Senza Paura
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Per non perdere il bello di un mondo migliore

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Per non perdere il bello di un mondo migliore

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Siamo più ricchi, ma con la paura d'impoverirci. Viviamo in un mondo più aperto e libero, ma con la paura d'essere invasi. Ci siamo lasciati alle spalle la carneficina dei nazionalismi, ma timorosi di smarrire la sovranità. Dalla famiglia alla sessualità, dalle informazioni che ci arrivano all'ambientalismo, sembra che non sia consentita altra lettura che quella negativa e catastrofica. Penitenziale e colpevolista. La fine dei tempi paurosi ha fatto sorgere la paura del tempo che ci attende. Il tramonto delle ideologie ha fatto sorgere il vuoto delle idee. Eppure basta mettere il naso fuori dai luoghi comuni, dai buonismi privi di senso e dai cattivismi senza senno, per accorgersi che viviamo in un mondo migliore, con più opportunità. Basta guardare i numeri reali della nostra economia, per accorgersi che il declinismo è una superstizione. Basta considerare i fondamentalismi per accorgersi della superiorità della nostra civiltà. Le paure possono trasformarsi in rancori, desideri di rivalsa, voglia di vendette sociali. Sprofondandoci. A dissolverle non servono ottimismi di maniera, ma documentati e razionali elementi della realtà.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788849843026
Categoria
Sociology

Invasi e sgomenti

STAI ZITTO E DORMI, altrimenti arriva l’uomo nero. Non erano poche le mamme che ricorrevano a questo turpe trucco, così conquistando l’insonnia, ma silente, dei loro pargoli. Ma quell’uomo lì era solo il sostituto, o il degno compare del lupo, più adatto a far paura in una cultura agropastorale, meno efficace per le vie delle città. L’uomo nero appartiene al mondo in cui si riteneva opportuno far paura ai bambini, che ancora non si traumatizzavano a vita, ma se la facevano sotto per qualche ora (o se ne fregavano da subito). Quell’uomo non era, o, almeno, non necessariamente era un negro. Accidenti, che ho scritto? Ho scritto «negro»?
Ma guarda un po’ gli scherzi della lingua. Quando ero ragazzino si cantava, con Fausto Leali, la preghiera al pittore, rivolta da «un povero negro»: «ti prego, fammi un angelo negro» perché «tutti i bimbi vanno in cielo». Era una bella canzone e suonava contro il razzismo. Poco prima, del resto, era uscito quel capolavoro intitolato Indovina chi viene a cena, film che raccontava il dramma e la rivelazione di un padre liberal e di gran successo, incarnazione delle idee progressiste (Spencer Tracy), che si ritrova con la figlia che porta a casa il suo futuro sposo, negro (e bello assai: Sidney Poitier). Fra i contrari al matrimonio il padre del futuro sposo, ovviamente negro, che gli chiede se, per caso, non fosse diventato pazzo. Nel bel mezzo del duplice dramma familiare, nel mentre il prete amico di famiglia dispensa banalità, la cuoca-cameriera si lamenta vivacemente, sia perché il numero dei commensali è instabile sia perché «questa casa è piena di negri». Lei, naturalmente (e sottolineo il «naturalmente», perché a casa degli illuminati la servitù è di colore), era negra. Insomma: «negro» non aveva alcuna valenza negativa.
Io stesso, del resto, sarei un «bianco», ma bianco non sono per nulla. E quando, per la prima volta negli Stati Uniti, dovetti compilare un modulo nel quale indicavo anche la mia appartenenza etnica non riuscivo a trovare quella su cui mettere la crocetta. Chiesi lumi e mi fu risposto «caucasico». Noi saremmo caucasici. Al ritorno ho cercato sul vocabolario: che ha origine nel Caucaso. A dimostrazione che il politicamente corretto necessita di un apposito dizionario, non coincidente con quelli dell’era precedente all’avvento delle ipocrisie linguistiche.
Fine della divagazione sui negri, veniamo ai neri. Anzi, no, non a loro. La paura con la quale dobbiamo fare i conti non ha a che vedere con il colore della pelle, ma con la provenienza da lontano, con gli esseri diversi. Per lungo tempo li si è accomunati nella definizione «extra-comunitari», ma oggi non funziona più, perché si parla di paura, d’essere invasi o sopraffatti, da persone che vengono da altre parti dell’Unione europea (la Comunità non esiste più), come i rumeni o i polacchi. E non è certo una paura solo italiana. In Francia ci fecero un’intera campagna elettorale, agitando lo spettro dell’«idraulico polacco», che avrebbe spodestato gli stagnini gallici. Ed è una paura assolutamente non priva di fondamento, perché, come vedremo, alcuni ingressi mettono a durissima prova la tenuta di principi, leggi e costumi. Solo che la paura cresce con la confusione, ovvero con l’incapacità di distinguere un problema dall’altro.
Ne ho già fatto le spese, perché parlandone alla radio, con la necessaria sintesi che quel mezzo comporta (ma non me ne lamento, perché se hai le idee chiare puoi ben esporle in breve), ho già assaggiato la reazione di una parte del pubblico. Solo che, a seconda dei casi, mi son beccato l’accusa d’essere un razzista xenofobo o quella d’essere un debosciato che vuol lasciare il proprio Paese in preda alle orde barbariche. Rispetto queste reazioni perché, pur al netto di qualche disturbo nervoso, rappresentano sensibilità esistenti. Magari estreme, ma pur sempre esistenti. Quindi affrontiamola, questa scomoda paura.

