Opzione zero
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Il virus che tiene in ostaggio l'Italia

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Il virus che tiene in ostaggio l'Italia

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Qual è il "male italiano"? Cosa ci ha trasformato da Potenza mondiale a Paese senza speranza? Un virus si è impadronito delle nostre menti. Così pericoloso da aver causato il declino del nostro Paese. Così invisibile che i suoi effetti si vedono soltanto nel lungo termine: dopo anni dalla sua entrata in azione, può accadere che un'intera comunità si blocchi, perda competitività e annulli le sue potenzialità di crescita. È esattamente ciò che è successo all'Italia. Il virus che ha contagiato l'Italia e gli italiani si chiama Opzione Zero. Ma come si è manifestato? Negli ultimi 20 anni, nella gran parte dei casi in cui un Ministro, un Sindaco, un dirigente pubblico, un grande imprenditore si è trovato di fronte ad una decisione strategica nel nostro Paese, ha scelto in realtà l'Opzione Zero. Ha deciso di non decidere. Per non rischiare. Per non assumersi responsabilità. Per abbattere i costi nel presente, ignorando il futuro. L'Opzione Zero è il virus che ancor oggi tiene in ostaggio il nostro Paese. Se vogliamo rinascere, dobbiamo iniziare a decidere. Resettando tutto ciò che ha bloccato l'Italia negli ultimi due decenni, tutte le "sovrastrutture" che hanno mortificato l'inesauribile creatività e intraprendenza della nostra gente. Perché oggi non abbiamo più scelta.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788849843354

