaggiatore che percorre per la prima volta in ferrovia la costa ionica durante una di quelle limpidissime giornate si accorge di non aver mai ben saputo, prima di allora, che cosa fosse riso primaverile della terra.
Più in là, nell’estate fiammeggiante, bisogna salire in alto, sulla zona collinosa dai quattrocento metri in su e raggiungere a mano a mano gli ottocento e i mille metri, per sottrarsi al barbaglìo accecante delle terre disseccate ove l’ulivo schiarisce al sole, i campi maturano in immense distese e la malaria tende all’uomo i suoi terribili agguati.
I boschi di castagni, i faggeti succedono agli uliveti, alle vigne, alle ficaie. Manca quasi sempre ad essi il sottobosco umido e verde delle foreste alpine, ma c’è l’ombra, ci sono forre e ruscelli e fragranze di erbe selvatiche. Più in su ancora, sulle sommità delle serre catanzaresi, sui fianchi dell’Aspromonte, sulle serre silane è, dove l’uomo ha voluto conservarla, la classica foresta di abeti, è il cantare di acque cristalline, il fresco di pascoli in oasi a volte esigue, a volte così ampie che dànno l’illusione di un’umida natura settentrionale. D’estate la montagna si popola di greggi e di pastori, risuona di canti e di rumori fabbrili, si anima per la caccia e per la villeggiatura; sinché, col sopraggiungere lento dell’autunno, la vita par ridiscendere ai colli e alle marine, rifiorire negli orti e nei giardini, nelle vallate delle fiumare e sui declivi delle spiagge in una nuova mitezza di luci e di colori.
Alla bellezza della Calabria non manca nulla, in nessuna stagione, per chi abbia volontà di percorrere tutta la Regione sino alle sue estreme altitudini. In nessun paese d’Italia, eccettuate certe parti costiere della Sicilia, il passaggio dal mare alla montagna e dall’una all’altra delle varie zone di vegetazione è così completamente e gradatamente pittoresco come nella Calabria. Ma nulla è così bello, nella Calabria stessa come lo spettacolo che durante la buona stagione offre tutta la parte del paese declinante verso Ionio o Tirreno (ed è la massima), aperta agli orizzonti più sconfinati, solcata da mille vallate grandi e piccole, disseminata di città e di villaggi sui cocuzzoli delle sue colline, orlate di marine laboriose, tutta avvolta da una nube invisibile di profumi ove alla fragranza acuta dell’acacia e al dolce olezzo della zàgara si mescolano odori di timo e di menta, esalazioni acri e salubri di piante resinose: paesaggio di sogno che tante volte assume forme di grandiosità malinconica o bizzarria fantastica di profili, luminoso e nitido sempre, profondamente suggestivo per il poeta e per l’artista.
La Calabria vuole essere conosciuta così, nella sua libera, a volte quasi selvaggia bellezza di terra lontana e solitaria. Nessun famoso monumento artistico attira il visitatore italiano e lo straniero nella Calabria, che pure è paese – per lo meno sino all’inizio dei tempi moderni – fra i più ricchi di storia del mondo. In ciò il contrasto con la vicina Sicilia, che vanta ancora due grandi città monumentali e una folla di città minori ricche di insigni resti dell’antichità classica e di monumenti medievali e moderni, è profondo, e riesce assai doloroso al cuore dei Calabresi.
I monumenti che nel passato adornavano la Calabria, attestando il suo fiorire nell’età greca, nella romana, nella medioevale sono stati distrutti ad uno ad uno dal ripetersi incessante dei terremoti. I templi greci di città come Locroi, Caulonia, Croton, Hipponium, Rhegium, Terina, Thurii (per non dire di Sybaris, distrutta metodicamente dai Crotoniati sin dal 510 a.C.) caddero in età lontanissime, e le rovine accatastate in cumuli informi si sfecero a poco a poco sotto il terreno e la vegetazione o furono portate, a pezzo a pezzo, nei paesi lontani dalle spiagge perché servissero alla costruzione di chiese cristiane o di altri edifici. Le cattedrali normanne di Nicastro, di Cosenza, di Mileto, rivaleggianti, se non in copia di musaici e di marmi per lo meno in arditezza maestosa di forme, con le cattedrali di Sicilia, non esistono più o sono state completamente rifatte in tempi posteriori. I castelli normanni, svevi, angioini, aragonesi, spagnuoli sono in parte scomparsi, in parte sono mal riattati e deturpati; ridotto a malinconica rovina quello di Cosenza, distrutto interamente dagli uomini per far posto a costruzioni moderne quello di Catanzaro, in parte dai terremoti quello poderoso di Reggio. Pochi, come quelli di S. Severina, di Castrovillari e di Cotrone, adibiti dallo Stato o dai Comuni per loro «usi amministrativi», conservano quasi intatta una esteriore nobiltà di linee; quello di Rocca Imperiale, stupendo per l’aspetto maestoso che gli dà la posizione isolata e prominente e per la tinta fulva delle sue grandi muraglie merlate si rivela da vicino, e più ancora nell’interno, pressoché un gigantesco scheletro abbandonato.
