Se non ricordo male
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Se non ricordo male

Frammenti autobiografici raccolti da Domenico Monetti e Luca Pallanch

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Se non ricordo male

Frammenti autobiografici raccolti da Domenico Monetti e Luca Pallanch

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Informazioni sul libro

«Ho fatto il partigiano nelle valli bergamasche, ho preparato carte d'identità false per gli ebrei, ho venduto armi, ho bocciato le poesie di un giovane Pasolini, ho fatto da guida a Le Corbusier, ho incontrato Orson Welles, ho diviso la povertà con Marco Ferreri e i ricordi di guerra con Fenoglio, sono stato aiuto regista di Zurlini, Ettore Giannini e Rosi, ho lavorato nella famosa Lux Film di Gualino e Gatti, ho bocciato i provini della Loren e della Koscina… Ero il pupillo di Vittorini, pranzavo con Ferruccio Parri, Gassman e Rossellini, lavoravo di nascosto assieme ad Antonioni. Ho fatto coppia con il geniale Kim Arcalli, ho diretto Tomas Milian, Jean-Louis Trintignant, Gina Lollobrigida, Lucia Bosè… Sono scappato dall'Italia e ho vissuto nell'Isola di Baru, in Colombia, fraternizzando con Gabriel García Márquez… Ho girato il mondo con il folle produttore Daniele Senatore: abbiamo tirato coca nel bagno di Richard Burton, dormito nel letto della Loren a Central Park, aperto uffici a New York, Los Angeles e Cartagena… Un giorno mi sono ritirato in casa e ho cominciato a girare film da solo, con la videocamera, per la fantomatica casa di produzione Solipso Film…».Nel secondo Novecento il lucidamente appartato Giulio Questi è stato sempre presente, fra cinema e letteratura, realtà e mistificazione. E questo romanzo di formazione di un novantenne narra le sue straordinarie avventure.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788849843514
Argomento
Arte

Premessa

All’inizio tutto è nato da alcune conversazioni registrate con gli amici Domenico Monetti e Luca Pallanch. Una rincorsa della memoria sollecitata da domande non perentorie, articolate sui percorsi di un’amichevole curiosità. Ne seguivano le mie chiacchiere, disinibite da un tintinnante bicchiere di whisky in mano. Sbobinate le registrazioni, sono state cancellate le domande e sono rimaste soltanto le mie chiacchiere. È stato come togliermi di colpo la sedia su cui stavo seduto e farmi andare, come si dice, col culo per terra. Tutto si tramutava in un vagante sproloquio senza più l’appoggio dialettico della conversazione, significata e calibrata dai toni di voce, dalle pause, dalla mimica. Quella che era solo una chiacchiera assumeva l’impegno di un’autobiografia e il testo non era certo all’altezza. Perciò tutto o quasi tutto è stato riscritto, ordinato in volenterosi capitoli, arricchito di nuove voci. Insomma, si è imposta la scrittura. Tutto per giustificare un abbozzo di autobiografia dal dubbio interesse.
G.Q.

