C'era una volta il '68
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C'era una volta il '68

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C'era una volta il '68

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Informazioni sul libro

Il '68 ha rivoluzionato la vita quotidiana: dopo nulla è stato più come prima. Quali fatti sono stati alla base dell'esplosione del '68 e in che misura quella cultura influenza il nostro presente? Ciò che resta va ben oltre le dimensioni politiche dei movimenti studenteschi e lascia tracce nel costume, nelle visioni della società, nei diritti. Allarga la democrazia e nel contempo contribuisce a metterne in luce i limiti e le promesse irrealizzabili. Il libro è una sorta di autobiografia intellettuale di una generazione. Si rivolge a coloro che il '68 lo hanno vissuto, come protagonisti o come spettatori e si rivolge ai giovani, che il '68 non lo conoscono, ma vogliono scoprire il fascino di quegli anni.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788849857283
Argomento
Storia

Parte seconda
L’eredità del ’68

“Noi del ‘68 abbiamo perso, per fortuna”
(Mauro Rostagno)

4.

La grande delusione

1. L’esplosione del sé

Il ’68 può essere considerato la prima espressione di una società globale. Le condizioni create dalla fine della Seconda guerra mondiale (boom demografico, crescita economica e dei consumi, investimento in istruzione) e l’emergere di nuovi mezzi di comunicazione di massa, hanno diffuso tra le giovani generazioni sensibilità, umori e passioni simili. A prescindere dal giudizio politico che possiamo esprimere su quegli anni, nessuna generazione come quella del ’68 ha avuto un’identità così forte e distintiva. I legami amicali diventano più importanti di quelli parentali. I sentimenti, i vissuti personali e i punti di vista alimentano la nuova centralità della dimensione soggettiva e nel contempo la percezione di essere cittadini del mondo.
Il contagio emotivo della società di massa contribuisce a diffondere i desideri di ognuno moltiplicandoli. Come scriveva già Tocqueville, nella prima metà dell’Ottocento, «L’eguaglianza rende gli uomini indipendenti gli uni dagli altri, fa sì che essi […] sentano la voglia di non seguire, nelle loro azioni personali, altro che la loro volontà. Questa indipendenza assoluta […] li induce a guardare con scontentezza ogni autorità e suggerisce loro l’idea e l’amore della libertà politica». Alla base – è ancora Tocqueville che scrive con una sorprendente intuizione – vi è l’assetto sociale democratico che «crea opinioni, fa sorgere sentimenti, suggerisce usanze e modifica tutto ciò che non crea direttamente»1.
Alla fine degli anni Cinquanta il sociologo americano Philip Rieff descrive i tratti fondanti del nuovo profilo di individuo: “l’uomo psicologico”, come tipo morale dominante dell’epoca contemporanea. Un individuo che «non si fa illusioni su se stesso né sul mondo, non ha certezze d’ordine metafisico, ma è alla ricerca di un equilibrio attraverso una prudente amministrazione delle proprie risorse emotive e intellettuali. Proprio questo fa sì che la psicoanalisi sia il movimento intellettuale più consono alla cultura del nostro tempo, quello che maggiormente ne esprime le preoccupazioni, le contraddizioni, le aspirazioni»2.
L’esplosione delle soggettività nel ’68 esprime la nuova attenzione all’introspezione che Rieff aveva messo acutamente in luce come nuovo tratto del tempo e ne fa un tema generazionale. Abbiamo già discusso in precedenza come il cinema, in particolare, interpreti a livello di massa la diffusa tendenza all’introspezione. Dagli anni Duemila, questa tendenza assumerà i caratteri di un’esasperata cura del sé. Si può dire, per restare al periodo che abbiamo cercato di mettere a fuoco, che l’ultimo movimento collettivo della storia del Novecento ha aperto la strada a un’esplosione delle soggettività. La promessa di autodeterminazione dà avvio a un processo incontrollabile di domande soggettive in cui i desideri immediati hanno la meglio sui progetti di lungo periodo. Sono lì, almeno in parte, le origini della crisi della democrazia rappresentativa esplosa in tutta la sua drammatica salienza negli anni recenti.
Non tutto è stato causato dal ’68, ma certo quel periodo ha visto una sorta di accelerazione della storia.
Dopo aver sintetizzato, nella parte precedente, le premesse che hanno portato pressoché in tutti i paesi del mondo ai movimenti giovanili, in questa parte raccontiamo le tracce lasciate dal ’68. La rivoluzione femminile e la democratizzazione della famiglia, l’emergere della soggettività e la crisi correlata dei modelli di autorità, un orientamento alla partecipazione, la ricerca di legami fondati sull’orizzontalità e non sui vincoli della tradizione. Un insieme di visioni del mondo e di percezioni di sé che si sono poi trasferiti e mescolati con un contesto che, peraltro, è cambiato profondamente.
Le stesse tecnologie digitali hanno avuto origine dallo spirito di innovazione che pervade gli anni Sessanta. Internet dà forma all’idea che la connessione e l’accesso universale alle informazioni cambieranno il mondo. Una domanda che è nell’aria e che viene realizzata grazie alla follia inventiva di alcuni giovani visionari che gettano i primi semi delle tecnologie della comunicazione.
La dirompente soggettività del ’68 alimenta il tempo del narcisismo, con conseguenze radicali sulla scena pubblica. Dall’esplosione della soggettività alla crisi della democrazia rappresentativa esiste ben più di un nesso. L’affermazione di sé si sposta dal piano collettivo al piano individuale; la domanda di partecipazione lascia il campo alla domanda di disintermediazione. L’elemento in comune tra il ’68 e il nostro tempo è il mito della democrazia diretta. Certo non intendiamo attribuire il trionfo odierno del populismo al ’68, ma intendiamo cercare radici più lontane da quelle che la discussione politica sembra proporre oggi.
Il dilagare della soggettività trasforma nel profondo la società, mettendo in moto processi di differenziazione e di scomposizione, fino a erodere nel profondo i sistemi di rappresentanza e la politica.
Ciò che resta va ben oltre le dimensioni politiche dei movimenti studenteschi e lascia un insieme di tracce: nel costume, nelle visioni della società, nei diritti. Allarga la democrazia e nel contempo contribuisce a farne emergere i suoi limiti costitutivi.
Da un lato si è trattato di una distruzione creativa che ha liberato energie, definitivamente sconfitto una cultura autoritaria nella scuola, smantellato istituzioni totali, consentito agli individui scelte finalmente autodeterminate. Dall’altro, si è trattato dell’inizio di quel processo di disgregazione della rappresentanza che oggi si traduce nell’estrema pluralità dei punti di vista, nella diluizione di ogni discorso pubblico in un esasperato protagonismo.
L’esplosione della soggettività ha dato vita alla lunga stagione dei diritti e a una pluralità estrema di orientamenti e di scelte di vita. Le forti spinte verso l’emancipazione individuale hanno sancito, insieme alla fine delle appartenenze forti, il declino di un’antropologia radicata in una dimensione collettiva. Sul piano della rappresentanza, dalla democrazia diretta rivendicata negli anni Sessanta alle derive del populismo di oggi il passo è breve.

