Scritti su Pirandello
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Scritti su Pirandello

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Per la prima volta vengono raccolti in antologia, e con testo critico, tutti gli scritti di Corrado Alvaro dedicati a Luigi Pirandello. Si tratta di un corpus che abbraccia un arco temporale più che trentennale: dal loro primo incontro, nel 1923, fino alla morte dell'autore, nel 1956, con il testo più celebre della serie: la cosiddetta Prefazione alle Novelle per un anno. Questa "lunga fedeltà" al magistero pirandelliano si articola in più di una trentina di interventi, che costituiscono un insieme molto eterogeneo: contributi saggistici, ma anche scritti d'occasione come cronache teatrali, elzeviri o celebrazioni (e una intervista), e, inoltre, momenti autobiografici, confluiti nelle pagine dei diari. Alvaro è interessato a tutti gli aspetti della produzione artistica di Pirandello: ad esempio, ci descrive minuziosamente l'officina dello scrittore e documenta il suo rapporto con il cinema. In questa raccolta c'è anche spazio per la polemica: quando, con l'affaire Pirandello, scoppiato in seguito alla sua adesione al fascismo, Alvaro attacca il maestro, senza fare sconti, dalle colonne dei giornali d'opposizione. Il fascino di queste pagine alvariane risiede nella visione ravvicinata e in una frequentazione intima; ed esse, più che restituirci il rigore di una definizione o uno scavo esegetico, toccano corde più profonde e ci offrono un ritratto dell'uomo Pirandello, verso cui, coll'incombere degli anni, Alvaro proietta la propria crescente malinconia.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788849843729

Raccolta degli scritti pirandelliani

di Corrado Alvaro

I

Pirandello in America

Luigi Pirandello partirà dunque per Nuova York ai primi di ottobre e assisterà all’inaugurazione degli spettacoli del «Pirandello’s Theatre».
A uno scrittore così chiuso è riserbato da qualche tempo d’intraprendere lunghi viaggi, e proprio nell’età in cui il suo mondo si è rinserrato, e in cui il mondo esteriore, se egli ne potesse subire l’influenza, non gli serve. Egli diceva qualche sera fa, a qualcuno che lo accompagnava, come si sentiva poco libero a Parigi e isolato; pressappoco, penso io, come quei ritratti dei committenti ai piedi dei grandi dipinti ex voto. Pirandello non ama viaggiare o vedere, e gli manca quella voracità di sguardo con cui gli artisti depredano ogni giorno il mondo. Perciò il suo regno artistico si apre attraverso la sua opera come un dominio su cui è passato il tempo e la distanza; messo insieme attraverso chissà quali vicende e che vita, si scopre ogni volta come il panorama d’una città veduto dall’alto: gli uomini passano per le strade come su fragili ponti, e i loro atteggiamenti e i loro gesti sono come veduti attraverso la nebbia del sogno. Ognuno di loro, che cammina come un volo lento e leggero, porta un alone intorno a sé che lo limita e lo chiude senza riparo, e che è la solitudine e l’incomprensione. I suoi personaggi che nel primo gesto sono pieni d’una umanità patetica, si divincolano poi faticosamente colti nella rete del raziocinio e dell’errore come chi sogni d’essere depredato dalla coperta mentre dorme, o come una maschera su cui si rovesciasse una pioggia che le stingesse i colori le lacerasse il cappello di carta e le attaccasse sulla pelle la pomposa tela colorata del vestito. Questo spettacolo è ridevolmente penoso, ed è questa, per chi non la trovi, l’umanità di Pirandello. Si capisce così come Pirandello sia disperato quando deve uscire dalla sua stanza, tappezzata di bigio mi pare, scenario in cui, su certi divani a sdraio, e qualche sedia intirizzita da salotto incomodo, con la fodera troppo tesa, sembra d’aver veduto stare i suoi personaggi più angosciati e problematici. Sono quegli stessi personaggi che lo vennero a trovare nella sua prima gioventù, e ai quali egli s’è legato come ai primi amici del tempo in cui si conosce l’amicizia. A mano a mano che sono stati con lui, hanno aggiunto pensieri a pensieri, e i primi fatti della loro gioventù sono divenuti, nella distanza, di gigantesche proporzioni, come chi veda in punto di morte tutta la sua vita atto per atto e senta di avanzare verso una sponda buia mentre sull’altra v’è un assurdo e immobile splendore come un miraggio e un inganno.
C. Alvaro
[Pirandello in America, «Il Mondo», 30 settembre 1923]