Il singolo e la sua cucina

La prima distinzione che farei è fra sentimenti collettivi e sentimenti personali. Differenza che esiste ovunque, ma in Italia è particolarmente spiccata. Perché gli italiani sono veramente brava gente.
Una cosa sono i sentimenti, e le paure, nei confronti dell’immigrazione, altra i rapporti di ciascuno con degli immigrati. Mentre sui primi si agitano timori e fastidi collettivi, nei secondi spesso prevale la solidarietà personale. Naturalmente ci sono italiani incivili e immigrati delinquenti (ci arriviamo), ma fuori da questi casi la normale diffidenza verso l’estraneo, la normale, e sottolineo «normale», ritrosia verso chi ha lingua, costumi e cucine diverse, è spesso superata dalla vita in comune e dal soccorso nei piccoli bisogni.
Ho citato la cucina, non a caso: quando si vive nei quartieri della convivenza, che non sono i più ricchi, quando si ha casa nei condomini e non nelle ville o nelle palazzine, l’arrivo di un inquilino che pratica una cucina assai speziata segna una rottura dell’equilibrio olfattivo. Nella casa dei miei genitori, a Palermo, salendo le scale potevi immaginare che la signora del secondo piano stesse preparando le lasagne al ragù, mentre le cucine vegetariane e con portate di broccoli avevano un impronta inconfondibile. Non sempre quegli aromi erano motivo di proustiano rimembrare. Talora potevano risultare invasivi. Ma erano pur sempre parte del medesimo ecosistema culinario nel quale vivevamo tutti. In uno degli alloggi che ho frequentato a Roma, nel normale pellegrinare di giovane senza famiglia, il dirimpettaio indiano, dotato di numerosa famigliola, praticava una cucina al mio naso monolfattiva, che avrà pure avuto il fascino d’oriente, ma che mi entrava in casa incurante della porta. Non mi sarei mai sognato di protestare, perché cucinare era un suo diritto, ci mancherebbe altro. Un giorno suonò alla porta e mi consegnò un pacco che aveva portato il postino, quando ero fuori (praticamente sempre), con l’occasione mi disse: scusi, se qualche volta la mia cucina invade di odori le scale. Segno che qualcuno doveva essersi lamentato, suppongo. Bhe, ne nacque una cena in comune e una cordialità che mi dispiacque perdere, quando se ne andarono. (Ci ripensai quando cambiai casa, conquistando un ultimo piano, non un attico, senza ascensore, dove ancora ho l’ufficio, e provenivano odori assai intensi dal ristorante sardo, che si trovava sotto. Un giorno ci trovammo circondati dalla polizia, li arrestarono tutti e lessi sui giornali che nella cappa della cucina avevano nascosto le armi, otturandola, che poi era il motivo per cui gli odori si spandevano dalla finestra. Meglio il vicino indiano, non c’è dubbio. Benché fossero cordiali, con chi non dovevano rapire).