L’Opzione Zero della Politica

Il «cannibalismo» delle Procure. E la politica in catene

CONFESSO D’AVER SEMPRE NUTRITO UNA SIMPATIA «naturale» per i magistrati. Sicuramente per senso dell’onestà e voglia di pulizia nel mondo, forse per appartenenza a una famiglia che ha sfornato magistrati e uomini di legge. E poi per il mito di Falcone e Borsellino. E per l’idea istintiva che il male ha già fin troppi estimatori e praticanti, mentre il bene ha bisogno di sostegno intellettuale e cura quotidiana. Ma in Italia, negli ultimi anni, alla magistratura è accaduto qualcosa di «straordinario» (nel senso, etimologicamente puro, di extra ordinem) su cui val la pena riflettere. Una vera e propria metamorfosi di cui si è molto scritto e discusso ma senza coglierne l’aspetto più inquietante per il nostro assetto democratico.
Interno giorno. Siamo nell’ufficio di un Ministro, a capo di un dicastero di rilievo. Intorno a un lungo tavolo bianco, si discute ufficiosamente con il Ministro e i suoi principali collaboratori di interventi per semplificare e chiarire norme mal scritte e affastellatesi nel tempo in un groviglio quasi inestricabile, che rischiano di bloccare investimenti importanti perché consentono interpretazioni opposte di fattispecie identiche. Creando una situazione deleteria (e palesemente inefficiente) di incertezza normativa. La discussione è molto animata, ma di grande qualità. La stanza è squarciata da raggi di sole propizi e un po’ ruffiani, che sembrano illuminare di volta in volta i portatori delle idee migliori. Visione politica e approfondimenti tecnici s’alternano armonicamente nei vari interventi, in un sano valzer di soluzioni possibili e di interessi da conciliare. È un incontro riservato, ma non c’è lobbying sporco e cattivo, non ci sono favori da scambiare tra pubblico e privato o dossier da tenere nascosti. Aleggia nella stanza un senso di «interesse nazionale» che rassicura tutti. Per quasi due ore – un tempo infinito per un politico con responsabilità di massimo livello, nell’era degli istant poll – il Ministro segue con attenzione, interviene puntualmente e indirizza. Senza una telefonata della massima urgenza, senza neanche un Tweet di mantenimento. Dopo anni di incontri istituzionali inutili, scientificamente tenuti dal leader politico di turno a distanza siderale dal merito dei problemi con fiumi di chiacchere impalpabili o improbabili rigurgiti d’ideologia seppellita dalla storia, sono piacevolmente colpito e quasi rapito dalla bellezza di questo incontro. È l’era Renzi, mi dico, la rottura generazionale che ha svegliato la politica e l’ha resa finalmente «utile» (al Paese). Ma mentre celebro (tra me e me) questo mondo meraviglioso, e i morsi della fame spingono darwinianamente l’incontro al termine, il Ministro chiede la parola. «Benissimo, credo che abbiamo trovato una buona soluzione normativa. A questo punto invito tutti a far presto, perché voglio presentare il DDL in Consiglio dei Ministri entro dieci giorni. Ma c’è una clausola finale…». Strana pausa, un po’ teatrale e un po’ tetra. «Dobbiamo prima fare una verifica, per evitare qualsiasi problema… ». Tutti gli sguardi, con il punto interrogativo stampato nelle cornee, sono per lui. Ma il Ministro abbassa gli occhi e la voce. «La materia è complessa. È molto delicata. E io sento il dovere di salvaguardare il Ministero e i miei dirigenti, perché qui sta succedendo di tutto. Non possiamo varare la nuova norma, prima di aver fatto una verifica. Con la Procura…». Casualmente, o forse no, i raggi di sole si ritirano all’improvviso dalla stanza. Nel silenzio gelido dei presenti.
Se i giudici si fanno le leggi da applicare, se nei fatti viene attribuito loro dal legislatore un potere di veto o addirittura di indirizzo dell’attività normativa, vuol dire che quel magico e delicato equilibrio tra poteri su cui si regge uno Stato moderno si è rotto. Perché quello che ho raccontato non è un episodio isolato, anzi. Sta diventando la norma, che nessuno potrà mai mettere per iscritto ma moltissimi (politici e tecnici) ormai praticano nella costituzione materiale dei Ministeri. Ciò che si sta verificando in Italia è una sorta di «cannibalismo» delle Procure, che con frequenza sempre maggiore tendono a divorare sia gli altri poteri dello Stato che le loro stesse sorelle (visto il numero crescente di conflitti tra Procure e tra magistrati all’interno di una stessa Procura). Da ciò deriva una conseguenza, letteralmente, devastante: individuare oggi in Italia un decisore pubblico che decida di assumersi il rischio di una decisione è come trovare l’Araba Fenice. Ogni volta che sussiste la minima incertezza interpretativa della norma, del regolamento o della direttiva, ogni volta che esista un precedente giuridico o amministrativo controverso, ogni volta che ci siano potenzialmente interessi pubblici in conflitto tra di loro, qualsiasi decisione pubblica si blocca. Per mesi, per anni, per decenni. La priorità assoluta del funzionario pubblico è «pararsi il culo» e scaricare la responsabilità in mani altrui. Perché ognuno di loro sa di poter essere giudicato o condannato solo se prenderà una qualsiasi decisione. E sa che, al contrario, non subirà mai alcuna conseguenza negativa se deciderà di non decidere. Ecco, caro lettore, manifestarsi ai tuoi occhi – nella sua crudezza – la prima forma di Opzione Zero che sta bloccando l’Italia.
