Da Caporetto a Vittorio Veneto
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Da Caporetto a Vittorio Veneto

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Ripubblicare oggi il volume di Gioacchino Volpe dedicato alla disfatta di Caporetto e alla ripresa italiana che portò all'affermazione di Vittorio Veneto non vuol dire soltanto riportare all'attenzione dei lettori un classico della storiografia italiana arricchito, in questa edizione, da importanti inediti dell'autore. Il vero e attualissimo interesse di questo volume è nel tentativo di Volpe di analizzare la severa sconfitta dell'ottobre 1917 dalla prospettiva del «fronte interno», per creare un approfondito saggio storico-sociologico dell'Italia in guerra. Da questa visuale Caporetto appare a Volpe come l'effetto del distacco degli Italiani verso «un'ancora mal conosciuta patria» e della fragilità dei vincoli di appartenenza civile che ne derivavano. Era un distacco che non riguardava solo il «popolo delle trincee» ma che albergava anche nelle classi dirigenti del Paese e che portava lo storico a investigare, senza pregiudizi, le agitazioni proletarie, i moti socialisti, la propaganda neutralista e disfattista. Ma anche le condizioni di lavoro della manodopera impegnata nello sforzo bellico, nei cui quadri il «senso dello sfruttamento era acuito dai grandi guadagni padronali, ottenuti durante il conflitto, a scapito dei guadagni operai». Suonata l'ora della riscossa, questi fattori negativi non scomparvero. Volpe fu obbligato ad ammettere, insieme a Croce e a Prezzolini, che i «veleni di Caporetto» non furono debellati neppure dalla vittoria militare. Quelle tossine, a lento rilascio, compromisero, infatti, la posizione internazionale dell'Italia al tavolo della pace e sconvolsero violentemente nel dopoguerra il tessuto sociale e politico della nostra comunità nazionale.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788849854718
Argomento
Historia

