La Calabria spiegata agli italiani
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La Calabria spiegata agli italiani

Il male, la bellezza e l'orgoglio della nostra storia

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La Calabria spiegata agli italiani

Il male, la bellezza e l'orgoglio della nostra storia

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Ma perché la Calabria è così? Metà inferno e metà paradiso, terra di misteri e ombre nere, scenario di bellezze ineguagliabili, territorio accogliente, teatro di violenze mafiose. L'autore analizza ogni cosa pezzo a pezzo, partendo da memorie lontane, per spiegare la misteriosa trasformazione di una antica regione da erede della civiltà ellenica a simbolo di degrado e sottosviluppo. L'aver tenuto separati Sud e Nord dopo l'Unità, con l'egoistico e calcolato scopo di favorire il progresso di una sola parte d'Italia, è il "vizio d'origine" di un'anomalia unica in tutto l'Occidente, che vede un Settentrione progredito e un Meridione arretrato nell'ambito di una stessa nazione e sotto il manto "garantista" di una stessa Costituzione. Solo in una prospettiva di riconciliazione del Paese, che batta pregiudizi e rassegnazione, sarà possibile affrontare la "questione". Ma bisogna fare presto. Se una parte d'Italia s'inabissa, l'altra – con le sue fragilità, i populismi, la corruzione diffusa – corre il rischio di ridursi al vecchio incerto destino preunitario di semplice espressione geografica.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788849853155
Categoria
Sociology

Una strana minoranza

Quando mi chiedono da dove vengo rispondo che vengo da un luogo (Calabria) che nella storia – per dirla con Bertolt Brecht – si è seduto dalla parte del torto, dato che tutti gli altri posti erano già occupati. Un luogo che fa parte dei margini d’Italia che sono – dice David Forgacs1 – tutto ciò che si è scelto di relegare alla periferia fisica o simbolica della Nazione. E perciò in quanto luogo periferico confinato tra le “zone da sacrificare” in nome del progresso di una parte del territorio (Nord) a danno di un’altra (Sud) e a cui spesso – dimentichi di questa pena sciagurata inflitta a conclusione del tormentato processo di unificazione – si chiedono continuamente le ragioni del suo essere rimasto indietro, fino a essere considerato peso e disturbo per il futuro dell’Italia, palla di ferro al piede dello Stivale. È come se al primo giorno di scuola ti mettessero in castigo dietro la lavagna senza una ragione precisa, per poi chiederti perché non stai seduto tra i banchi, con gli altri compagni di classe, a studiare diligentemente. In questo modo sei spinto a crescere con un grave senso di colpa, senza tuttavia conoscere qual è questa colpa.
Quando si discute di “zone da sacrificare”, il riferimento va ad aree geografiche di Asia, India o Africa subsahariana, costrette a forme di vita separata sotto l’aspetto ambientale, sociale ed economico. Sono zone scelte come pattumiere del mondo, o come insediamenti di fabbriche impestanti che inquinano e portano morte. Nell’Occidente il fenomeno è meno frequente, ma non mancano – soprattutto nel Sud Italia (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria) – esempi di territori feriti dai disastri ambientali provocati da industrie ammorbanti e dall’interramento di rifiuti altamente tossici.
In Italia le aree da sacrificate sono nate per altro scopo; prevalentemente politico-economico per avvantaggiare (o privilegiare) aree nazionali ritenute più competitive in Europa e più vicine ai mercati internazionali. Si tratta di un’anomalia, se pensiamo che avviene in maniera calcolata nell’ambito di uno stesso territorio nazionale, sotto il manto di una Costituzione che dovrebbe essere uguale per tutti.
Nella mappa delle zone italiane “sacrificate”, la Calabria occupa la parte più rilevante: è la più povera, esclusa, sottosviluppata. Un concentrato di patologie inestricabili con proiezioni future cupe e nel migliore dei casi a mezza tinta. Uno spazio spaesato dentro uno scenario di grande bellezza dove futuro e rovine sembrano termini incongrui, come dice Antonella Tarpino che sui luoghi d’Italia abbandonati ha scritto Spaesati, un libro dal titolo emblematico.