La celeberrima tripartizione dei poteri di Montesquieu è forse troppo rigida, troppo accademica, troppo antica per essere applicata oggi nella nostra amata Repubblica? «Non c’è più libertà se il potere di giudicare non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo. Infatti se fosse unito al potere legislativo, ci sarebbe una potestà arbitraria sulla vita e la libertà dei cittadini, in quanto il giudice sarebbe legislatore. Se poi fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza d’un oppressore» (C.L. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, XI, 6).
L’8 dicembre 2008 Luciano Violante rilasciò al «Corriere della Sera» un’intervista che fece scalpore. S’intitolava «Magistrati, troppo potere» e fu interpretata quasi esclusivamente sul piano tattico: non per le riflessioni di merito che faceva, ma per le implicazioni politiche che poteva avere. Si disse nei talkshow e nei corridoi parlamentari che il PD voleva fare il grande inciucio con il PDL, che Violante si stava costruendo un futuro da Presidente della Repubblica con i voti (anche) del centrodestra. Eppure quell’intervista conteneva una denuncia clamorosa, soprattutto perché proveniente da un magistrato molto stimato e (fino ad allora) considerato leader di un ipotetico «partito delle Procure». Riletta dopo sei anni, quell’intervista appare profetica. E preziosa per capire come intervenire oggi per porre fine a quest’anomalia. «Per anni la politica ha omesso di affrontare seriamente il tema della magistratura come potere – affermava Violante –. Eppure negli ultimi decenni il potere delle diverse magistrature è cresciuto a dismisura, in modo spesso autoreferenziale e quindi non sempre accompagnato da quella autodisciplina che dovrebbe sempre ispirare l’esercizio delle funzioni pubbliche». Il fenomeno dell’ipertrofia della magistratura, in verità, non è solo nostrano ed è visibile attualmente in molte aree del mondo, dagli Stati Uniti all’Asia. Ma in Italia ha assunto oggettivamente dimensioni tali che dovrebbe preoccupare gli stessi magistrati che hanno a cuore il corretto funzionamento della democrazia. «In Italia il fenomeno è peculiare per tre motivi – spiegava sempre Violante nel 2008 –. Innanzitutto perché manca nel mondo politico la consapevolezza della necessità di un’etica pubblica separata dalla responsabilità penale. Se l’unica responsabilità che conta è quella affermata dai giudici, diventa inevitabile che i giudici acquisiscano un anomalo potere di condizionamento dei fatti politici. Il secondo motivo è che le diverse magistrature costituiscono l’ossatura amministrativa dello Stato, sono la nostra ENA… Si pensi al ruolo dei magistrati ordinari nei gabinetti, negli uffici legislativi dei ministeri, nelle Commissioni parlamentari. Il terzo motivo è il potere invasivo del Pubblico Ministero, accresciuto dal grande numero di leggi penali». Aggiungeva Violante che «l’autogestione da parte della magistratura della macchina giudiziaria e della carriera e la presenza in snodi essenziali dell’amministrazione pubblica hanno assicurato la totale impermeabilit à dell’ordine giudiziario a controlli esterni e la possibilità per ciascun magistrato che lo voglia di essere al centro di un sistema esclusivo di relazioni di potere».
Pur essendo (in molti casi) alla prima esperienza di governo, Matteo Renzi e i suoi Ministri hanno mostrato fin dall’inizio di conoscere bene il fenomeno e di averne capito la gravità. Lo testimonia il blitz immaginato dal Premier, subito dopo l’insediamento: un decreto legge avrebbe dovuto evitare che i magistrati Consiglieri di Stato e del TAR assumessero incarichi di capo dipartimento, capo di gabinetto o dell’ufficio legislativo nei Ministeri. Sulla base del principio sacrosanto secondo cui «ognuno deve far bene il suo»: chi è pagato con i soldi dei contribuenti deve concentrarsi sul proprio mestiere. Non se n’è fatto nulla, ma il segnale è stato forte e chiaro. E sarebbe giusto provarci davvero da parte di un governo, come quello Renzi, dotato della rarissima virtù di un grande sostegno popolare.
Non entro nel merito della riforma della giustizia del Ministro Orlando e di cui condivido molti interventi (in particolare la re-introduzione del falso in bilancio, l’introduzione del reato di auto-riciclaggio, le misure per abbattere a un anno la durata del primo grado civile, la modifica della prescrizione). Misureremo l’efficacia della riforma, in particolare, sui tempi e sui numeri della giustizia civile. Che oggi è quasi sempre «ingiustizia». Nei prossimi anni continueremo a detenere il record assoluto nel mondo avanzato della durata media dei processi civili, che in primo grado registrano in Italia la durata-monstre di 1.210 giorni (contro i 394 giorni della Germania, i 331 della Francia, i 399 del Regno Unito)? E l’altrettanto pernicioso record di cause civili, con un rapporto di 4.768 processi iniziati per abitante contro i 2.728 della Francia?