Non si vuol dire con ciò che la Calabria manchi di vestigia artistiche del suo passato. Tutt’altro. Basterebbe citare, per dimostrare la continuità del manifestarsi e dell’evolversi delle forme artistiche nella regione, la solitaria colonna del tempio di Hera Lacinia presso Cotrone, i ruderi di Locroi e di Hipponium, i monumenti schiettamente bizantini di Rossano, di Stilo, di Santa Severina, le chiese basiliane di Staiti (S. Maria di Tridetti), di S. Demetrio Corone (S. Adriano), di Rossano (S. Maria del Patirion), di Stilo (San Giovanni Vecchio), i ruderi maestosi di S. Maria della Roccella (Borgia presso la stazione ferroviaria di Catanzaro Lido) e la cattedrale normanna, superba sulle sue antiche colonne, di Gerace Superiore, le eleganze gotiche di S. Bernardino di Morano, di S. Maria della Consolazione di Altomonte, di S. Francesco a Tropea, di S. Domenico a Cosenza. Di età più recente si potrebbero ricordare il bel San Michele di Monteleone dal nobile esterno cinquecentesco, i resti, di superba grandiosità palladiana, della Certosa di Serra S. Bruno, e le belle facciate barocche della Chiesa Madre, del Rosario, dell’Addolorata nello stesso paese e le loro ricchezze di artistici bronzi e di marmi calabresi. Converrebbe ricordare le numerose statue gaginiane sparse nella regione (particolarmente quelle della Matrice di Monteleone), i mausolei di età angioina, aragonese e spagnuola di Cosenza, di Gerace, di Caulonia, di Altomonte, di Scalea, i bellissimi esemplari di oreficeria religiosa (la famosa stauroteca di arte normanna-sveva) e gli intagli in legno di Cosenza, quelli di S. Marco Argentano, di Altomonte, di Morano, di Tropea. Bisognerebbe ricordare soprattutto il tesoro pressoché ignorato – e non solo dal grande pubblico – delle numerose tele di Mattia Preti che nella nativa Taverna dicono tutta la tragica grandezza di uno dei più espressivi artisti del Seicento italiano.
La Calabria è ancora terra in notevole parte da «scoprire» o da studiare sotto l’aspetto dell’arte, specialmente per l’età classica e per il primo medioevo. Deliziose sorprese serbano al viaggiatore colto, insieme con le numerose raccolte private, i piccoli ma interessanti musei di Gerace Marina, Catanzaro, Cotrone, ricchi di fittili d’ogni specie, di tavolette funerarie, di armi, di monete dell’età classica; ricco di oggetti notevoli d’arte antica e moderna è quello Comunale di Reggio, ove se ne viene preparando uno, che sarà di capitale importanza per gli studi sull’arte classica della regione, a cura della Sovraintendenza dei monumenti per la Calabria recentemente istituita. C’è fra i calabresi da parecchi anni un vivace movimento per la rivelazione, la difesa e la messa in valore del patrimonio artistico regionale. Sorgono comitati di amici dell’arte e dei monumenti (Società Mattia Preti a Reggio Calabria, Gruppo Artistico Calabrese a Roma), si partecipa degnamente alle maggiori mostre nazionali di arte decorativa (Monza e Roma) con intento di mettere in luce i prodotti artistici locali e di richiamare a nuova vita motivi estetici tradizionali, si fanno studi e ricerche, si pubblicano riviste e si compilano cataloghi di monumenti e opere d’arte. Se attualmente ancora scarsa e quasi soltanto occasionate è l’attività dello Stato per ciò che riguarda gli scavi, mercè l’infaticato amore di alcuni uomini raccolti nella giovane ma già benemerita Società Magna Grecia (primo fra tutti, sempre, Paolo Orsi, al quale la Calabria deve di essere stata rivelata come regione avente un suo carattere d’arte) si intraprendono e si continuano con notevole ricchezza di risultati, campagne di scavi (Monteleone, Cirò e, prossimamente, Sibari).