2. Dal linguaggio dell’utopia ai sogni infranti

“Ce n’est qu’un début, continuons le combat!” gridavano i cortei studenteschi francesi nel ’68. Si è trattato di un inizio o piuttosto di una clamorosa illusione che ha coinvolto una generazione in tutto il mondo? Mezzo secolo dopo le interpretazioni continuano a divergere. Le questioni proposte dall’inquietudine dei movimenti del ’68 sono ancora sul tappeto3.
Il ’68 ha rivoluzionato in modo permanente la vita quotidiana e dopo nulla è stato più come prima. Da lì vengono la rivoluzione sessuale e il cambiamento dei sistemi educativi. È la tesi di Ágnes Heller che sottolinea soprattutto la grande domanda di secolarizzazione e di libertà individuale, una libertà diventata modo di vivere quotidiano. L’utopia che animava la ribellione dei giovani era la fede in una palingenesi planetaria che pretendeva di travolgere il “vecchio” e di modificare radicalmente i rapporti sociali e la mentalità collettiva.
Su un altro versante si colloca il commento di Norberto Bobbio che ha definito il ’68 una «esaltazione collettiva», una specie di raptus che ha colpito migliaia di giovani manovrati da leader improvvisati4. Un fiume in piena che ha lasciato sul campo vittime, speranze fallite, sogni infranti, macerie, università trasformate in campi di battaglia, che ospitavano insieme a lezioni autogestite, interminabili assemblee, domande di un egualitarismo spinto all’eccesso che si concretizzava con il diritto al diciotto politico per tutti.
Il discorso su quel periodo è spesso distorto da visioni di parte, apologetiche o denigratorie che siano. Vi è chi sottolinea la grande transizione di libertà sul piano del costume, la diffusione di comportamenti laici contro una morale sessuofobica e una famiglia autoritaria. Chi, al contrario, sottolinea che l’equiparazione dell’autorità all’autoritarismo ha finito per negare la necessità di una gerarchia nell’organizzazione e per minare ogni approccio razionale e scientifico. Opinioni diverse riflettono non solo interpretazioni contrastanti, ma il fatto che il ’68 contiene in sé diverse anime.
Il ’68 ha intercettato un forte desiderio di azione collettiva, paradossalmente in un momento in cui le grandi ideologie avevano già mostrato irreparabili segnali di crisi. Così era per i partiti comunisti, per effetto delle degenerazioni del socialismo reale e anche per l’intensa fase di crescita delle economie occidentali dopo la Seconda guerra mondiale.
Ai grandi progetti di emancipazione collettiva si erano sostituiti i progetti di emancipazione individuale centrati sulla liberazione dei desideri. Il ’68 ha tentato di fare dell’onda della soggettività una proposta politica: il desiderio individuale sembrava coincidere perfettamente con un desiderio collettivo.
Quando finisce la spinta innovativa del ’68? Quando inizia l’ombra inquietante della violenza che segnerà poi la drammatica fase degli anni Settanta? Si può sostenere che il ’68 – nella sua fase liberatoria – finisce con i fatti della Bussola in Versilia, a Marina di Pietrasanta, della notte di Capodanno. La festa si trasforma in guerriglia: cariche della polizia, auto rovesciate, barche che diventano barricate. Da una parte si lanciano lacrimogeni, dall’altra si risponde con pietre e bulloni. L’esito è il grave ferimento di uno studente. Il ’68 aveva già perso gran parte della sua leggerezza.