II

L’affaire Pirandello

Un uomo volgare

Si chiama – e ce ne dispiace per la patria letteratura – Luigi Pirandello.
Alcuni giorni fa lo hanno sorpreso, in gesto di accattone, a questuare il laticlavio. Costui considerava grande onore essere cinquanta-quattresimo dopo i cinquantatrè Achei introdotti, con ammirevole disinvoltura, entro le mura di Troia.
Deluso e confuso, ed imbarazzatissimo per una certa letterina che ha ridonato, per un quarto d’ora, la capacità del riso a questa malinconica Italia dell’era nuova, il geniale uomo ha fatto una di quelle pensate che nel paese di Pulcinella (le cui ossa, di questi tempi, sussultano spesso nel gioioso avello per… diritti di autore) si chiamano mascole: e cioè alzare la voce, schiamazzare, darsi un’aria congestionata e convinta, farsi apostolo mussulmano della fede fascista. Così, nel patetico schiamazzo, la storiella del laticlavio – sognato e svanito – sarà dimenticata ed offuscata dall’immagine di Pirandello iperfascista!
Ed allora, lasciate ogni speranza o vivissimi omuncoli delle Opposizioni! Che si salverà più di voi, infelicissimi sotto i fendenti del valoroso uomo? La stampa soppressa; la Camera dispersa ai venti; il Senato riformato: del Senato, anzi, rimarrà in tutto solo quel tanto che permetterà al decreto di nomina del senatore Pirandello, mancato ieri, di venire domani.
Audacie, insomma, da far vergognare, come pantofolaio della più deplorevole risma, il Duce medesimo ed i suoi più accesi seguaci – che ancora non ci avevano pensato!
Ma a ciò non si arrestano i furori bellicosi di costui – che avevamo creduto uno scrittore di commedie, di novelle e di romanzi e che invece si è rivelato, sotto panni borghesi un Riccardo Cuor di Leone – giacché non pago di combattere, di stroncare, di disperdere, di polverizzare gli oppositori, passa oltre e, colpito da subitanea rivelazione, si mette a gridare: «Ma perché mai tutto ciò? Se gli oppositori non esistono! È il fascismo che li ha creati! È il Duce che ha commesso il gravissimo errore di crearli facendo loro la réclame! Nessuno potrà mai perdonargli questo gravissimo errore: di averli creati, parlandone’!».
Ahimè, povero autore di commedie! Si sente, in codeste tue volgari scemenze, l’umile origine del fabbricatore nostrano di bella letteratura prono dinanzi alla Dea réclame ed ai suoi sacerdoti, ed abituato a pensare che in quel tempio i letterati si creano o si distruggono: sicché esistono o non esistono a seconda che se ne parla o non se ne parla. Costoro – ombre della fama di un giorno o di una generazione – pensano, in buona fede, che le leggi della vita di ombre siano anche le leggi delle cose salde. E così questo povero autore, che peregrinò venti anni in cerca di fama – come uno dei suoi personaggi… in cerca di autore – e che finalmente trovò il suo autore e l’inventore della sua più generosa valutazione non troppo lontano dal bersaglio odierno dei suoi strali sine ictu – oggi generalizza da sé al prossimo e, cieco e sordo alla realtà che lo circonda, proclama solennemente: senza la réclame del fascismo l’Opposizione non esisterebbe!
No, caro personaggio che ha trovato il suo autore! Noi siamo di quelli che fabbricano i giornali, non di quelli – come voi – che sono fabbricati dai giornali. E restate pure con la coscienza tranquilla: il vostro Duce ed il vostro fascismo non ci hanno creati in alcun modo, perché, anzi ci avrebbero distrutto assai volentieri.
[senza firma]
[AN. (G. AMENDOLA), Un uomo volgare, «Il Mondo», 25 settembre 1924]

