L'artigiano della natura
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L'artigiano della natura

Storia di un venditore diventato capitano d'impresa

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L'artigiano della natura

Storia di un venditore diventato capitano d'impresa

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Informazioni sul libro

«Ho sempre fatto il venditore ma dopo tanti anni di frequentazioni di imprenditori mi è venuta voglia di diventare anch'io un capitano d'impresa. Il mondo ha appena girato il calendario: siamo nel 2000! Incontro un consulente con cui avevo lavorato, mi parla di un'azienda che fa detergenza ecologica e cosmesi naturale, pioniera in Italia del direct marketing, le vendite porta a porta. "Aristide, guarda che forse la stanno vendendo. Non ti volevi mettere in proprio?". Chiedo subito un appuntamento. Il proprietario, Vittorio Adaglio, mi dà udienza: "Lavoro per un'azienda del settore abbigliamento, ma mi è giunta voce che stareste per vendere la vostra attività. Possiamo parlarne?". Adaglio anche se ha già diverse proposte mi prende sul serio. Adesso devo rivolgermi alle banche per ottenere una fidejussione. Faccio un sondaggio con una prima banca, ma niente: pretendono troppe garanzie. Come fare? Mi sovviene il volto di un amico, lo chiamo, lavora alla Banca d'Alba! E ne è addirittura il direttore generale. "Se ne può parlare, mi dice, dammi 48 ore di tempo". Il mattino dopo è già lui a chiamarmi: "Aristide, vai avanti, qui ti diamo piena fiducia"».

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788849856033

Parte prima

Il calzolaio

Corneliano d’Alba, 1963

«Papà, dove hai imparato a fare il calzolaio?» È un pomeriggio, d’estate. Il padre del bambino che si è rivolto a lui con i suoi occhioni neri, tiene tra le labbra due chiodi ed è impegnato a risuolare una scarpa. L’uomo fa cenno con la testa e socchiude gli occhi, come per dire, «figlio mio, fammi finire questo lavoro che ti rispondo…». È parecchio mal messa quella scarpa… In campagna, del resto, si è avvezzi a camminare più su strade sterrate e nei campi che sul levigato pavimento di asfalto delle vie di città, e le scarpe si logorano più facilmente. Corneliano d’Alba, paese del Roero, a due passi dalle Langhe, votato come è alla coltivazione e vendita delle pesche, non fa eccezione. Prima di comprarne di nuove è meglio far riparare le vecchie care scarpe…
Quel bambino che è abituato da tempo ad aggirarsi tra scarpe nuove o da rimettere a nuovo, attrezzi da lavoro, e qualche macchina, come la fresa con la carta vetrata e la Singer nera per cucire, vuole capire in quale diavolo di scuola è andato suo padre per diventare così bravo da saper fare addirittura anche scarponi nuovi di zecca. Non per nulla, nel negozio di suo papà, adiacente al laboratorio, in via Cavour 41, dietro la piazza principale del paese, vengono a farsi aggiustare le scarpe, e a comprarne di nuove, un po’ da tutti i comuni intorno a Corneliano: da Sommariva, da Baldissero, da Montaldo, dalle frazioni di San Rocco e San Giuseppe….
Tutti cercano Veglio aprendo la porta del negozio che sbatte contro il campanellino messo apposta per avvisarlo quando sta per entrare un cliente; cercano il bravo calzolaio che si è sposato un po’ avanti in età rispetto ai suoi coetanei… Casa-bottega, la sua: al di sopra del negozio e del laboratorio, che danno direttamente sulla strada, c’è la sua abitazione. Al primo piano cucina e tinello, al secondo le camere da letto, sopra ancora, la soffitta. Veglio è un uomo dalla faccia piena, capelli scuri, folti e ondulati, un po’ stempiato.
«Buongiorno Veglio, guardi qua come si è ridotto il tacco di questa scarpa…». Il calzolaio saluta Maria, è una cliente abituale, viene da Sommariva Perno. Esamina attentamente la scarpa da donna e con un abile gesto con il coltello fa saltare la gomma, già in parte staccata e rovinata. «Maria, passa dopodomani, vedrai che bello il tuo tacco». Poco dopo arriva Giacomo; gli scarponi sono tutti e due malandati, sulla tomaia, davanti e dietro, e la suola è messa ancora peggio: «Tranquillo Giacomo, te li faccio tornare come nuovi. Passa tra una settimana».
Il lavoro non manca, dunque, a Veglio, che trova soddisfazione a far contenti i suoi clienti, servendoli in una necessità così semplice e normale: mettere nei piedi delle scarpe utili per il lavoro e magari anche belle per quando si va in paese a passeggio o per comprare qualcosa, o per andare a messa la domenica.
È dieci anni che qui Veglio ha aperto laboratorio e negozio, da quando si è sposato con Caterina. La casa gliel’ha comprata suo padre, subito dopo la guerra, quando aveva 25 anni e in questo luogo aveva cominciato la sua attività come calzolaio. Ora ha 43 anni, sua moglie tre in meno. Una mora, bei capelli ondulati e ricci. Veglio ha acquisito ormai una bella manualità ed esperienza. La fama di abile ciabattino, del resto, si è sparsa rapidamente, di cliente in cliente. Il suo lavoro, infatti, è sempre molto accurato. Occorre sostituire una suola? Lui ha imparato a incollarla in modo da non far vedere di sotto la cucitura che ha dovuto fare per sigillare la tomaia. Una finezza, che non tutti i calzolai sono soliti fare…
Chi è quel bambino, incuriosito, che si ferma davanti al padre, in attesa che risponda alla sua domanda? Lo conosco bene: sono io.