Tuttavia, gli effetti dei movimenti sociali non possono essere misurati nei termini dicotomici – vittoria versus sconfitta o negativo versus positivo – bensì per le modificazioni più profonde nella sfera culturale, soprattutto per i loro effetti sulla vita personale quotidiana. Ovviamente può trattarsi di conseguenze non intenzionali, ma non per questo si tratta di esiti meno importanti. Un esempio significativo è rappresentato dal movimento femminista che, pur non riuscendo a produrre la piena parità tra i sessi, cambia radicalmente il comune sentire di migliaia di donne.
Nel ’68 si verifica una rottura della trasmissione di valori su base generazionale. La famiglia perde peso come agenzia educativa. Si legittima il ruolo dei gruppi di pari: la connessione orizzontale tra coetanei dà luogo a nuove forme di socializzazione che esercitano un ruolo decisivo nell’indurre modelli di vita.
Un insieme di fattori contribuiscono a creare un clima nuovo che non può essere ricondotto alla sfera delle ideologie, dei cortei e dell’occupazione delle scuole. La percentuale di coloro che partecipano attivamente alle agitazioni è assolutamente minoritaria, eppure dopo trent’anni quella generazione mostra stili di vita che denotano gli influssi sotterranei di quel particolare momento di rottura.
Anche per chi non vi partecipa personalmente, il ’68 propone modelli di vita che forse non sostituiscono completamente quelli tradizionali, ma li modificano almeno in parte. Nonostante l’impetuosa apparente politicizzazione apparsa nei movimenti, la cultura di quegli anni sfocia nella ricerca di una liberazione personale prima che collettiva.
Intanto, cominciano a manifestarsi le ambiguità intrinseche all’università di massa che, mentre è espressione di aspettative di crescita sociale, nel contempo causa – di fatto – un indebolimento reale di tali possibilità, sia per la qualità dell’istruzione – talvolta fragile – sia per la concorrenza prodotta dal crescente numero di laureati, peraltro con titoli sempre meno spendibili nel mercato del lavoro. Un processo che si approfondisce nel tempo. Una parte dei sentimenti di delusione dei ceti medi negli anni più recenti risiede proprio nella modesta efficacia dei sistemi di istruzione rispetto alla qualità degli esiti professionali.

3. La nuova scena mondiale

Gli anni Sessanta sono ormai lontani. Che il mondo fosse “grande” lo avevano già intuito i giovani che manifestavano ostentando il Libretto rosso di Mao, una anticipazione – certo casuale – del ruolo che poi ha assunto nei tempi recenti la Cina di Deng Xiaoping, che diviene uno dei più importanti protagonisti della globalizzazione.
La scena globale è sempre più articolata, alle grandi potenze che si contendevano nel passato l’egemonia economica e politica se ne sono aggiunte altre. La Cina aspira ad avere una centralità nel panorama mondiale. Ma anche l’India manifesta ambizioni sempre più esplicite di giocare un ruolo nella competizione globale5.
Nel 1977 si tiene il vertice di Rambouillet, che vedeva insieme i paesi più industrializzati, voluto dalla Francia che tenta una funzione di coordinamento di fronte all’emergere della globalizzazione e delle sue complesse conseguenze. Lo scenario era quello della crisi petrolifera, seguita alla guerra del Kippur nell’ottobre 1973, con la quadruplicazione dei prezzi del greggio in tre mesi. L’economia ristagnava o regrediva, mentre l’inflazione era galoppante. Di fronte a questi eventi l’Occidente si trovò impreparato: nell’estate 1975 il presidente francese (liberale) Valéry Giscard d’Estaing propose una riunione dei leade...

Indice dei contenuti

  1. C’era una volta il ’68
  2. Colophon
  3. Introduzione
  4. Parte prima La grande trasformazione
  5. Parte seconda L’eredità del ’68
  6. Conclusioni
  7. Bibliografia
  8. Indice