Ma è chiaro che il «cannibalismo delle Procure» è una piaga della democrazia italiana da sanare al più presto, a tutela degli italiani e di quella grandissima parte di magistrati che operano ogni giorno con professionalità e dedizione (spesso in solitudine e con mezzi palesemente inadeguati). Anche per risolvere un altro problema di cui pochissimo si discute, perché profondamente impopolare nell’era dell’antipolitica: lo squilibrio che si è creato nel rapporto tra potere legislativo e potere giudiziario – rispetto all’assetto voluto dai Costituenti – dopo la sostanziale eliminazione dell’immunità parlamentare, realizzata ormai 20 anni fa con la modifica dell’art. 68 della Costituzione. I Costituenti avevano disegnato un sistema di rapporti tra i due poteri e di «garanzie reciproche», che evitasse a ciascuno dei due poteri di invadere indebitamente il terreno dell’altro e quindi di prevalere sull’altro. Ma aver ridotto fortemente le garanzie dei parlamentari lasciando inalterate quelle dei magistrati, ha creato un’evidente (e pericolosa) situazione di squilibrio.
È necessario un atto di coraggio del governo e dell’intera classe politica, per porre fine – in modo razionale, rifuggendo da ideologismi o strumentalizzazioni politiche – a quella «totale impermeabilità dell’ordine giudiziario a controlli esterni» che denunciava Violante. Come? Per esempio resuscitando e realizzando una delle proposte dei Saggi (Mario Mauro, Valerio Onida, Gaetano Quagliariello e Luciano Violante) che avevano lavorato su incarico del presidente Napolitano. Il loro documento finale propone che il giudizio disciplinare per tutte le magistrature rimanga affidato in primo grado agli organi di governo interno (CSM), introducendo però un secondo e ultimo grado di giudizio affidato a una «Corte composta per un terzo da magistrati eletti dalla varie magistrature, per un terzo da eletti dal Parlamento in seduta comune e per un ultimo terzo da persone scelte dal Presidente della Repubblica tra coloro che hanno titoli per accedere alla Corte Costituzionale».
Ma una più efficace gestione disciplinare dei magistrati rischia di non essere sufficiente a «normalizzare» il loro posizionamento all’interno dell’ordinamento democratico. I magistrati sono a oggi gli unici dipendenti pubblici «irresponsabili», che non rispondono in alcun modo degli errori o degli abusi commessi. Creando uno straordinario paradosso: coloro i quali sono chiamati per primi ad applicare la legge, sono gli unici a esserne esonerati.
La soluzione finale – terribilmente discussa, ma ineludibile – è quella di introdurre nel nostro ordinamento una responsabilità civile diretta per i magistrati. Per convincersi di questa necessità, è necessario cancellare dalle nostre menti una serie di «falsi miti» che finora hanno impedito all’opinione pubblica italiana una corretta valutazione della questione. E le hanno impedito di ribellarsi di fronte all’incredibile non-attuazione della volontà popolare chiaramente espressa con il referendum del 1987. Solo per la cronaca: in teoria l’esito del referendum fu attuato con l’introduzione della legge Vassalli, che prevede la responsabilità civile diretta dello Stato per gli errori commessi dai magistrati e quella indiretta dei magistrati stessi. Secondo la legge Vassalli, infatti, lo Stato ha la possibilità di rivalersi sul magistrato per un massimo di un terzo dello stipendio annuale. Ma sfido chi legge a partecipare a un quiz. Quanti magistrati sono stati condannati a pagare, in ben 25 anni di applicazione della legge Vassalli? Diecimila forse? No, non esageriamo: mille? O almeno cento? Qualsiasi cifra sarebbe sbagliata. Perché la risposta esatta è nessuno. Zero.
Come in una guerra intellettuale proviamo allora ad abbattere almeno due falsi miti. O meglio due chaff, due nuvole elettroniche create ad arte nei decenni per impedire ai radar dell’opinione pubblica di inquadrare il bersaglio. La prima: nella nostra Costituzione non esiste alcuna norma che – né direttamente, né implicitamente – vieti la responsabilità civile diretta dei magistrati. Al contrario: l’art. 28 della Carta sancisce la responsabilità civile diretta dei funzionari e dei dipendenti dello Stato, categoria alla quale i magistrati appartengono a pieno titolo.
Secondo chaff/falso mito è quello secondo cui la responsabilità civile inciderebbe sull’autonomia della magistratura, creando nel giudice un sentimento di insicurezza che lo porterebbe a evitare le decisioni più scomode e pericolose. Ma è come sostenere che il chirurgo dovrebbe essere irresponsabile, perché altrimenti sarebbe portato a rifiutare gli interventi più complessi e delicati per paura di essere sanzionato. Tutti i professionisti pubblici che esercitano professioni delicate – in grado di incidere profondamente con il loro operato sulla salute, sulla sicurezza o sul patrimonio dei cittadini, quindi sul destino delle persone – sono oggi soggetti a responsabilità civile e penale diretta, dal medico al notaio, dall’ispettore del fisco all’ingegnere, dal poliziotto all’avvocato.
Solo introducendo una forma di responsabilità civile diretta dei magistrati, in realtà, il «cannibalismo delle Procure» sarà ricondotto entro limiti fisiologici e lo scarso equilibrio dimostrato da alcuni magistrati diventerà un’eccezione. E la politica potrà liberarsi dalle sue catene.

