Una storia di sangue, fango e menzogne
E nessuno ha fatto niente
Da quello che successe allora, stigma scellerato che nessuno volle o seppe cancellare, ha avuto infausto inizio la storia della Repubblica.
Una storia lungo la quale la mafia si è rafforzata nelle regioni d’origine, si è estesa alle altre regioni, è diventata un flagello nazionale, ha fatto tremare lo Stato, vergogna d’Italia!
Il terrorismo è esploso più volte e con tale violenza da non avere riscontro in altre parti del mondo dove esso non sia stato motivato dal fanatismo religioso o razziale o nazionalistico, e il Paese ha avuto paura, vergogna d’Italia!
E la corruzione politica ed economica è ormai divenuta parte essenziale del nostro codice genetico, veleno che sta corrodendo le basi stesse della nostra democrazia e certo le farà crollare se non interverrà un miracolo, perché, mentre sempre di più si riduce il numero degli uomini onesti e cresce la loro solitudine, gli Italiani sono come divorati, resi pazzi dal desiderio irrazionale e senza regole di arraffare, a qualsiasi costo, quanto più denaro e potere, vergogna d’Italia!
Intanto di quello che vorremmo chiamare “Stato” rimane soltanto un’ombra via via più evanescente, perché ognuno grida più forte degli altri: «L’Etat c’est moi!»
Una storia di stragi, mattanze e omicidi di mafia; di stragi e omicidi del terrorismo nero; di “attacchi al cuore dello Stato” e di omicidi del terrorismo rosso; di morti ammazzati o suicidati per ottenere potere denaro impunità; di attentati alla stabilità delle istituzioni e alla democrazia; di oltraggi al prestigio e alla dignità dello Stato, trascinato ad ignobili trattative con la criminalità mafiosa o terroristica; di scandali ed osceni e sempre più frequenti connubi fra corruzione e criminalità.
Una storia che hanno via via scritto, una pagina dopo l’altra, quanti, servendo lo Stato, si sono prostituiti giacendo con i suoi nemici; politici e imprenditori disonesti; finanzieri e banchieri compiacenti; corruttori e corrotti; settori deviati di servizi segreti italiani e stranieri; massonerie coperte; organizzazioni ambigue che sopravvivono solo fino a quando si capisce a cosa sono in realtà destinate; gruppi eversivi d’ogni colore e nazionalità; con intorno la corte dei miracoli dei portaborse, traffichini, maneggioni, tirapiedi, faccendieri, intrallazzatori, peggio di un branco di sciacalli cibati di carne morta.
E però anche una storia di domande senza risposta, misteri irrisolti, segreti sepolti e divorati dai vermi, verità soffocate come neonati nella culla, menzogne che invece invecchiano e più tempo passa più sono solide.
Così, per ognuna di queste tragedie e di queste infamie, che da sette decenni si susseguono una dopo l’altra, con ossessiva regolarità, come i rintocchi funebri d’un funerale, noi abbiamo chiesto guardato letto ascoltato pregato atteso, ma non siamo mai riusciti a sapere che cosa sia realmente accaduto, e perché, e per colpa di chi.
Sapevamo soltanto che qualcuno sapeva, ma sapevamo che era chi aveva voluto quanto era successo. E sapevamo anche che ogni volta la campana suonava per ciascuno di noi.
E, con opposti sentimenti, chi tramando chi tremando chi sperando, abbiamo ogni volta aspettato che la campana a lutto suonasse ancora.
Ma ogni volta ci abbiamo pensato soltanto dopo che aveva suonato e il suono non era svanito e già avevamo finito le lacrime e dimenticato.
Come se nessuno volesse immaginare o ammettere che, prima o dopo, in un posto o in un altro, ci sarebbe stato un altro rintocco. Convinti, nella nostra dolorosa rassegnazione, che l’orologio del tempo si fosse per noi fermato e angosciosamente battesse soltanto un’ora, sempre la stessa: le «terribili cinque della sera».
Così nessuno, prima, ha mai fatto niente.
E neppure dopo ha mai fatto niente.
Molti perché non hanno potuto. Alcuni perché non hanno voluto, chi sa di chi si trattava!