Genealogia

L’albero genealogico della mia famiglia si perde a ritroso nel nulla, appena al di là del Novecento. Giunge fino a un bisavolo di mia madre processato per vilipendio di cadavere. Il cadavere di sua moglie.
Già piuttosto avanti con gli anni, con i figli emigrati in Francia, lui e la moglie vivevano da soli in una baita di montagna su un magro pascolo con due sole mucche nella stalla. L’autunno era già inoltrato e si preparavano ad abbandonare il pascolo per svernare, come al solito, in paese con i due animali, quando un brutale anticipo di inverno si è abbattuto sulla montagna imprigionandoli in una nevicata di tre notti e tre giorni che ha cancellato ogni sentiero. La temperatura è precipitata e per tutta la valle la neve si è trasformata in ghiaccio. La moglie non si è alzata più dalla paglia e nel giro di pochi giorni è morta di polmonite. Per conservarne il corpo e soprattutto per liberare la paglia che serviva alla sopravvivenza degli animali, il vecchio ha trasportato la moglie nel gelo della legnaia appena fuori della baita. Poiché il corpo era già indurito e rigido per la morte e per il freddo, non ha trovato di meglio che addossarlo in piedi alla parete, tra la legna, anche per ragioni di spazio. Essendo il camino della baita sempre acceso, il vecchio andava spesso nella legnaia, anche in piena notte, facendosi luce con una lampada a petrolio. La prima volta si è trovato in imbarazzo perché non sapeva dove appendere la lampada mentre si caricava di legna. Gli è venuta incontro la moglie, quasi lo volesse aiutare ancora una volta, in piedi contro la parete, con la bocca spalancata e sdentata, così rimasta nel suo ultimo disperato tentativo di catturare un po’ d’aria prima di morire. Il vecchio non ha avuto dubbi e ha agganciato la lampada a quella bocca provvidenzialmente aperta, proprio all’altezza giusta per fare luce. Così è stato per molte notti, finché è venuto un improvviso disgelo e il vecchio è potuto finalmente scendere in paese con i due animali e con il corpo della moglie a spalle in una gerla.
Fu giù in paese che fecero tante storie: in effetti, scomparsa la consistente durezza del gelo, la bocca scardinata e lacerata si era afflosciata in una smorfia spaventosa e abnorme che ha scandalizzato e insospettito i benpensanti, fino a una denuncia per vilipendio di cadavere. Ne è seguito un processo, che è durato lo spazio di due sole sedute. Il mio avo ne è uscito ampiamente assolto. Onore a quella Giustizia sensibile alla condizione umana.
Di lui so solo che si chiamava Bepi. Dai figli dei figli e ancora dai figli snocciolati da quel ramo, non so come, è discesa la famiglia di cui faccio parte.

Il mio albero degli zoccoli

Negli anni Cinquanta, quando ero già adulto, ho scoperto che i due grandi portali in legno dei più importanti edifici del centro di Bergamo – la mia città natale –, la chiesa di S. Bartolomeo e il Teatro Donizetti, portavano alla base una targhetta di ottone con scritto il nome dell’esecutore: Giulio Questi. Il mio stesso nome. Mio nonno. È stato mio padre a dirmelo: «Va un po’ a vedere, se non è vero». Cavolo, era vero! Le due targhette sono poi scomparse in seguito al sopravvenuto restauro di quei portali. Un peccato perché quelle due targhette sono tutto quanto so di mio nonno. Ho scoperto infatti che anche mio padre non sapeva niente di lui. Neanche ricordava di averlo conosciuto, perché era morto quando lui, figlio unico, non aveva ancora due anni. Sapeva solo che, in seguito a quella morte, sua madre era caduta in miseria e si era arrangiata facendo la sarta. Anni dopo si era risposata. Questa nonna qualche volta l’ho vista e mi inquietava: aveva un bel viso forte, fosco e zingaresco, ma non era una zingara.
Pur tra mille difficoltà, ha cresciuto suo figlio, nato nell’anno 1901. Trovando qualche aiuto e qualche protezione, l’ha fatto studiare alla scuola d’arte applicata “Fantoni”, la stessa scuola forse, mi piace immaginare, dove suo padre aveva imparato così bene il mestiere di falegname e intagliatore. Mio padre è diventato invece un buon disegnatore tecnico. Finita la scuola, ha trovato lavoro in una ditta di motori elettrici e si è specializzato come disegnatore di questi apparecchi. La ditta era legata alla Westinghouse, la famosa società statunitense di apparecchiature elettriche, che lo ha richiesto per la filiale di Parigi, dove ha lavorato e vissuto per un paio d’anni. Tornato in Italia, si è sposato quasi subito. Probabilmente mia madre era rimasta incinta. E infatti si sono sposati così in fretta e furia che non avevano neppure una casa e sono andati ad abitare dalla famiglia di mia madre, che aveva cinque fratelli e quattro sorelle.
I miei nonni materni venivano dalla campagna, da un borgo chiamato Sabbio Bergamasco, una frazione di Dalmine. Avevano terra in affitto, poi i raccolti erano andati male e si erano trasferiti a Bergamo. Mia madre mi ha raccontato che ha lasciato la campagna con tutta la famiglia ed è arrivata in città su un carro: padre, madre, dieci figli e in più la nonna. Ha trovato una stalla con gli animali e si è messa a vendere il latte. Poi mio nonno ha avuto l’occasione di comprare un forno e tutti i componenti della famiglia sono diventati fornai, le femmine a vendere in negozio, i maschi a impastare e a infornare. Il primo inverno della mia vita l’ho trascorso al caldo nel locale del forno, una cesta del pane è stata la mia prima culla. E siccome per tutta la casa c’erano sacchi di farina, era pieno di topi e di gatti. Ce n’era sempre qualcuno che ronfava nella mia cesta facendomi compagnia. Sono cresciuto lì per circa un anno e mezzo, poi i miei genitori hanno trovato casa a due passi dal forno, per cui ho continuato a vivere con un piede in questa affollata famiglia piena di zii.
Ho avuto negli anni tre sorelle e da ultimo un fratello, più giovane di me di diciannove anni, che è morto qualche anno fa, ancora abbastanza giovane. Era diplomato in chimica, si era messo in proprio, sperimentava vernici speciali nel suo capannone: l’ha ucciso un cancro ai polmoni. Due sorelle vivono da cinquant’anni in Sudafrica, a Johannesburg. Da tempo sono cittadine sudafricane. Ho laggiù non so quanti nipoti. Un’altra sorella vive ancora a Bergamo. Anche lì nipoti e pronipoti.