Eppure quest’Italia caduta ai margini suggerisce narrazioni differenti rispetto gli abusati stereotipi dei media e ai preconcetti dello stesso mondo culturale. Richiede un racconto inatteso che faccia riemergere una storia negata; la tenacia di un’umanità forte, la consapevolezza che il senso del limite è stato varcato e che bisogna correre ai ripari. Un gioco da evitare è però quello di attribuire unicamente all’unificazione della Patria la rovina del paradiso che esisteva prima. È, questa, un’idea fuori dalla storia: lontana dalla verità, malinconica per costituzione. Il paradiso non c’è mai stato in Calabria. L’isolamento e la sua povertà hanno origini ben più vecchie rispetto al momento costitutivo della Nazione. Miseria, violazione dei diritti, sopraffazioni di associazioni di malavita, tirannie di signorie saccheggiatrici c’erano già col Regno delle Due Sicilie (esistito dal 1816 al 1861) ancora prima dell’arrivo dei Savoia, i quali, poi, a loro volta, strozzati com’erano dai debiti, hanno fatto la loro parte, finendo di depredare il Sud.
«O la guerra o la bancarotta» suggerì un disperato collaboratore stretto di Cavour (Pier Carlo Boggio) in tema di bilanci, pensando al baratro dei conti pubblici piemontesi. E guerra fu di italiani contro italiani, che produsse strani processi secondo cui alcune parti della Nazione si dovevano affermare come centrali e determinanti e altre dovevano finire nel limbo delle periferie; messe in castigo dalla stessa storia che avevano contribuito a scrivere anche col sangue dei propri figli.
L’esercizio di smitizzare il Risorgimento, allo scopo di rivalutare il reame di Napoli, tuttavia, è antistorico: qualcosa di sbagliato nella narrazione del Sud. In realtà sono state tutte le dinastie (e i governi) degli ultimi due secoli che non hanno saputo (o voluto) creare modelli di crescita del Paese uguali per tutti. Lo spiega bene Carlo Levi (Cristo si è fermato a Eboli) quando sostiene che per i vari governi il destino del Meridione è stato di mera occupazione, talvolta di rapina: «Nessuno ha toccato questa terra – dice Levi – se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo».
Ciò nonostante, va riconosciuto che se non ci fosse stata l’Unità saremmo stati nello scacchiere europeo solo un’espressione geografica, come disse Metternich2, che in altra occasione era andato ancora più nel profondo nella sua idea del modo di essere italiani: «In Italia ci si detesta da provincia a provincia, da città a città, da famiglia a famiglia, da individuo a individuo». Una critica che può apparire irriguardosa, ma che sappiamo avere del vero. Se andiamo indietro nel tempo, ci riporta al lamento del padre della nostra lingua Dante Alighieri: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, non donna di province, ma bordello!»3.
Non tutte le responsabilità – va detto a scanso di equivoci – vengono dalla malcerta Unità, che ha finito per rivelarsi una camicia troppo stretta per un corpo vigoroso, come dice Giorgio Rumi: «Una specie di camicia di forza col rischio di esplosioni di rigetto»4. È giusto, però, interrogarsi su cosa sarebbe accaduto con una diversa politica dei piemontesi, oppure se ci fosse stata una reazione ancora più decisa delle popolazioni del Sud, che attendevano fiduciose la nuova Italia e si trovarono, invece, di fronte non a fratelli ma a rudi e spietati soldati nemici: «Tutto il Mezzogiorno continentale – scrive Salvatore Scarpino (La guerra cafona) – fu a partire dal 1861 praticamente in stato d’assedio per anni: senza leggi e senza garanzie statutarie». È in quella guerra fratricida che si forma il vulnus dell’Italia unita, e comincia a manifestarsi il “vizio d’origine” di un’Italia con territori distinti e l’emergere di due Italie. Vista dall’estero, la questione italiana è un’anomalia indecifrabile, un difetto che denota l’incapacità di costruire uno Stato fondato su un forte contenuto nazionale, come è avvenuto per inglesi, francesi, americani e tedeschi. Per dirla in sintesi – come Gennaro Sangiuliano (Una Repubblica senza Patria) – «bisogna ancora oggi costruire uno Stato che non sia tale solo per prefetture, questure, caserme dei carabinieri, ma lo sia anche per entità immateriale, come sentimento di patria». Nello stesso libro, scritto a quattro mani, Vittorio Feltri scrive: «Non ci vuol molto a capire che i piemontesi non avevano uno spirito sinceramente unitario ma videro, piuttosto, una straordinaria opportunità e scesero soprattutto a saccheggiare. Dei destini e dello sviluppo del Sud, i Savoia se ne fregavano altamente. Che il Sud sia stato spogliato, non mi pare una faccenda che si possa negare. Ma poi la mitologia del sopruso ha preso il sopravvento al Sud ed è diventata religione, fede, luogo comune, fino a trasformarsi in conformismo puro. E ancora una volta non se ne esce più. Il conflitto, inspiegabilmente, continua e il Paese non riesce ad aggregarsi».