Quella degli odori non è una divagazione. Perché il problema della convivenza si scarica sui meno agiati e protetti. Ma è proprio lì che la solidarietà scatta più lesta, dove il rapporto non è funzionale (padrone di casa – persone di servizio; datore di lavoro – lavoratore), ma umano e personale. È lì che Abdul e Karina sono prima di tutto degli umani, come Amedeo e Giulia, pur restando immigrati e, quindi, diversi dal contesto che li accoglie. È sciocco negare tale differenza, perché si svaluta il valore dell’accoglienza e dell’integrazione. Ma è anche sciocco pensare che la musica generata possa essere suonata con il solo violino, in una immaginaria serenata dell’uguaglianza. No, perché nel rapporto personale gli italiani, e gli italiani più esposti al disagio, si dimostrano, quotidianamente, migliori di altri, ma questo non può nascondere o far sparire i problemi. Perché il fenomeno dell’immigrazione non è il sommarsi di tanti Abdul e Karina, divenuti vicini di casa di Amedeo e Giulia, ma la trasformazione di un tessuto sociale che subisce la tensione, scatenando anche la paura e la reazione. Non serve a nulla condannare senza farci i conti, perché, all’opposto, il dovere di ciascuno è di fare quel che può per evitare che quel tessuto si laceri, meglio se divenendo più solido ed elastico.
Per dirne una, ma di grande importanza: se in una classe di alunni italiani prende posto un bimbo immigrato questo sarà un vantaggio per quel bimbo venuto da lontano, ma anche per i suoi compagni nati a poca distanza dai banchi; se, però, come capita in certe zone, sono gli alunni italiani a finire in minoranza rispetto alla popolazione di immigrati, questo rischia di essere un danno per entrambe i gruppi, perché chi viene da fuori avrà meno possibilità di integrarsi con una realtà pienamente italiana e chi è nel proprio Paese avrà meno possibilità di studiare regolarmente, visto che i propri compagni devono prima superare una barriera linguistica. È folle far finta di non saperlo ed è ipocrita negarlo.
Infine, prima di entrare nel merito di queste paure, non regge il paragone storico con il passato italiano, quando in molte città industriali del nord gli immigrati erano prima gli uomini, poi le famiglie del sud. Anche in quel caso le cucine ebbero un peso (ricordate la storia dei meridionali che nel bidet coltivavano il basilico? come se quelle foglie possano odorare e sapere di qualche cosa, senza sole e senza luce), anche in quel caso ci furono rigetti, anche in quel caso cartelli incresciosi («non si affittano camere a meridionali»). Ma il «conflitto» culturale era solo epidermico, tanto che quelle città sono, oggi, fra le più meridionali d’Italia. Con più ricchezza e con tante nuove famiglie. E senza clandestini. Quindi no, direi che il parallelo funziona solo se usato superficialmente. Semmai funziona quello con la nostra emigrazione, quando fummo noi a cercare altrove pane e fortuna (molti di noi continuano a cercare e lavorare altrove, ma in un mondo e in un modo totalmente diversi). E, per quel che funziona, dimostra che ovunque noi si sia andati abbiamo creato ricchezza. Con sudore, ma l’abbiamo creata. Abbiamo esportato anche delinquenza, irragionevolmente più nota del tanto lavoro buono fatto. Per quella non c’è che da essere grati alle autorità dei Paesi che l’hanno combattuta e repressa.