Mia madre e mio padre…

Mia madre, nata nell’anno 1900, era curiosa, focosa e ardente, allegra, ma si arrabbiava per niente. Ha fatto solo le scuole elementari senza nemmeno completarle e incredibilmente è stata una grande conoscitrice di Tolstoj, Čechov e di tutta la letteratura francese dell’Ottocento, Balzac, Zola, Maupassant… una gran divoratrice di libri. La ricordo sempre intenta a leggere qualche romanzo, di sera, seduta sul tavolo di cucina, per stare vicino alla lampada. Era proprio fanatica: Čechov lo conosceva a memoria. Lei non intellettualizzava concettualmente quello che leggeva, era presa piuttosto dalla vicenda umana dei personaggi, per cui conosceva tutte le sfumature dei romanzi e dei racconti, più di un critico letterario. Era molto passionale nei sentimenti: io tendevo a scivolare via per non farmi acchiappare! Invece quando si arrabbiava, mi tirava gli zoccoli, e una volta, mentre scappavo, mi tirò persino un paio di forbici, che andarono a piantarsi, vibrando, nello stipite della porta!
Mio padre invece era l’esatto contrario: un uomo che si era riscattato dalla povertà dell’infanzia, persona ordinata e d’ordine, di grande perbenismo, intelligente. Negli anni Trenta si è iscritto alla facoltà di ingegneria per corrispondenza di un’università francese. Ricordo quei fascicoli che arrivavano dalla Francia carichi di francobolli e lui che ci studiava sopra di notte. Ricordo l’odore che aveva sempre nei vestiti, l’odore della grafite delle matite. Ricordo il grosso regolo che teneva sempre nel taschino della giacca per i calcoli matematici.
Ma torniamo un po’ indietro. Nel 1929, quando io avevo cinque anni, mio padre è stato licenziato. Ricordo discussioni animate tra lui e mia madre per problemi economici: la crisi del ’29, che per molti ha solamente un valore storico, io invece l’ho vissuta direttamente in famiglia per parecchi mesi. Dopo un bel po’ di disoccupazione, mio padre per fortuna ha trovato lavoro in una nuova ditta, la Marelli di Milano. Successivamente è potuto tornare alla vecchia ditta di Bergamo. Essendo antifascista, non ha mai fatto carriera. Finita la guerra, il suo antifascismo è stato sdoganato. È stato promosso dirigente con adeguato stipendio, ma si è subito ammalato. Si è fatto liquidare e si è messo in proprio, brevettando alcuni interruttori per motori. Ha brevettato anche un parcheggio per automobili e altre piccole cose. La sua vera vocazione era quella dell’inventore. È morto nel 1954 di tumore, a soli 53 anni, ancora pieno di progetti, imbottito di morfina.