Anello o Noto servizio
Così, nulla è successo, nulla è cambiato dopo Anello o Noto Servizio, fondato nel 1944 dal generale Mario Roatta, ex capo del SISMI, evaso dall’ospedale militare in cui era detenuto, allo scopo di collegare, prevalentemente in funzione anticomunista, i Servizi segreti ufficiali e la società.
La struttura faceva capo ai vertici del SIFAR, disponeva di una base operativa assai ristretta, non più di 164 uomini, ex ufficiali della Repubblica di Salò, uomini dell’industria, della politica, della malavita e della criminalità organizzata.
La storia di questo servizio, è certo, si incrocia con molte delle vicende più oscure della storia italiana, da piazza Fontana alla fuga del colonnello delle SS Herbert Kappler, responsabile dell’eccidio delle Fosse ardeatine, dal “caso Moro” al “caso Cirillo”.
Alcune testimonianze raccolte nel corso dell’inchiesta condotta dalla Procura della Repubblica di Brescia indicherebbero in Giulio Andreotti il principale referente politico dell’Anello.
In una intervista rilasciata a «Oggi» il 15 febbraio 2011, l’ex maestro venerabile della Loggia P2, Licio Gelli, ha dichiarato:
«Io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l’Anello».
Gladio
Nulla è successo, nulla è cambiato dopo l’organizzazione paramilitare clandestina del tipo stay behind, costituita nel 1949 con il nome di “Duca” e poi nel 1956 con il nome di “Gladio” dalla Central intelligence agency statunitense e dai Servizi segreti italiani e posta alle dipendenze dell’Ufficio R del SIFAR, per contrastare, mediante atti di sabotaggio, guerra psicologica e guerriglia dietro le linee nemiche, una eventuale invasione dell’Europa occidentale da parte dell’Unione sovietica e dei Paesi del Patto di Varsavia.
Era una struttura analoga alle Armate segrete che, durante la guerra fredda, erano state formate, con nomi diversi e per fini analoghi, in tutti i Paesi dell’Europa occidentale.
Centro e quartier generale dell’esercito clandestino di Gladio fu la base militare sarda di Capo Marrargiu, al cui esterno appariva il simbolo della spada e il motto «Silendo Libertatem Servo».
E però in Italia la struttura acquisì ben presto una finalità impropria di politica interna, ossia impedire che la sinistra, il PCI e inizialmente anche il PSI, arrivassero al potere.
E vi sono fondati sospetti di un suo coinvolgimento in alcune drammatiche vicende italiane. A partire dalla tragica morte di Enrico Mattei, secondo una ipotesi formulata dai magistrati Benedetto Roberti e Sergio Dini della Procura militare di Padova e Felice Casson della Procura di Venezia, i quali avevano constatato che erano iscritti a Gladio, sia Giulio Paver, una delle guardie del corpo del Presidente dell’ENI, sia Lucio e Camillo Grillo, cognome di un misterioso capitano che ispezionò l’aereo di Mattei prima del decollo da Catania. Si poteva, infatti, ragionevolmente temere che le attività di Mattei avessero creato problemi agli USA e, di conseguenza, qualche gladiatore fosse stato incaricato di risolvere il problema, magari in collaborazione con la mafia.
Appartenevano a Gladio anche Gianni Nardi, estremista di destra, coinvolto nell’omicidio del commissario Calabresi e morto in un incidente stradale a Palma di Maiorca il 10 settembre 1976, e Gianfranco Bertoli, legato al gruppo di estrema destra Pace e Libertà e al SIFAR, autore della strage alla Questura di Milano che il 17 maggio del 1973 provocò la morte di 4 e il ferimento di 52 persone.