Con tutto ciò, non proprio dai suoi resti di arte, spesso insigni per valore estetico e quasi sempre ricchi di interesse storico, ma troppo spesso anche frammentarii o confusi tra povertà informe di costruzioni o sommersi nello splendore di tinte e nell’esuberanza della vegetazione (assai raramente in Calabria il monumento fa parte essenziale del paesaggio, come avviene, per non dire della Toscana o dell’Umbria, nella Sardegna con le sue chiesette di arte pisana e i torreggianti nuraghi o nella Sicilia con le rovine classiche di templi e di teatri) la Calabria può aspettare di vedersi fatta ampiamente nota, come terra di bellezza, agli italiani ed agli stranieri. La Calabria attende di essere conosciuta soprattutto come terra dei due mari, come nutrice di uliveti e di aranceti, come il paese della Sila, anzi delle Sile (i Romani chiamavano Sila, cioè selva, non soltanto il massiccio cosentino, ma anche tutta la montagna che dall’istmo catanzarese si allunga sino all’Aspromonte, e l’Aspromonte stesso), come la regione che meglio custodisce in Italia il tipo del solenne, di per sé suggestivo paesaggio classico.
Per fortuna, la vera ricchezza, l’avvenire della Calabria non potranno significare che accrescimento di bellezza per quella terra. Più boschi in alto, più giardini e orti in vicinanza del mare aggiungeranno grazia ai suoi declivi, interromperanno il giallo diffuso e monotono di certi suoi paesaggi montani, ammorbidiranno certe asprezze di paesaggio rovinoso senza togliere nulla alla suprema eleganza, alla fantastica nobiltà delle sue linee.
La Calabria è, come tutta l’Italia meridionale, d’altronde, terra che aspetta dall’albero – il quale sa affondare meglio che l’erba le radici nel terreno a succhiarne la scarsa umidità, e sa più lottare col vento e col sole – la sua ricchezza; e l’albero, qualunque esso sia, è sempre, dappertutto, elemento in sommo grado creatore e conservatore di bellezza.
Sono ancora notevolmente diffuse in Calabria, nonostante i mutamenti prodotti nell’economia e nelle abitudini della gente dall’emigrazione e dai crescenti rapporti con le altre regioni d’Italia, le tradizionali fogge di vestire, specialmente femminili; e il loro apparire nella campagna soleggiata o fra le vecchie mura degli abitati è spesso, in certo modo, per il viaggiatore un compenso alla generale scarsezza di evidenti attrattive artistiche nella regione. È peccato, soltanto, che la facilità di ricorrere a prodotti del commercio tenda sempre più ad alterare, con aggiunte o sostituzioni, la semplicità e la grazia primitive dei costumi. Nel territorio a nord e ad ovest di Catanzaro le gonne rosso vivo delle donne di Tiriolo, di Marcellinara, di altri paesi vicini mettono una nota vivacissima sugli sfondi verdi, gialli, argentini delle distese di grano, degli aranceti, degli uliveti della campagna; e nei giorni di festa, prodigiosa è la fantasmagoria di colori che le lunghe schiere di donne uscenti di chiesa o sfilanti nelle processioni religiose compongono sulle piazze e fra le vie strette dei paesi, col «vancale» – grande panno di lana a striscie variopinte – gettato con grazia istintiva sulle spalle, col bianco «mandile», con gli scialletti e con i fronzoli di cui si adornano busti, maniche e spalle.
A S. Giovanni in Fiore il bel costume nero e severo, quasi monacale, delle donne è ravvivato dai «rizzi», due lunghe ciocche di capelli inanellati che scendono ad incorniciare i volti, e dalle delicate fantasie delle «collerate», striscie ricamate ad ago con motivi di schietta eleganza che fa pensare a leggiadre decorazioni architettoniche bizantine, con le quali si adornano gli scolli delle camicie uscenti dal busto.
A Cosenza e nei dintorni predominano tinte di un giallo acceso nei fazzoletti, negli scialli di cui si ricoprono le donne; nei paesi albanesi si sfoggiano, specialmente in occasioni di feste famigliari, ricchezze abbaglian...

Indice dei contenuti

  1. Giuseppe Isnardi Calabria geo-antropica
  2. Colophon
  3. Introduzione di Saverio Napolitano
  4. Calabria geo-antropica