Sparare, uccidere, morire…

È sempre un po’ equivoco attribuire grande valore ideologico a scelte fatte all’età di 17-18 anni. Io comunque provenivo da una famiglia antifascista e in casa mia il fascismo era oggetto di avversione e disgusto. Mio padre aveva visto nascere il fascismo da Parigi, nel ’22, leggendo gli avvenimenti sui giornali socialisti francesi. Ma, prima ancora della scelta ideologica, la necessità di diventare partigiano per me era impellente perché mi era arrivata la cartolina per andare sotto le armi. Questo è accaduto dopo l’8 settembre ’43. Io ero già in piena attività militante antifascista da un paio d’anni, nella rete clandestina del Partito d’Azione. Avrei quindi dovuto presentarmi in caserma per essere arruolato a combattere al fronte con i tedeschi. Non avevo scampo. Tutto sommato andare in montagna era molto meno pericoloso che andare sul fronte gotico sotto le cannonate e i bombardamenti. Non c’è stato niente di eroico nella mia scelta. Poi naturalmente da partigiano ho rischiato la pelle, ma in un altro modo: il rischio derivava da scelte personali. A quell’età il senso d’avventura è dominante.
Ero un semplice partigiano, poi sono stato “promosso”… parola che non esisteva, quindi meglio dire che ho ricevuto l’incarico di comandante di distaccamento. Conservo ancora in un cassetto la mia stelletta che portavo cucita sulla giacca a vento.
Il mio primo inverno da partigiano l’ho trascorso in una banda spontanea. Le formazioni militari organizzate in brigate infatti non sono nate subito, ma ben dopo l’8 settembre. Dai primi gruppi spontanei alla costituzione delle cosiddette brigate vere e proprie sono passati molti mesi: sono nate solo verso la fine dell’inverno e l’inizio della primavera del ’44. Erano la filiazione militare del Comitato di Liberazione Nazionale, ovvero il comando politico clandestino dove militavano i Longo, i Parri e gli altri rappresentanti dei partiti politici antifascisti. Nella mia brigata c’erano compagni di diversa provenienza: contadini e montanari del posto, operai milanesi sfuggiti alla polizia politica, sbandati della IV Armata italiana in Francia. Dopo aver tentato invano di raggiungere le loro case più a sud, alcuni si erano arruolati nelle nostre formazioni.
Ma torniamo alla mia prima banda, nell’inverno del ’43. Il nostro comandante era un ragazzo un po’ più vecchio di me, operaio e comunista. Avevamo la base nel fitto di un bosco, in uno chalet di caccia che avevamo occupato scardinando la porta. Rimasti senza viveri, siamo scesi a valle con un motocarro e in due riprese abbiamo svaligiato una piccola banca di paese e la villa di un industriale milanese. Finché una notte siamo stati circondati e attaccati da formazioni militari fasciste. Una spaventosa sparatoria nel buio fitto della notte e del bosco. Ci siamo salvati soltanto in tre, sfuggiti all’accerchiamento in modo fortunoso. Alcuni della banda sono caduti in combattimento, gli altri, circa una dozzina, sono stati fatti prigionieri e deportati in Germania. Noi superstiti ci siamo rifugiati in una piccola valle limitrofa, stretta e profonda, perennemente senza sole, in quel mese di gennaio tutto gelo e ghiaccio. Valle di cui ricordo ancora il nome che suonava quasi onomatopeico per lo scricchiolare del ghiaccio sotto i chiodi degli scarponi: Val del Vetro. Una maledetta valle di freddo e di fame. Solo dopo alcuni giorni siamo riusciti a riprendere contatto col nostro referente clandestino. Costui, venuto dalla città, mi ha comunicato inaspettatamente che proprio me cercava: dovevo raggiungere Milano per incontrare un dirigente della Montedison legato al Comitato di Liberazione Nazionale. Mi ha portato via con lui. Da Milano sono stato spedito in missione a Bologna, in una casa in via del Carro, dove sono rimasto per circa un mese con l’incarico di preparare carte d’identità false: dovevo mettere i nomi e incollare le fotografie. Per lo più di ebrei. La famiglia di antifascisti – marito e moglie, gente modesta e perbene – che mi ha ospitato, poco tempo dopo la mia partenza, è stata scoperta, presa e portata in un campo di concentramento in Germania, da dove non è più tornata. Per me il maggior rischio di quella missione a Bologna è stato il viaggio in treno di andata e ritorno. Avevo documenti falsi, ma avevo l’età e l’aspetto di uno che doveva essere sotto le armi e quindi probabile renitente. Per i renitenti alla leva era uscito da poco un bando di condanna a morte e le pattuglie della polizia militare battevano le stazioni e i treni.