All’inizio del XX secolo, le regioni del Mezzogiorno, già economicamente e culturalmente differenti da prima dell’Unità, sono diventate – spiega David Forgacs – l’oggetto di un fenomeno sociale unico, definito “questione meridionale”, nel quale incarnavano il polo negativo di un crescente dualismo Nord Sud.
È dopo l’Unità che nasce la questione meridionale. Nel libro Il Mezzogiorno e lo stato italiano (1911) Giustino Fortunato scrive: «Che esista una questione meridionale nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C’è, fra il Nord e il Sud della penisola, una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl’intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale». È dentro questa cornice oscura della questione meridionale, mentre nell’Italia postunitaria si dipingevano nel Nord i sogni per il futuro, che le popolazioni della Calabria sono state costrette ad abbandonare la loro terra come alternativa alla povertà. Tutto ciò è accaduto all’inizio con l’emigrazione “forzata” (o partire o morire di fame) verso le Americhe (Stati Uniti e Argentina) e poi, nel secondo dopoguerra, con un espatrio massiccio che rappresentava la soluzione pensata per combattere la miseria, ma era anche il calmiere delle tensioni che affioravano nella comunità contadina e lo strumento finanziario ideale per reperire tutte le risorse economiche necessarie allo sviluppo del Nord, con le rimesse che sarebbero arrivate alle famiglie del Sud. Quando l’Italia cercava di risollevarsi dalle macerie della Seconda guerra mondiale che aveva perso, fu messo in piedi il più imponente sistema di trasferimento verso l’estero di manodopera che tutta la storia europea ricordi. Fu un esodo pianificato, fin nei minimi dettagli, un partire che non contemplava il diritto di vivere nella terra dove erano piantate le proprie radici e si coltivavano affetti, speranze, desideri. È così che si è svuotato il Sud, fisicamente e nell’anima. Con l’emigrazione obbligata si è tirata una grossa riga nera sulla storia piena di dignità della civiltà contadina, classe sociale umile ma saggia, la cui scomparsa ha favorito la nascita di quell’urbanesimo caotico (fenomeno caratteristico del Sud) che ha radicalmente mutato la dimensione umana, civile ed economica delle città, con gli imponenti fenomeni sociali che ne sono conseguiti: migrazione continua, formarsi di aggregati disordinati di popolazione, costumi poco civili e consumistici, conflittualità permanente, espandersi di una microcriminalità satellite della grande criminalità organizzata.
«Cancellando l’antica società contadina si è cancellato – afferma Giovanni Russo (Lettera a Carlo Levi) – un complesso di radicati valori sociali e morali che mescolava insieme rassegnazione e speranza di un futuro migliore». È da questi processi storici tortuosi che è scaturita la Calabria che conosciamo: squilibrata da iperarretratezza e ipermodernità, i connotati più evidenti della sua involuzione, della sua insularità artificiale. È la Calabria – minoranza nel quadro nazionale – prigioniera di un’esclusione solitamente riscontrabile in quelle comunità che sono state a lungo colonizzate da dominazioni straniere, ma che è rara nell’ambito di uno stesso territorio nazionale.
L’impresa storica dell’Unità ha lasciato in eredità questa bizzarria istituzionale tutta italiana che dopo quasi due secoli il paese non s’è ancora scrollata di dosso. L’espressione «strana minoranza» – riferita ai calabresi – è di Corrado Alvaro, che l’ha scritta sulla rivista «Confluence» dell’Università di Harvard, in un saggio in cui definiva la sua regione come «la terra più distaccata dalla grande corrente di vita italiana». In quello scritto – perduto nell’originale in italiano – Alvaro raccontava di una «regione ora così scabra», ma che tuttavia conserva i segni di una civiltà cominciata nell’VIII secolo a.C. con l’arrivo dalle metropoli greche (le «città madri») di navi cariche di uomini avventurosi: artigiani, agricoltori, mercanti, filosofi e artisti. Una folla di personaggi che portò forme di vita già sperimentate in patria, destinate a incontrarsi con le culture di allora nel periodo in cui la Calabria era un elemento geopolitico fondamentale in tutta l’area del Mediterraneo e in particolare nei rapporti con la Grecia e il Medio Oriente. È da lì, da quelle teste di ponte aperte nel Meridione dai greci che incomincia davvero la storia dell’Occidente. Lo scrittore di San Luca poi raccontava di una terra testimone dell’arrivo dei primi cristiani nell’Occidente, con Paolo di Tarso che fece sosta a Reggio, nel corso del suo viaggio verso Roma; di una regione che conobbe gli arabi e i normanni; che visse il tentativo di unificazione dell’Italia con Federico II e poi l’età del feudalesimo e della conquista da parte spagnola. La sua preoccupazione era di spiegare, con un filo di malinconia tipica dell’uomo calabrese e anche dello stesso Alvaro, che di tutto quel lasso di tempo straordinario, rimaneva solamente l’immagine del senso di dignità del popolo di Calabria, dovuto, prima di tutto – diceva – al fatto che la sua forte personalità, benché oppressa nel corso dei secoli, fosse mirabilmente sopravvissuta alle tempeste delle varie dominazioni e alle debolezze della sua struttura sociale. Tutto il resto – notava Alvaro – era stato cancellato. Non veniva riconosciuto dalla cultura italiana e dalla storia ufficiale. Benché in quelle parole, apparse sulla rivista allora diretta da Henry Kissinger (futuro segretario di Stato degli Stati Uniti d’America) emergesse il senso di fatalismo tragico (verghiano) dello scrittore di fronte al declino della sua terra natale, si coglieva tuttavia la speranza forte della resurrezione: «Forse non è lontano il giorno in cui queste regioni creeranno nell’Italia meridionale una situazione simile a quella della Lombardia, Emilia e Piemonte». Alvaro spiegava che quando si parla di aree depresse, si è soliti immaginare paesi rinchiusi in un ambiente sociale semibarbaro: «Ma qui – diceva – siamo di fronte a una terra estremamente civile; una terra divenuta piuttosto scettica e disincantata, dove la propaganda volgare, il pregiudizio giornalistico e le convenzionalità cinematografiche, sono molto più deplorevoli e molto più pericolosi per la cultura dell’umanità».
A distanza di più di mezzo secolo dalla pubblicazione di quel saggio dal titolo Letteratura ricca e povera, in cui Alvaro spiegava che «gli scrittori del Sud venuti alla ribalta dopo l’Unità hanno portato un nuovo colore alla letteratura italiana, una nuova direzione e un nuovo realismo, legato alle grandi correnti del naturalismo francese e russo», permane la sensazione, penalizzante, del “Grande distacco”, a testimonianza di una frattura Nord Sud da molti ritenuta ormai insanabile. Il che vuol dire – sostiene l’antropologo Vito Teti – che la questione meridionale, di cui da decenni ormai non si parla se non nella cerchia degli studiosi, è stata rimossa, occultata, cancellata a uso e consumo dei creatori di quei luoghi comuni che ispirano la narrazione stereotipata e superficiale della Calabria persa e irredimibile.
L’idea di una Calabria “zona del male” – sostenuta dalla fabbrica del pregiudizio, ma anche dal bisogno politico di circoscrivere entro certi limiti geografici un male che invece, nelle sue forme molteplici, è diffusamente presente al Sud come al Nord – ha prodotto un “pensiero comune” nazionale, utile a marchiare alcune regioni del Sud con etichette infamanti che trovano condivisione ampia, dato che il male, come si sa, è più fotogenico e attrattivo del bene. Osservata dal basso, e nel tempo, la Calabria sembra invece un’area nella quale i problemi italiani si presentano come in tutto il resto dell’Italia, solo con forme più acute e destabilizzanti. Il male del Sud, acutizzato dalla violenza mafiosa, ruba più facilmente la scena, ed esplode con maggiore energia.
Il “pensiero” nazionale, sull’esistenza di un particolare male meridionale, in particolari momenti storici, si trasforma in “pensiero di Stato” quando è lo Stato (da queste parti “estraneo”) con le sue azioni inadeguate o sbagliate a dare credito a categorie di pensiero prodotte prevalentemente allo scopo di giustificare le cause dell’esistenza delle anomale disuguaglianze tra il Nord e il Sud. Queste forme di pensiero perverso consentono di sbarazzarsi senza tanti scrupoli del compito di spiegare la singolare anomalia italiana delle differenze territoriali: piegano la realtà alle proprie esigenze e danno vita a un immaginario collettivo sul Meridione fonte del male che poi produce la nascita di «non luoghi e di nuovi deserti», come dice Vito Teti.
Nella rappresentazione di questi deserti metaforici, la Calabria occupa lo spazio più rilevante; ne è la raffigurazione più paradigmatica.
Per qualcuno, la Calabria è un mistero, uno di quei luoghi simbolo dove gli uomini sono rassegnati e non sanno come risolvere i guai che li circondano. Ma la parola mistero, generalmente, viene utilizzata, almeno nel linguaggio comune, per indicare l’incomprensibile, qualcosa di sconosciuto, di cui parlare per metafora, quando la capacità di comprendere quello che accade ai più sfugge. Parlare di mistero nel caso della Calabria risulta perciò un esercizio comodo per sottrarsi all’impegno di comprendere, di spiegare. Il fatto di assumere la Calabria come «terra indecifrabile» – sostiene Teti – spesso porta i calabresi stessi a rappresentarsi come incompresi, inconoscibili, oggetto di negazioni, in una parola vittime. In realtà sono “italiani” a metà, che vivono in una regione dove lo Stato non ha speso in equità e in cultura civile come in altri posti. Dove non si sviluppa “capitale sociale” e fiducia reciproca tra Stato e cittadini, non c’è rispetto delle regole e dei diritti e raramente si sviluppa capitale economico. Ne deriva una verità amara, e cioè che, nonostante lo sviluppo del capitale economico sia il tema centrale del Mezzogiorno, nessuno che sia benestante in altre aree del Paese è sfiorato dall’idea di trasferirsi in luoghi che i media (e non solo) presentano come luoghi di nequizie.
Che ci sia chi in Calabria fa impresa, con successo, intelligenza e buoni risultati, sta a dimostrare però che il male non è così profondamente radicato da essere irrimediabile; che la situazione si può ribaltare; che niente è perduto, anche se le cose da fare sono molte, a cominciare dall’avvio di un processo di “creazione” dello Stato (vale in genere per tutto il Mezzogiorno) nella sua struttura ordinaria, che garantisca al capitale umano del Sud di affermarsi.
Ci sono situazioni storiche nella vita dei popoli in cui occorre volgere lo sguardo all’indietro, non per alimentare polemiche stantie o accendere nuovi fuochi che sono dannosi per un paese aduso a conflitti, lamentele e autoreferenzialità, ma più semplicemente con intento pacificatorio, di riconciliazione, che è l’unica via per riunire davvero questo Paese. La riconciliazione è lo scatto che manca all’Italia che attraversa una delle fasi più delicate e incerte della sua storia. È la via opposta alla rivendicazione e al sopruso, al pregiudizio e all’atteggiamento furbesco. Il malcostume della corruzione nella pubblica amministrazione, delle tangenti e del clientelismo politico, le continue aggressioni della violenza mafiosa sono lo specchio di un malessere reso più acuto dalla gravità della crisi economica e dal costo dell’Europa fragile. Se si guarda al passato, senza deplorevoli pregiudizi, diventa difficile dire chi stava meglio e chi stava peggio al Nord e al Sud, prima dell’unificazione. Francesco Nitti spiegava che tra il 1810 e il 1860, mentre stati come Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Germania e Belgio conoscevano già il progresso, l’Italia preunitaria ebbe invece grandi difficoltà di crescita: «Non vi era quasi traccia di grande industria in tutta la penisola. La Lombardia...

Indice dei contenuti

  1. La Calabria spiegata agli italiani
  2. Colophon
  3. Premessa
  4. Una strana minoranza
  5. Partire e narrare
  6. Tra Oriente e Occidente
  7. Il vizio d’origine
  8. Decomposizione e sottosviluppo
  9. Media e pregiudizio
  10. I mille volti della mafia
  11. Ribellioni e cattedrali nel deserto
  12. Riconciliazione e rivoluzione
  13. Bibliografia
  14. Indice