Mestieri e amore

In quel preciso momento, ho appena sette anni e sono un bambino vivace e dalla mente sveglia. Sono piccolo, mingherlino, svelto, ho capelli ricci e scuri. Mi piace da matti passare del tempo a osservare il lavoro di mio padre. Mi piace quasi quanto giocare con i miei amici, quando andiamo nei boschi sulla collina, a rincorrerci o a fare capanne, o, ancora di più, quando riusciamo a entrare dentro l’antica torre decagonale che – non molto distante dalla casa-bottega di papà – domina il paese con i ruderi del castello. Non c’è nulla che ci possa fermare nel nostro arrembaggio alla torre, nemmeno le recinzioni che hanno sistemato per impedire a chiunque di penetrare in quell’area in qualche modo pericolosa. E per mamma Caterina, come per tutte le altre mamme, quelle dei miei compagni di giochi, ogni giorno è un correre a cercarci, con l’ansia addosso di perderci o la paura che ci siamo cacciati in qualche pericolo.
Ma nel laboratorio di papà… È bello vedere i propri genitori nel loro ambiente di lavoro. A tutti i bambini piace… Sono attratto dai suoi gesti, precisi, minuziosi, fatti in silenzio e in totale concentrazione. E poi mi affascinano tanto anche i profumi che respiro in quella stanza, come quando mio padre ritaglia le suole da sostituire, ricavandole da quel grande foglio di cuoio che ha sulle ginocchia.
Quel pomeriggio sono più incuriosito che mai dal lavoro che mio padre sta facendo. Ho scalpitato tutto il tempo del pranzo con mamma e papà nella cucina al piano di sopra, nel tinello arredato dal buffet bianco con vetri decorati, il mobile in legno che contiene la radio e il divano in finta pelle. Ora mi avvicino a lui, seduto sullo sgabello basso da cui spunta un cassetto semiaperto con dentro qualche piccolo strumento per il suo lavoro: chiodi, il filo da scarpe passato nella pece…. Davanti ha la “tabbia”, un tavolo basso con i bordi dove ha sistemato tante scatolette con chiodi delle diverse misure. Ora, finalmente, ha finito di inchiodare. Potrà soddisfare la mia curiosità…
«Papà…». «Sì, Aristide, adesso ti racconto…». Fa cadere a terra gli attrezzi che fino a quel momento ha tenuto in mano e mi attira a sé. «Vieni qua». Poi mi fa sedere sulle sue ginocchia, sopra il grembiulone che gli vedo sempre addosso quando è al lavoro. E comincia a parlare. «Io, bimbo mio, prima di fare questo mestiere, ho lavorato tanto in campagna. Con tuo nonno Aristide e la nonna Rosa. Abitavo dove abitano ancora adesso i nonni, nella cascina agli Scaparoni». La frazione Scaparoni o Scaparone, che dir si voglia, è già nel territorio del comune di Alba.
«Che profumo di pulito ha sempre il nonno», dico io, sentendo pronunciare il suo nome. Per andare agli Scaparoni, viaggiamo sulla Lambretta, modello C, di papà: io seduto in mezzo, tra lui, alla guida, e mamma, che sta dietro. C’è spazio a sufficienza per me, sto giusto sulla punta della sella posteriore.
Quando andiamo a trovare nonno Aristide sto sovente in braccio a lui. C’è come un feeling naturale tra me e lui: sarà che portiamo lo stesso nome, sarà che è un uomo che suscita ammirazione per il suo portamento, per la sua figura… È un uomo distinto, di media statura e con bei baffi sotto il naso. Un contadino nobile, insomma… È appassionato di caccia, ha spesso a che fare con professionisti – notai, avvocati – per i quali è solito organizzare battute nelle campagne. È un uomo che tiene con cura le sue cose nella cascina dove vive con la nonna Rosa. L’aia è perfetta… ordinatissima. Ordinata come la sua mente: se si tratta di tornare in cascina dopo aver fatto fieno nei campi, il carro deve essere sistemato a puntino, senza che un solo filo di erba rimanga penzolante…
«Ma io», aggiunge mio padre, «ero il figlio più giovane di nonno, più piccolo in età dei tuoi zii e della zia, e così, come si era soliti fare a quell’epoca, lui ha voluto che andassi a imparare un mestiere. Avevo una quindicina d’anni quando nonno si è accordato con un calzolaio di Ricca d’Alba, a una decina di chilometri da qui, per farmi fare la pratica, per imparare il mestiere che mi vedi fare adesso. Gratis, naturalmente. Era come se andassi a scuola… Ho abitato per diverso tempo nella casa di questo calzolaio, con la sua famiglia, e stavo da loro tutta la settimana. Solo il sabato pomeriggio rientravo a casa, e la domenica pomeriggio tornavo da loro nella casa-bottega lungo la via principale del paese».
«Come ci andavi a Ricca, papà? In Lambretta?»
«No, Aristide, altro che Lambretta… andavo in bicicletta. Dagli Scaparoni fino ad Alba, passando il ponte sul Tanaro e poi giù, tutto dritto, fino a Ricca. La gente, alla metà degli anni Trenta, si spostava tanto in bicicletta. E per fortuna, non mi è mai successo niente. I nonni si fidavano». «Bene, Aristide», papà mi rimette in piedi, «adesso devo risuolare; è meglio che ti allontani un po’ perché devo usare delle colle speciali che lasciano un odore forte forte forte… È meglio che non ti entri nel nasino!».