Dopo questa missione estemporanea, sono tornato di nuovo sulle montagne bergamasche, finendo in un’altra banda irregolare capitanata da Del Bello, col quale sono rimasto circa un paio di mesi. Il Del Bello è stato fucilato nell’estate con altri quattro uomini per ordine del Comando generale. Ho avuto la sventura di assistere a questa mattanza. Lasciato il Del Bello, sono approdato in una brigata che si era formata nel frattempo, una brigata Giustizia e Libertà. Stanziavamo in rifugi di montagna in alta Val Seriana, sconfinando spesso in Valtellina. Gli uomini erano bravi ragazzi, ma il comandante era sbagliato: un ex tenente dell’esercito inviato dall’alto, che si era portato appresso un paio di sergenti del suo vecchio reparto. Un fanatico cattolico fondamentalista che reprimeva ogni respiro della brigata, imponendo una militarizzazione cervellotica, tutto il contrario dello spirito volontario e libertario proprio della nostra mobilitazione popolare. Per dirne una: puniva le bestemmie sequestrando le munizioni del fucile al bestemmiatore. Mezza brigata si aggirava disarmata. Ci sono stati tensioni e incidenti per cattiva gestione di comando. In uno di questi ci è scappata la morte di un giovane compagno. È toccato a me andare a seppellirlo, aiutato da un paio di compagni. Una discesa massacrante con il morto legato sul dorso di un cavallo, fino a un paese del fondovalle. In piena notte abbiamo forzato il cancello del piccolo cimitero, scavata una fossa, calato il morto con le cinture dei nostri pantaloni. A questo punto mi sono ribellato. All’alba, da incosciente, con un mozzicone di matita ho scritto una lettera per il comandante in cui denunciavo, indignato, la cattiva conduzione della brigata e il mio rifiuto di rendermi complice. Dichiaravo di ritenermi libero, di trattenere le mie armi personali e di cercare un’altra collocazione. Ho consegnato la lettera ai due compagni, che sono ripartiti per la montagna tirandosi dietro il cavallo.
Cosa mi spinse a scrivere quella lettera? Sicuramente il dolore per l’inutile morte del compagno, ma altrettanto sicuramente, conoscendomi, la bellezza letteraria del gesto, degno di un personaggio di Guerra e pace. Il risultato è stato un’immediata condanna a morte per ammutinamento e diserzione. Il comandante ha spedito pattuglie a cercarmi. Per più di un mese ho vissuto alla macchia nei boschi con l’unica difesa del mio Sten, con due caricatori di quaranta colpi, e della mia pistola Astra 7,65. Dormivo nei rifugi dei carbonai. Vivevo di polenta. Avevo i pidocchi, mi grattavo la schiena sino a farla sanguinare contro i tronchi degli alberi: si era aggiunta la scabbia.
Mi sono riscattato con un colpo di fortuna. Mi era giunta voce che sul territorio si aggirava un certo comandante Mino alla ricerca disperata di volontari da arruolare senza andare troppo per il sottile. In seguito a un rastrellamento aveva perso quasi tutti i suoi uomini. Doveva in fretta e furia mettere insieme una nuova formazione sufficiente a ricevere un lancio aereo di armi. Era l’unico depositario delle parole chiave di un messaggio radio cifrato riguardante l’imminente lancio. L’ho incontrato in una piccola frazione ai margini del bosco e sono stato subito arruolato. Pochi giorni dopo, insieme a una trentina d’uomini, ho raggiunto nella neve un rifugio di montagna in una zona di laghi ghiacciati. Ormai ero al sicuro sotto le insegne del mitico comandante Mino. Nel frattempo il comandante integralista della mia vecchia formazione era stato destituito su iniziativa del Comando generale. Più tardi ho avuto l’occasione di incontrare e riabbracciare i miei vecchi compagni. Senza rancore.
Sotto il comando di Mino ho passato l’inverno e la primavera ’44-’45, tra memorabili avvenimenti, sui quali alcuni anni dopo ho scritto una serie di racconti. Il nuovo gruppo era ancora sotto le insegne di Giustizia e Libertà, ma Mino aveva ottenuto dal Comando generale di organizzarsi in banda autonoma col nome di Cacciatori delle Alpi. Un gruppo di una ventina di uomini che si spostava continuamente in piena libertà. Una brigata poteva avere da un minimo di un centinaio di uomini a un massimo di trecento, con grandi problemi di approvvigionamento che andavano a pesare sul territorio e sulla popolazione. Venti uomini non creavano di questi problemi. Grande facilità di spostamento, di iniziativa, di azione. Fra le cose più folli, l’incarico che ho avuto di scendere in città a ucc...

Indice dei contenuti

  1. Se non ricordo male
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Prefazione
  5. Se non ricordo male
  6. Premessa
  7. Filmografia commentata