Prendere le misure

Per capire un fenomeno, per indagare le paure che genera, occorre quantificarlo. Descriverne i contorni. I numeri possono sembrare arroganti, quando pretendono di spiegare tutto. Si dice: il prodotto interno non misura la felicità, quel numero non può essere associato a uno stato d’animo. Può darsi, ma mica ne sono molto convinto. È come dire che i soldi non fanno la felicità. Di sicuro non la fa la miseria. La ricchezza aiuta, mettiamola così. Il ripudio dei numeri passa anche per le previsioni del tempo, introducendo il concetto di «temperatura percepita», che non è quella misurata, ma quella che nasce dall’interagire con l’umidità e la pressione. Ma come la mettiamo con i freddolosi e i calorosi? Anche loro percepiscono, ma in modo diverso dagli altri. Forse il numero, la temperatura misurata, continua ad avere maggiore significato della percepita. È vero che puoi stare male anche senza avere la febbre, ma è escluso che possa dirti febbricitante se il termometro s’inchioda a 36°. Insomma: misurare è importante. Se non altro aiuta a capire perché non basta.
Nel caso dell’immigrazione la cosa si presenta più difficile di quel che si crede, perché anche misurando non si riesce a cogliere un dato oggettivo. Perché l’universo di riferimento è in movimento. Perché le definizioni mescolano pere con mele. Perché ci sono i clandestini. Insomma, sui numeri si pattina un po’. Prendiamo i dati dell’Istat, nei quali già si trova un piccolo mistero.
Gli immigrati erano all’incirca 150.000 negli anni Settanta, 300.000 negli Ottanta e più di 700.000 nei Novanta. Nel 2000 se ne contano 1.400.000. All’inizio della seconda metà di quel primo decennio, nel 2006, dovrebbero essere circa 2.800.000 e nel 2011 la Caritas ne conta 5.011.000. Vuol dire che prima raddoppiavano ogni dieci anni, poi ogni cinque. Il primo gennaio del 2011 l’Istat conta 4.570.317 stranieri presenti in Italia. Dieci mesi dopo ne censisce 4.029.000. Dov’è finito il mezzo milione mancante? Mistero*.
Più facile contare gli sbarchi, quella particolare forma di immigrazione irregolare che porta masse di persone a imbarcarsi e attraversare un lungo tratto di mare. Difficile che arrivino senza essere visti. Questi numeri, come si vede qui sotto, cambiano molto negli anni. Qualche volta è per merito di politiche governative, specie quando si contraggono e fanno rispettare accordi con i Paesi rivierarschi. Il più delle volte la variabilità dipende da condizioni locali nei Paesi di provenienza, guerre, nonché attività di organizzazioni criminali, che abbondantemente lucrano su questo traffico.
A destra l’anno di riferimento, a sinistra il numero degli sbarcati:
1998 38.224
1999 49.999
2000 26.817
2001 20.143
2002 23.719
2003 14.331
2004 13.653
2005 22.939
2006 22.016
2007 20.455
2008 36.951
2009 9.573
2010 4.406
2011 62.962
2012 13.267
2013 42.925
2014 (fino a giugno) 61.500
Particolarmente significativo il salto dal 2009 (anno del «pacchetto sicurezza») al 2011 (anno in cui si sommano le rivolte in Tunisia con la guerra civile in Siria). L’estate 2014 ha portato una portentosa crescita, lasciando supporre che supereremo i 100 mila sbarchi entro l’anno.
I dati Eurostat (che sarebbe l’Istat europeo, l’istituto di statistica dell’Ue) che servono al nostro ragionamento sono riassunti in una tabella e un grafico.
La tabella, che si riferisce al 2011, riassume, per ciascun Paese, il totale della popolazione e quello degli stranieri residenti per gruppo di cittadinanza:
Source: Eurostat (online data code: migr_pop1ctz)
Source: Eurostat (online data code: migr_pop1ctz)
Source: Eurostat (online data code: migr_pop1ctz)
Questo grafico mostra la percentuale di immigrati ogni mille abitanti (relativa al 2010):
Illustration
Che noi si sia la più esposta frontiera costiera d’Europa è sicuro, ma, come questi dati mostrano, il fatto che l’immigrazione che desta più scalpore sia quella che arriva con i barconi induce a un fraintendimento circa le dimensioni complessive del fenomeno e alla permeabilità di ciascun Paese. Da cui deriva, poi, la percentuale di stranieri che si trova a casa di ciascuno.
A conferma di ciò osserviamo che quando giornali e televisioni si occupano d’immigrazioni usano costantemente immagini relative a determinati gruppi etnici, che son quelli capaci di destare maggiore reazione emotiva (lasciamo perdere, per ora, se positiva o negativa). I dati Istat indicano la seguente distribuzione per Paese di provenienza. Li riporto testualmente, quindi con specificazione unitaria, ma preferisco prenderli come indicativi:
Romania 968.576
Albania 482.627
Marocco 452.424
Cina 209.934
Ucraina 200.730
Filippine 134.154
Moldova 130.948
India 121.036
Polonia 109.018
Tunisia 106.291
Perù 98.603
Ecuador 91.625
Egitto 90.365
Macedonia 89.900
Bangladesh 82.451
Sri Lanka 81.094
Ciascuno provi a confrontare questa lista con quella che, nel proprio immaginario, è la lista delle emergenze e dei problemi, sempre legata ai Paesi di provenienza. Ho l’impressione che le due liste non coincidono. Il che già fornisce due indizi: il primo è che la raffigurazione potrebbe essere diversa dalla realtà, il secondo che il non misurato, ovvero la clandestinità, assume un peso considerevolmente maggiore, nel generare paura. Ed è ragionevole che sia così.