Il pomeriggio trascorre rapidamente, e poco prima delle sette di sera, mamma ci chiama di sopra a cenare. Ha acceso la radio. Adriano Celentano sta cantando il suo Tangaccio: La mora sì mi va, la rossa sì mi va, la bionda sì mi vaaaaa, se balla il cha chachaaaaa. Maa mi piace soprattutto, la donna, un po’ focosa, hermosa, e perché no, un po’ formooosa, eh eh
«Si mangia, Veglio. Aristide, è pronta la cena, vai a lavarti le mani».
Anche a cena sono in vena di domande: «Papà, è vero che hai fatto il partigiano?»
«Sì, Aristide, ma non mi piace tanto raccontare questa storia. È vero, dopo la caduta di Mussolini…».
«Chi era Mussolini, papà?»
«Governava l’Italia, era il capo del fascismo, e ci ha portati alla guerra, bimbo mio… Le sue squadracce, che chiamavano repubblichini, sono venuti a cercarmi e mi hanno trovato quando ero di passaggio agli Scaparoni e mi hanno portato a Torino alla caserma dei carabinieri in via Cernaia».
«Ti hanno fatto del male, papà?».
«No, fortunatamente. C’era grande confusione in quei giorni, non si capiva chi stava con chi, anche lì in caserma. Nonno, che conosceva un militare importante, è riuscito a farmi mandare via da Torino. Da lì sono andato in una caserma di Crissolo e indovina che cosa mi hanno fatto fare?».
«Gli scarponi!»
«…ai militari! Mi è andata bene, sai… tanti giovani come me in quel periodo sono stati mandati a fare la guerra in Russia, moltissimi non sono più tornati, tanti altri sono rimasti uccisi. Altri ancora sono tornati messi così male da dover essere mutilati, ai piedi, ad esempio. Ce n’è qualcuno qui, al quale devo fare delle scarpe un po’ particolari…».
«Mamma, e tu? Mi dici come eri da bambina?».
Mamma si alza di continuo dal tavolo per servirci la cena, ma, alla fine, anche lei è costretta a soddisfare le mie curiosità di bambino.
«Siamo stati poveri, sai… anche noi contadini, come la famiglia di papà. Sono nata al Bricco Ferreri, dove ti abbiamo portato qualche volta, uno dei colli vicino a Canale. È un posto meraviglioso, terre coltivate e boschi. Ce la siamo sempre cavata, con qualche difficoltà, essendo una famiglia numerosa. C’era la mucca, avevamo l’orto, la campagna da lavorare, c’era la vigna e c’erano anche gli alberi da frutta. Per andare a scuola dovevo fare almeno venti minuti a piedi dal Bricco, per raggiungere Sant’Anna dove c’erano le scuole elementari più vicine a noi. Ma io, Aristide, sono andata a scuola che già sapevo leggere e scrivere, perché in casa avevo la mia nonna materna – la tua bisnonna Francesca – che era maestra e quindi era come se la scuola l’avessimo a casa nostra!».
«Poi sei diventata grande, mamma…»
«E certo: ho dovuto darmi presto da fare. Quando sono diventata una ragazza fatta sono andata a servizio a Torino, in una famiglia benestante. Come già aveva fatto la zia Giulia. Che paura, figlio mio, in tempo di guerra! Quando suonavano le sirene fuggivamo tutti in cantina per timore dei bombardamenti. Ce n’è stato uno terribile a Torino, ma noi l’abbiamo scampata…».
«E quando hai conosciuto papà?».
«Ah, questo», sorride con un po’ di imbarazzo, «fattelo raccontare da lui…»
«Beh, a dire il vero, c’è voluto un cugino di mamma, Michelino, che avevo conosciuto grazie al mio lavoro da calzolaio, a farci incontrare la prima volta. Un giorno, parlando con lui, viene a scoprire che non ho nessuna fidanzata, anche se, ovviamente, mi sarebbe piaciuto averne una per fare famiglia. In effetti, era proprio ora… Mi dice: guarda, io ti farei conoscere una mia cugina, è una bella e brava ragazza…»
“Smettila Veglio…», si schernisce la mamma, mentre comincia a riordinare la cucina.
«…mi dice che ha più o meno la mia età... Alla sua proposta di incontrarla dico di sì e organizziamo. È la primavera del 1952 e sai dove ci incontriamo?»
«Qui?»
«Nooo, Aristide, non potevamo darci appuntamento nelle nostre case… Così Michelino ci fa incontrare alle porte di Canale, al fondo della strada che porta in centro paese. Mamma, dal Bricco Ferreri, è molto più vicina, solo tre chilometri circa: arriva all’appuntamento a piedi, una mezz’oretta di cammino. Io, invece, da Corneliano, devo fare una decina di chilometri. In bicicletta arrivo lì in una ventina di minuti, ma pedalando sodo. Con tanta curiosità…».
Papà ride a quel pensiero e io di conseguenza. «Ci siamo piaciuti subito, io e la mamma, e da quel momento in poi abbiamo cominciato a vederci».
Mio cuoore, tu stai soffrendoo, canta Rita Pavone dal mobile-radio, guarda caso…
coosaa posso fare per tee…,
Intanto la chitarra basso imita il battito di un cuore.
Mi soono innamorataa, peer tee pace, no no non c’èè
La mamma arrossisce e si volta verso il lavandino per cominciare a lavare i piatti…
Di lì a poco, questo mondo scomparirà dai miei occhi.