Carnevaletto Pirandelliano. Pettegolezzi

Riceviamo:
Signor Direttore,
Non ho la pretesa che il suo giornale pubblichi per esteso le risposte, ch’io darò altrove, ai personali attacchi con cui mi ha grandemente onorato. Ma son qui a fornire ai lettori del «Mondo» conforme al suo desiderio, la categorica documentazione di quanto ho asserito nell’«Idea» del 30 settembre ultimo scorso.
Notoriamente estraneo alle fazioni, io ho sottoscritto la protesta in favore di Luigi Pirandello con spirito non dissimile da quello con cui mesi addietro ne stesi e sottoscrissi una in favore di Adriano Tilgher (che mostrò di gradirla).
L’insulto a Luigi Pirandello era fondato sull’accusa d’un mercato fra tessera fascista e laticlavio, ch’io e tutti sapevamo e sappiamo falsa. Perché Pirandello nell’atto di dare la propria adesione al partito in cui ha fede, aveva voluto che il suo gesto apparisse in tutto disinteressato com’era, subordinandolo alla condizione di essere escluso dalle liste dei senatori.
Se cotesto rifiuto (a cui furono presenti dei testimoni) sembra «balordo» al suo giornale, è questione d’opinioni. Certo è che la sua notizia si diffuse subito nelle redazioni dei quotidiani (e anche di questo ci sono dei testimoni). Poi essa venne confermata dal fatto, chiaro anche pei ciechi che mentre i «bene informati fogli governativi» avevan dato il nome di Pirandello tra quelli dei futuri senatori, nella lista ufficiale questo nome non figurò più: chissà perché! Infine, se tutto ciò non bastasse, io so che la notizia giunse al «Mondo» da una fonte ineccepibile: e dal suo redattore Corrado Alvaro, intimo di casa di Pirandello. Il quale Alvaro otto giorni fa dichiarava a Massimo Bontempelli di aver riferito alla redazione del «Mondo», i cui scrittori erano esasperati contro Pirandello, «il gesto che il poeta aveva compiuto».
Il fatto mi è stato esattamente riportato da Massimo Bontempelli, che è pronto a testimoniare.
Senonché, la mattina del 24 settembre u.s. Alvaro partiva pel Congresso di Palermo, da cui non so se sia ancora tornato; e la sera dello stesso giorno «Il Mondo» pubblicava contro Pirandello l’articoletto intitolato «Un uomo volgare».
Veda un po’ lei, signor direttore, da che parte stia la menzogna. E intanto voglia pubblicare integralmente questa mia.
La riverisco.
Silvio d’Amico
* * *
Silvio d’Amico mi tira in ballo nella faccenda di Luigi Pirandello. La sua lettera al direttore del Mondo m’era stata annunziata questa mattina dall’amico Bontempelli al quale ho assicurato che mettere in causa anche me non era cosa che convenisse alla difesa di Luigi Pirandello. Ma giacché si tratta di chiarire un punto che riguarda la buona fede del Direttore del giornale di cui fo parte, mi devo intrattenere di questa storia che io avevo ritenuto poco interessante, e in ogni caso non meritevole di essere riferita; che anzi non dovevo riferire perché si trattava di confidenze da non mettere in pubblico.
Andiamo per ordine.
Io cominciai a frequentare la casa di Pirandello nell’inverno scorso, essendo stato invitato a far parte d’un gruppo di scrittori che colà si riunivano progettando un teatro d’arte da fondarsi in Roma. In queste riunioni non si parlò mai di politica, ad eccezione d’una sera in cui, presente uno scrittore straniero, Pirandello diede un giudizio abbastanza caldo sul movimento fascista. Nell’agosto scorso ebbi a scrivere un trafiletto con allusioni di carattere politico. Mi si consigliò allora, da qualche componente del gruppo, di non occuparmi di cose politiche giacché il teatro doveva ottenere una sovvenzione dall’on. Mussolini al quale L. Pirandello aveva fatto chiedere un colloquio. In quell’occasione reputai opportuno scrivere ai soci del teatro che credevo di render loro un servigio dimettendomi dalla loro società dalla quale mi ritirai. Dopo di allora, fino ad oggi, ebbi una sola volta occasione di trovarmi in casa di Pirandello, e non ebbi ad assistere a nessun fatto che valesse a chiarire quanto avvenne dipoi.
Venne dunque la lettera di Pirandello di iscrizione al fascismo. Mi trovavo, qualche giorno dopo, da Bontempelli, al quale espressi la mia deplorazione per l’atto così inopportuno di Pirandello e il senso di stupore che aveva provocato, nelle condizioni in cui si era compiuto. Gli dissi pure che, essendosene parlato tra redattori del Mondo, io e Tilgher sostenemmo che Pirandello non aveva mai nascosto la sua simpatia pel fascismo e che tuttavia l’atto da lui compiuto, alla vigilia della infornata senatoriale ci stupiva per la sua inopportunità. Bontempelli, che poi non ebbi più occasione di rivedere, perché il giorno 24 partivo per Palermo, mi raccontò come era andata la cosa. E riferisco.