Lavoro e rimesse

Mentre il numero degli stranieri è non solo in costante aumento, ma cresce, fin qui, a ritmo sempre più veloce, c’è un dato che dovrebbe far invertire la tendenza, ed è relativo alla disoccupazione: dal 2011 al 2012 (uso il lasso temporale che rende disponibile il raffronto) la disoccupazione è cresciuta, in Italia, dal 9,7 al 10,6% (purtroppo sappiamo che è cresciuta anche successivamente); nel 2012 la disoccupazione presso gli immigrati, e in particolare fra quelli provenienti da fuori l’Unione europea (gli extracomunitari propriamente detti), ha raggiunto il 21,3%. Più del doppio, quindi. Ma se gli arrivi sono dovuti alla speranza di trovare, in Italia, lavoro e ricchezza, questo dato dovrebbe provocare una flessione, visto che la prospettiva della disoccupazione lambisce più di un quinto degli immigrati. Di questo, però, non c’è contezza. Non sembra essere successo. Sempre avvertendo che sono dati sui quali si pattina, correndo il rischio di scivolare, no, non sembra che la prospettiva della disoccupazione abbia scoraggiato i migranti. Tutti in fuga dalla guerra? No, perché l’elenco sopra riportato non ci dice affatto questo. E no, perché quelli in fuga dalla guerra non si chiamano migranti, ma fuggitivi in cerca di salvezza, profughi e rifugiati.
Anc...

Indice dei contenuti

  1. Senza Paura
  2. Colophon
  3. Dai tempi paurosi a quelli impauriti
  4. Poveri da paura
  5. Tassati e sbigottiti
  6. Invasi e sgomenti
  7. Violenza terrificante
  8. Panico da sesso
  9. La spaventosa famiglia
  10. Tremulo smarrimento
  11. Paura della Paura
  12. Concludendo, ma iniziando a non temere
  13. Indice