La fabbrica

Corneliano d’Alba, 1965

Sembrava potesse durare a lungo quella vita – l’esistenza dei miei genitori – con i suoi ritmi, sempre uguali, puntuali, precisi, proprio come il lavoro di mio padre ad aggiustare e fare scarpe, e con la mamma impegnata ad accudire la famiglia e alle faccende di casa. All’improvviso capisco che sta cambiando tutto. Lo intendo dai loro discorsi…
«Caterina, il negozio ci costa troppo. Pago più tasse di quello che guadagno. Senti, avrei pensato questo: e se chiudessimo negozio e laboratorio e andassi a lavorare in qualche fabbrica? Lavoro ce n’è, mi dicono, forse è la volta che porto a casa uno stipendio migliore. Potremmo stare meglio, c’è Aristide da far crescere e da far studiare…».
«Per me si può fare. E dove pensi di andare?»
«Ascolta, ho preso un appuntamento alla cartiera, ad Alba. È vicino. Chissà che possano avere bisogno di me».
Faccio la terza elementare quando, un giorno, sento papà alzarsi la mattina presto. Invece di scendere ...

Indice dei contenuti

  1. L’artigiano della natura
  2. Colophon
  3. Prologo
  4. Parte prima
  5. Parte seconda
  6. Conclusione
  7. Indice