Pirandello il giorno in cui Benelli fondò la «Lega Italica», manifestò il suo disgusto contro quello che egli stima un cattivo scrittore e contro il suo passaggio all’Opposizione. E disse: «Verrebbe quasi voglia di iscriversi al fascismo».
Questa frase fu riferita, da un redattore dell’Idea Nazionale, là presente, al suo direttore, il quale informò l’on. Mussolini, parlandone evidentemente non come d’una qualsiasi manifestazione di risentimento, ma come d’un desiderio.
Pirandello, che aveva chiesto all’onorevole Mussolini un convegno per intrattenerlo della sovvenzione al suo teatro, ricevette qualche giorno dopo una telefonata dal giornalista Milelli il quale diceva di dovergli parlare per parte dell’on. Mussolini. Pirandello, non sospettando forse di che si trattasse, o che si trattasse di quel tale convegno rispose al Milelli di andare da lui. Il Milelli arrivò, infatti, e disse: «L’on. Mussolini ha saputo che vuole iscriversi al fascismo. Egli non nasconde la sua soddisfazione e la prega di farlo subito».
Pirandello replica: «Non vorrei che si dicesse che io compio questo atto alla vigilia della infornata di senatori fra i quali sarei anch’io».
Milelli si affretta subito ad informare Pirandello che egli non è incluso nella lista senatoriale contrariamente a quanto affermavano anche i giornali ufficiosi. Pirandello dice: «Allora scriverò la lettera dopo che la lista dei senatori sarà uscita; e per non suscitare la voce che io compio questo atto per entrare in Senato, sono disposto a rinunziare per sempre a tale carica».
Milelli insiste per aver subito la lettera assicurandolo che questa rimarrà segreta fino al 20 settembre. Pirandello si decise a scrivere la lettera che consegna a Milelli raccomandandogli la massima discrezione. Milelli ripete l’assicurazione e prende la lettera.
Bontempelli, presente alla scena, ha uno scatto: «Il governo – dice – farebbe assai meglio a onorare Pirandello come si merita, anziché chiedendogli questa iscrizione in un momento così delicato».
Ma la lettera è scritta ed è partita.
Questo fu il racconto di Bontempelli, dettomi in confidenza, ed io questa confidenza la tenni per me, senza riferirla al mio Direttore, tanto più che non erano ancora intervenute le dichiarazioni di Pirandello svalutatrici e denigratrici dell’Opposizione e della sua stampa. Solo trovandomi a parlare col redattore capo del Mondo io riferii la storia, che allora era soltanto un pettegolezzo, e la sera del 23, alla vigilia del giorno in cui lui ed io, dovevamo partire pel congresso di Palermo, quando il fatto era lungi dall’assumere le proporzioni odierne. Nessuno quindi, all’infuori di me e del redattore capo, che ci trovammo in viaggio dal giorno 24 a ieri, seppe la storia che oggi devo raccontare non senza un certo fastidio.
Io non vidi più Bontempelli e quindi non potevo riferirgli di aver raccontata la storia nella direzione del Mondo che non aveva nessun interesse a saperla perché le offese pronunziate da Pirandello all’indirizzo delle Opposizioni non erano ancora venute ed era stabilito che l’iscrizione di Pirandello al fascismo non doveva essere in alcun modo commentata.
Da ciò risulta che la rinunzia di Pirandello al laticlavio non era intervenuta davanti ad alcun personaggio ufficiale, ma era stata detta davanti al foglio di carta che Milelli aveva fretta di vedere firmato. E quando Silvio d’Amico parla di rinunzia in modo così solenne dovrebbe ricordare un poco i particolari di questo fatto nel quale i buoni uffici del suo giornale hanno preparato alla curiosità del pubblico una così meschina presentazione di maneggi e di manovre che egli stesso avrebbe avuto interesse a dimenticare anziché invitarmi a squadernarle sotto gli occhi di tutti con la sua fiera indignazione e le sue accuse alla probità del nostro giornale.
Corrado Alvaro
Così il lettore è perfettamente erudito e la misura del pettegolezzo desiderato, anzi reso necessario, dall’intervento fuori causa della Venerabile Confraternita dei letterati fascisti e filo, è colma. Chi vuole abbeverarsene, si accomodi pure.
Resta, dunque, luminosamente dimostrato che il sig. D’Amico affermò cosa falsa, con infinita e deplorevole leggerezza, quando scrisse, sul suo giornale, che noi conoscevamo il rifiuto del laticlavio, da parte di Pirandello, allorché ci occupammo di lui. In che cosa abbia consistito il «gran rifiuto» i lettori hanno appreso direttamente dal nostro Alvaro, molto incautamente chiamato in causa; ma, rifiuto o non rifiuto, il sig. D’Amico sarà onorato – com’egli ama esprimersi – di apprendere da noi che egli ha mentito.
E non abbiamo altro da aggiungere.
[Carnevaletto pirandelliano. Pettegolezzi, «Il Mondo», 2 ottobre 1924]