L’irresponsabilità nazionale. A partire dai partiti

Tra i decisori pubblici e privati del Paese è molto diffusa l’idea che la vera piaga nazionale sia l’irresponsabilità. Ovvero la fuga di chi ha il potere-dovere di decidere da qualsiasi decisione «impegnativa» e dalle varie forme di responsabilità che ne conseguono. Ma una delle caratteristiche fondamentali di una eliteè la coerenza dei suoi comportamenti con i valori dichiarati. Se quindi l’elite italiana – che in pubblico, in privato e in ogni sondaggio denuncia l’irresponsabilità come primo nemico da combattere – fosse coerente con ciò che denuncia e si comportasse di conseguenza, decidendo e mettendo gli altri in condizione di decidere, per definizione il problema sarebbe già risolto. Ma così, evidentemente, non è.
L’irresponsabilità ha innumerevoli figli in Italia, ma anche numerosi padri. Tra questi c’è sicuramente una millenaria inclinazione naturale degli italiani (compensata per nostra fortuna da altrettante e celebrate virtù), incastonata nella saggezza popolare del famoso filone di barzellette «C’erano un italiano, un tedesco, un americano…» che assegna puntualmente all’italiano i panni del furbo elusore delle regole, della programmazione e dell’ordine costituito, che però riesce sempre a cavarsela. E c’è soprattutto un sistema istituzionale e amministrativo stratificato che sembra costruito ad hoc nei decenni – in tutti i suoi gironi infernali – per disincentivare l’assunzione di responsabilità: lunghe catene di irresponsabilità, basate sulla presunzione dell’esistenza del dolo o dell’interesse personale in chi assume la decisione e sulla proliferazione di atti e strumenti formali per il passaggio della responsabilità in altre mani.
C’è però in Italia una particolare forma di irresponsabilità che è sempre rimasta nell’ombra, e di cui opinion leader e mondo accademico hanno costantemente scelto di non occuparsi. È l’irresponsabilità dei partiti verso il cittadino-elettore, nella forma dell’inconsistenza o addirittura dell’inesistenza dei programmi elettorali. L’abbiamo toccata con mano, insieme all’amico fraterno e sodale di battaglie intellettuali Stefano da Empoli, nel gennaio del 2013. Con gli altri membri del direttivo dell’Associazione La Scossa avevamo deciso di «impegnarci» nella campagna elettorale con una modalità originale. Non da candidati (dopo aver rifiutato, personalmente, qualche buona proposta in tal senso) o da militanti, ma organizzando un quality check dei programmi elettorali: un controllo di qualità indipendente su promesse e proposte ufficiali dei vari partiti, per valutarne non solo gli effetti economici ma soprattutto il grado di realizzabilità alla luce delle esperienze già realizzate negli altri Paesi europei. Ci sembrava un’idea innovativa – almeno per l’Italia – e utile per uscire dal chiacchiericcio dei nostri talk show, tipicamente isterico e vacuo, rendendo molto più «consapevole» la scelta dell’elettore a favore di un partito o dell’altro. A tal punto da spingerci (insieme ai ricercatori di I-Com) a consumare una quantità incalcolabile di «tempo libero» per costruire da zero un modello di misurazione tipico de...

Indice dei contenuti

  1. Opzione Zero
  2. Colophon
  3. Dedikation
  4. Perché Opzione Zero?
  5. La sindrome del Palio di Siena
  6. L’Opzione Zero della Politica
  7. L’Opzione Zero del Lavoro
  8. L’Opzione Zero della Cultura
  9. L’Opzione Zero del Sud
  10. L’Opzione Zero della Pubblica Amministrazione
  11. L’Opzione Zero della lotta all’evasione fiscale
  12. La bellezza. The Italian Job
  13. Dostoevskij e Impastato
  14. La Scossa dei 40
  15. Indice