Pure nel caso Moro si può immaginare vi sia stato un coinvolgimento di Gladio, e che questo, addirittura da prima, fosse a conoscenza del rapimento. Alcuni proiettili usati dai brigatisti sembrano, infatti, avere le stesse caratteristiche di quelli presenti nei depositi militari dell’organizzazione. E la mattina della strage, magari casualmente, un colonnello del SISMI, istruttore presso la base Gladio di Capo Marrargiu, si trovò a passare da via Fani, proprio al momento in cui Moro stava per essere rapito dai brigatisti. Inoltre la stampante Ab Dick 360 T, usata dalle BR per i loro comunicati, pare provenga dall’Ufficio raggruppamento unità speciali che provvedeva all’addestramento dei gladiatori. Infine, lo stesso Presidente della DC, nel suo processo da parte dei brigatisti, parlò probabilmente di Gladio.
Sembra, poi, che le indagini relative alla morte di Graziella De Palo e di Italo Toni, i due reporter rapiti in Libano nel settembre 1980 e poi uccisi, siano state depistate da parte dei Servizi segreti italiani, e in particolare, dal generale Giuseppe Santovito, direttore del SISMI, e dal colonnello Stefano Giovannone, capocentro dei Servizi a Beirut, che erano entrambi legati a Gladio, oltre che alla P2.
In data 2 agosto 1990 l’allora presidente del Consiglio dei ministri, Giulio Andreotti, ha ammesso, davanti alla Commissione parlamentare stragi, l’esistenza di una struttura paramilitare segreta anti-invasione denominata Gladio, facendone risalire la nascita al 26 novembre 1956.
Sono stati poi conosciuti i nomi di seicentoventidue gladiatori, appartenenti ai livelli più bassi della organizzazione, molti dei quali sicuramente in buona fede, mentre le informazioni più delicate e compromettenti sono state eliminate, come risulta dalla perizia disposta dal Tribunale di Bologna, dove si legge che «si riscontrano una abnorme mole di documenti distrutti col fuoco nei giorni intercorrenti tra il 29 luglio e l’8 agosto 1990, e cioè in concomitanza con l’accesso del giudice Casson al Servizio per la consultazione dei documenti e con le dichiarazioni del presidente del Consiglio Andreotti dinanzi al Parlamento».
E fu appunto Andreotti che nel novembre 1990 sciolse ufficialmente l’organizzazione.
Merita anche di essere ricordato quanto l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha affermato nel 2008:
Enrico Mattei
Nulla è successo, nulla è cambiato dopo il disastro aereo del 27 ottobre 1962, quando a Buscapè, vicino Linate, un Morane Saulnier 760 è precipitato, cagionando la morte del presidente dell’ENI Enrico Mattei, del pilota Irnerio Bertuzzi e del giornalista americano William McHale.
Non sarebbe stato ragionevole supporre che il re del petrolio italiano, l’uomo che, come si è detto, «guardava al futuro», con la sua spregiudicatezza, la sua aggressività, i suoi rapporti con i Paesi del terzo mondo produttori di petrolio, avesse gravemente indispettito il cartello petrolifero delle sette sorelle?
E che motivo avrebbe mai avuto di mentire il contadino Mario Ronchi allorché dichiarò di aver visto esplodere in volo l’aereo di Mattei? E quali pressioni e da parte di chi furono esercitate su di lui per indurlo a rimangiarsi quanto aveva detto? E chi e perché cancellò l’audio di una sua intervista alla RAI?
Perché non si tenne adeguato conto delle precise e convincenti dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaetano Iannì, già boss della Stidda di Gela, che l’uccisione di Mattei è stata eseguita dalla mafia ponendo dell’esplosivo sotto il carrello anteriore dell’aereo?
E come si spiega che non si sia dato il giusto peso alle dichiarazioni di un altro collaboratore di giustizia di grande rilievo e di riconosciuta attendibilità, Tommaso Buscetta, che racconta dettagliatamente l’omicidio di Mattei a opera della mafia1?
Non è, poi, estremamente valida l’ipotesi che il giornalista dell’«Ora» di Palermo, Mauro De Mauro – al quale il regista Francesco Rosi aveva offerto l’incarico di collaborare alla sceneggiatura del film Il caso Mattei, ricostruendo gli ultimi due giorni di vita trascorsi dal Presidente dell’ENI in Sicilia – sia stato sequestrato dalla mafia proprio per il motivo che si era molto avvicinato alla verità sulla morte del grande manager di Stato? Come, del resto, sostiene Buscetta: