L'abuso della ragione
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L'abuso della ragione

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L'abuso della ragione

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L'abuso della ragione è un classico della metodologia delle scienze sociali, un'opera nella quale Hayek mostra le ragioni e le conseguenze non solo epistemologiche ma anche etiche e politiche dell'individualismo metodologico, una prospettiva che si oppone e che scardina la tradizione del collettivismo metodologico, dove si reificano, si fanno diventare res, i concetti collettivi (lo 'Stato', il 'partito', la 'classe', il 'popolo', ecc.) con l'inevitabile conseguenza di politiche liberticide. La concezione collettivistica è un funesto impasto di scientismo, costruttivismo e storicismo. Hayek la analizza in profondità e dettagliatamente negli scritti di Saint-Simon, in quelli di Comte, nel nefasto influsso dell'Ecole Polytechnique e, infine, in Hegel. E se nella società prefigurata da Saint-Simon «chiunque non ubbidisca ai comandi sarà trattato dagli altri come un quadrupede», da Hegel e Comte scaturisce, per Hayek, «la principale fonte di quella hybris collettivistica che aspira a una 'direzione cosciente' di tutte le forze della società» – la fonte, in breve, del totalitarismo nazifascista e del totalitarismo comunista.

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Informazioni

Parte seconda

La controrivoluzione della scienza

L’epoca ha preferito il regno dell’intelletto
al regno della libertà.
LORD ACTON

11. L’école polytechnique, fonte della “hybris” scientista

1. L’uomo non va mai incontro a errore più grave di quelli che commette quando si ostina a spingersi sempre più innanzi, all’infinito, per la strada lungo la quale ha colto i suoi maggiori successi. D’altra parte, mai orgoglio per le conquiste delle scienze della natura e fiducia nell’onnipotenza dei loro metodi furono più legittimi che nel periodo compreso tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, quando, per giunta, la sola Parigi ospitava quasi tutti i grandi scienziati del tempo. Se è vero che il nuovo atteggiamento verso i problemi sociali adottato dall’uomo del XIX secolo fu una conseguenza diretta dei nuovi abiti mentali consolidatisi nel diuturno sforzo di conquista intellettuale e materiale della natura, sembra logico attendersi di vederlo venire alla luce, quell’atteggiamento, prima che altrove, proprio nel luogo in cui la scienza moderna conseguiva i suoi maggiori trionfi. Tale attesa non andrà delusa: infatti, le due grandi correnti spirituali che nel corso del XIX secolo trasformarono le scienze sociali – il socialismo moderno e quella specie di moderno positivismo che chiameremo scientismo sgorgarono proprio da quel gruppo di scienziati e ingegneri di professione che aveva a proprio centro Parigi e, più specificamente, l’Ecole Polytechnique, la nuova istituzione che incarnava come nessun’altra il nuovo spirito.
È noto che l’Illuminismo francese fu caratterizzato da un generale entusiasmo per le scienze della natura, quale mai si era visto in passato, e che proprio Voltaire promosse quel culto di Newton che poi doveva essere innalzato da Saint-Simon a vertici tali da renderlo ridicolo. La nuova passione cominciò subito a dare vistosi frutti. Inizialmente, l’interesse si concentrò sui settori più strettamente legati al grande nome di Newton. In Clairault e d’Alembert, i più grandi matematici dell’epoca insieme con Euler, Newton ebbe subito degni successori, ai quali tennero dietro Lagrange e Laplace, geni di analoga grandezza. Con Lavoisier, non solo fondatore della chimica moderna, ma anche grande fisiologo, e, in misura minore, con Buffon nella biologia, cominciò il primato della Francia in tutte le maggiori branche delle scienze della natura.
L’Enciclopedia fu un grandioso tentativo di unificazione e volgarizzazione delle conquiste della nuova scienza, e il Discours préliminaire (1754) alla grande opera, nel quale d’Alembert cercò di tracciare un quadro della nascita, dei progressi e delle affinità delle varie scienze, può essere considerato come l’introduzione non solo a quell’opera, ma a un intero periodo storico. A questo grande matematico e fisico va il merito di aver spianato la strada a quella rivoluzione per mezzo della quale finalmente, verso il cadere del secolo, il discepolo di lui, Lagrange, riuscì a liberare la meccanica da tutte le residue intrusioni metafisiche, riformulandola tutta senza più riferimento alcuno a cause ultime o a forze nascoste, ma semplicemente descrivendo le leggi di connessione di molteplici effetti tra loro1. Nessun altro esempio si riscontra, in tutta la storia della scienza, che sia più chiaramente di questo rappresentativo della tendenza di fondo del movimento scientifico di tutta un’epoca o abbia avuto influenza o valore simbolico maggiori2.
Ma, mentre quest’atto rivoluzionario era ancora nella fase di graduale preparazione nel campo in cui si sarebbe poi imposto nella forma più vistosa, la generale tendenza che in esso trovava espressione era già stata avvertita e descritta da Turgot, contemporaneo di d’Alembert. Negli stupendi e magistrali discorsi che, giovane di appena ventitré anni, pronunciò all’apertura e alla chiusura della sessione della Sorbona nel 1750 e nell’abbozzo di un «Discorso sulla storia universale» dello stesso periodo, egli indicò per sommi capi come l’avanzamento della nostra conoscenza della natura si sia accompagnato via via con la graduale emancipazione da quelle concezioni antropomorfiche che, in origine, avevano spinto l’uomo a interpretare i fenomeni a sua propria immagine, come animati da una mente simile alla sua. Quest’idea, che doveva poi diventare il tema principale del positivismo e da ultimo male usata nelle stesse scienze dell’uomo, venne poco tempo dopo volgarizzata da Charles de Brosses con il nome di feticismo3, che essa conservò fino a quando, molto più tardi, si adottarono, in luogo di esso, i termini di antropomorfismo e animismo. Ma Turgot andò ancora più in là e, anticipando integralmente Comte su questo punto, affermò che tale processo di emancipazione si svolgeva attraverso tre stadi, nei quali i fenomeni naturali, che inizialmente si riteneva fossero prodotti da esseri intelligenti, invisibili ma simili a noi, cominciarono a essere interpretati per mezzo di espressioni astratte come essenze e facoltà, finché, a conclusione di questo processo, «in base all’osservazione della reciproca azione meccanica dei corpi, vennero formulate ipotesi che potevano essere sviluppate matematicamente e verificate sperimentalmente»4.
È stato spesso sottolineato5 che, per lo più, le tesi essenziali del positivismo francese erano già state formulate da d’Alembert e Turgot e dai loro amici e discepoli Lagrange e Condorcet. Per buona parte di ciò che di apprezzabile e valido quella dottrina contiene, l’affermazione è senz’altro vera, anche se il loro positivismo si differenzia da quello di Hume per una forte carica di razionalismo francese. E poiché non ci accadrà di occuparci ancora più estesamente di questo argomento, richiamiamo qui l’attenzione particolarmente sul fatto che, lungo tutto lo sviluppo del positivismo francese, questa componente razionalistica, probabilmente dovuta all’influsso cartesiano, continuò a svolgere un ruolo decisivo6.
Va tuttavia segnalato che in questi grandi pensatori francesi del XVIII secolo non si trova ancora traccia alcuna di quell’arbitraria estensione ai fenomeni della società dei metodi di pensiero che poi diventarono il tratto caratterizzante della scuola dello scientismo, ad eccezione forse di alcune idee di Turgot sulla filosofia della storia e soprattutto di alcune enunciazioni dell’ultimo Condorcet. Ma nessuno di essi, che erano del resto tutti individualisti convinti, mise mai in dubbio la legittimità di impiego del metodo astratto e teorico nello studio dei fenomeni sociali. È particolarmente interessante rilevare come Turgot, e la stessa cosa vale per David Hume, sia stato contemporaneamente uno dei fondatori del positivismo e della teoria economica pura, contro la quale invece il positivismo successivo doveva condurre una guerra spietata. Ma bisogna tuttavia riconoscere che questi uomini, per certi aspetti, e sia pure inconsciamente, si fecero promotori di indirizzi di pensiero da cui in seguito scaturirono, in merito ai problemi sociali, concezioni radicalmente diverse da quelle da essi professate.
Ciò è vero soprattutto nel caso di Condorcet. Matematico come d’Alembert e Lagrange, si consacrò poi definitivamente alla teoria e alla pratica politica. E anche se, alla fine, comprese che «soltanto la meditazione può condurci alle verità generali nella scienza dell’uomo»7, egli non si rivelò soltanto ansioso di verificare questa asserzione con il più largo ricorso possibile all’osservazione, ma anche mostrò talvolta di considerare il metodo delle scienze della natura come il solo legittimo nella trattazione dei problemi della società. Fu in particolare il desiderio di applicare la tanto amata matematica, e specialmente il calcolo delle probabilità, allora di recente formulazione, alla realtà sociale e politica, che lo spinse a concentrarsi sempre più nello studio di quei fenomeni sociali che si possono oggettivamente osservare e misurare8. Già nel 1783, nell’orazione pronunciata per la sua ammissione alla Académie, egli formulò quella che doveva diventare una delle idee predilette della sociologia positivistica, l’idea cioè di un osservatore per il quale i fenomeni fisici e sociali si presenterebbero allo stesso modo, perché, «estraneo alla nostra razza, egli studierebbe la società umana come noi studiamo quelle dei castori o delle api»9. E, pur riconoscendo che questo è un irraggiungibile ideale, perché «l’osservatore stesso è una parte della società umana», tuttavia egli ripetutamente esorta gli studiosi a «introdurre nelle scienze morali la filosofia e il metodo delle scienze della natura»10.
Le sue idee più suggestive e feconde si trovano però nell’Esquisse d’un tableau historique du progrès de l’esprit humain, il celebre “testamento del XVIII secolo”, come fu poi definito, nel quale lo sfrenato ottimismo dell’epoca trovò la più grandiosa e definitiva espressione. Tracciando a grandi linee l’evolvere del progresso umano lungo tutto il corso della storia, egli vagheggia una scienza capace di prevedere il progresso futuro del genere umano, di accelerarne il ritmo e di guidarne il corso11. Ma, per poter formulare leggi che ci consentano di predire il futuro, la storia deve cessar di essere storia di individui e diventare storia di masse; deve, nello stesso tempo, cessar di essere una registrazione di fatti singoli e assumere invece a pr...

Indice dei contenuti

  1. Copertura
  2. Titolo Pagina
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Prefazione di Dario Antiseri
  6. Prefazione all’edizione italiana di Friedrich A. von Hayek
  7. Parte prima Scientismo e scienze sociali
  8. Parte seconda La controrivoluzione della scienza
  9. Parte terza Comte e Hegel
  10. Biblioteca Austriaca