Echi dell’affaire Pirandello Una lettera di Ojetti

Ugo Ojetti ci scrive:
Signor Direttore,
«Il Mondo» mi pone una domanda precisa: «Ritiene Ojetti, come Pirandello che le opposizioni esistano solo in virtù del fiat creatore di Mussolini e che sia lecito ingiuriarle gratuitamente in nome della fama letteraria e del culto fascista?». Rispondo subito. Nella protesta contro le contumelie dell’arte di Luigi Pirandello fiorite adesso su alcuni giornali e, con più sostanza, nel «Mondo» del 25 settembre sotto il titolo «Un uomo volgare», non una parola diceva che chi la firmasse doveva accettare il programma politico di Luigi Pirandello sulla fine del mondo e sulla sua ricostruzione in forma pirandelliana. Io ho protestato, protesto e sempre, per quel che valgano le proteste mie, protesterò contro questi impeti d’ira, privi di logica e d’efficacia, pei quali taluno s’è illuso trent’anni fa d’un Carducci, dieci anni fa d’un Croce, cinque anni fa d’un d’Annunzio, ieri di un Pirandello, un imbecille, un traditore, un ignorante o un avventuriero, soltanto perché francamente essi dichiaravano un’opinione politica differente dall’opinione dell’avversario. Prima di tutto, si sbaglia bersaglio; e questo per ragioni, dirò, professionali, mi fa pena perché anche la polemica è un’arte. Secondo, perché chi nell’ira si mette a fracassare oggetti preziosi quando, sbollita l’ira, si raggiusta la cravatta e colletto, si trova sempre un poco a disagio verso chi guarda, e più verso sé stesso; e questo tesoretto di glorie o dame o rinomanze che noi oggi s’ha nel mondo, mi sembra tanto più prezioso più è piccolo e fragile. Terzo perché (mi perdoni, signor Direttore) la violenza di questi assalti contro l’arte di Luigi Pirandello, assomiglia troppo a un colpo di quei randelli che ella, io e lo scrittore dell’articolo e moltissimi altri galantuomini, sull’Aventino o sul Vicinale, sul Quirinale o magari sul Vaticano, vorremmo vedere ormai relegati nella soffitta della sto...

Indice dei contenuti

  1. Scritti su Pirandello
  2. Colophon
  3. Il «tempo per fantasticargli vicino». Alvaro critico di Pirandello
  4. Bibliografia degli scritti di Corrado Alvaro su Luigi Pirandello (1923-1959)
  5. Nota al testo
  6. Raccolta degli scritti pirandelliani di Corrado Alvaro
  7. Indice