1. L’anno 1917

Anno grave, anno centrale e culminante, nella storia della grande guerra, il 1917! Per tutti. Ma specialmente per gli Imperi centrali. Avendo essi preso l’iniziativa o, almeno, avendo compiuto essi, per primi, i gesti irreparabili; e non avendo, viceversa, raggiunto scopi importanti ed obiettivi certi; meno ancora avendo fiaccato la volontà nemica di resistenza e di vittoria; i due Imperi erano da considerare, sin d’allora, sconfitti, sebben grandi e ambiziosi quanto mai continuassero ad essere i loro fini di guerra, con annessioni che andavano dal Belgio alla Romania. Senso vivo dell’assedio, del blocco, specialmente dopo che l’Italia e, più di recente, la Romania si erano unite alla coalizione avversaria! Visione, presentimento di rovina già in taluni. E dopo tale guerra, quale rovina! Quindi, ricerca di vie di uscita, sottili accorgimenti per indurre gli altri, sulla base della situazione militare, ad una pace che fosse una vittoria; sforzi bellici per conseguire nuovi successi, che permettessero di imporre la pace. E da allora, si alternarono o mescolarono la manovra pacifista e il colpo di ariete. Assidua, metodica l’azione di propaganda entro i paesi nemici, per guadagnar le popolazioni all’idea della pace, staccar i popoli dai governi, scavar a questi il terreno sotto i piedi, indebolire con la resistenza morale la resistenza militare! Non diversamente, del resto, l’Intesa, pur con meno unità ed efficacia. Anche essa, specialmente dal 1917 in poi, si presentò come nemica non già della Germania, ma del «militarismo prussiano»; non già del popolo tedesco, traviato e illuso, ma del Kaiser, provocatore e responsabile di guerra: insomma, come giustiziera.
Ed ecco, nel novembre del 1916, l’offerta di pace austro-tedesca, fatta forse con qualche sincerità dal bonario cancelliere Bettmann-Hollweg, ma annullata dalla volontà di guerra dei capi dell’esercito, dall’odio antinglese del popolo tutto, dalla speranza generale di potere, coi sottomarini, avere ragione del blocco. Ecco, il 1° gennaio 1917, la dichiarazione della guerra sottomarina ad oltranza. Essa doveva provocare o, meglio, affrettare l’intervento americano e quindi risolversi a maggior danno di chi si appigliava a questo rimedio disperato: e due giorni dopo, infatti, si ebbe la rottura delle relazioni diplomatiche fra Germania e Stati Uniti. Negli stessi giorni, prodromi di rivoluzione in Russia. Ed anche questa rivoluzione doveva produrre lo stesso effetto di avvicinare l’America all’Intesa, dopo scomparsa la repugnante autocrazia, rendere più omogenea l’Intesa stessa, consentirle di assumere una più coerente veste ideologica, insomma rinforzarla. Ma per il momento, la guerra sottomarina, con un pauroso crescendo di affondamenti (e, fra poco, anche la rivoluzione russa!) diffuse nell’Intesa, e più che altrove in Inghilterra, un senso tragico di sgomento. Era il potere dei mari che passava alla Germania! Poteva essere l’isolamento, la fame, il disastro, se non si trovavano subito i mezzi per combattere il nuovo nemico.
Intanto, si veniva maturando nel settore austriaco il pensiero di una offensiva seria sul fronte alpino, per la primavera: una seconda edizione del maggio-giugno 1916, ma corretta e arricchita, Austria e Germania l’una a fianco dell’altra. L’Austria, i suoi generali, tendevano a presentar il fronte italiano come di importanza decisiva. È il punto debole della coalizione avversaria, dicevano. È quello che, ben colpito, può dare i risultati più importanti, sia per eliminar un membro della coalizione, sia per interrompere, dalla valle del Po e dai porti della penisola, il traffico del Mediterraneo, troncare la guerra in Turchia, colpire al cuore l’Intesa e l’Inghilterra. Pensieri, questi, che avevano la loro corrispondenza in quelli di molti Italiani, uomini politici o militari, Bissolati o Cadorna, che tendevano ad attribuir la stessa importanza decisiva al fronte isontino per debellar l’Austria, cioè il minor nemico. Lì, essi dicevano, noi accampiamo già in territorio nemico; siamo non lontani da centri vitali della Monarchia, Lubiana e Trieste. Di lì, attraverso l’Austria, noi possiamo colpire la Germania, sia scompigliando i suoi piani balcanici, sia assalendola direttamente... Gli alleati principali, cioè Germania da una parte, Inghilterra e Francia dall’altra, non erano naturalmente disposti ad accettare senz’altro queste tesi. La guerra si vince con gli eserciti, è vero. E si vince, dove si può vincere. E dovunque si vince, è vittoria. Ma ognuno questa vittoria tende ad afferrarla vicino a casa sua. Lì ognuno avverte che essa si realizza nella sua pienezza! Combatter nel territorio dell’alleato battaglie decisive, è valorizzare l’alleato; è lasciare ai suoi Comandi una parte di protagonista o, almeno, di comprimario... E questo, gli alleati maggiori non erano disposti a permettere! Perciò, quando, al principio di gennaio 1916 [sic]1, si riunì la Conferenza interalleata di Roma, cui parteciparono i capi di Governo e i capi di Stato Maggiore dei paesi alleati, e Cadorna propose, nell’interesse generale della coalizione, una grande offensiva italiana, a cui gli altri avrebbero dovuto concorrere con 8 o 10 divisioni, 300 o 400 medi e grossi calibri, nulla ottenne. Solo Lloyd George consentì e caldeggiò. E neppure ottenne Cadorna assicurazioni di concorso alleato, in caso di offensiva nemica contro l’Italia, nei colloqui di febbraio e marzo con Nivelle e Robertson, recatisi a visitare il fronte italiano.
Meglio disposta, per quanto anche essa esitante, la Germania verso l’Austria. L’Austria non era ancora agli estremi: ma in grave stato, sì. Ed a Berlino, si cominciava ad essere preoccupati. Prima di ora, la Germania aveva preferito che il socio meridionale facesse da sé. Che era, poi, l’aspirazione più diffusa anche in Austria, per motivi sentimentali non meno che politici. La partita col nemico ereditario doveva essere sbrigata a tu per tu con esso. Era, in fondo, una rivincita! E poi, l’Austria non voleva correre il rischio di essere ingoiata da una Germania onnipresente. La Germania, da parte sua, ci teneva a non romper tutti, proprio tutti i ponti verso l’Italia, a non urtar troppo quegli Italiani che sentivano la guerra antiaustriaca ma non quella antigermanica ed aspettavano una rapida ripresa di relazioni amichevoli con l’ex alleato, appena regolato i conti col nemico ereditario. E realmente, fino allora, poco vi era stato di partecipazione tedesca sul fronte italiano: solo l’Alpenkorp (4 reggimenti), nella zona delle Dolomiti, sotto gli ordini del gen. Kraft von Dellmensingen, dalla fine di maggio alla metà di ottobre 1915, quando andò in Serbia. Aveva l’ordine di stare sulla difensiva, e solo piccoli nuclei furono messi nelle Giudicarie e sugli Altipiani, per far credere a noi che nel Trentino si trovasse pronta una intera armata germanica. Ma ora, la situazione dell’Austria stava aggravandosi. Gli Italiani erano in vista di Trieste e Trieste aveva un grande valore politico e morale, anche per la Germania! Comunque, un piano di azione austrogermanico, proposto al supremo Comando austriaco da Conrad, trovò poi non ben disposto Ludendorff, ma consenziente Hindenburg. Si trattava di sfondare a Tolmino e colpire mortalmente dal Trentino.
Ma altre pedine si muovevano contemporaneamente da Vienna. Abbiamo qui ora, al posto del vecchio Imperatore, il giovane Carlo. Con esso, sta sul trono di Asburgo non una più alta intelligenza, ma un animo meglio disposto ad uscir dalla fatalistica inerzia, una maggiore buona volontà di salvare il salvabile, una più chiara persuasione che l’Austria, proseguendo la guerra, marciava verso la rovina. Non solo i nemici alle frontiere, da tutte le parti; ma anche dentro, fermenti pericolosi di dissoluzione. Qui, vita difficile, prospettive nere per l’avvenire prossimo e remoto, agitazioni politiche, malumori di nazionalità, specialmente dei Cèchi, i più avversi all’Austria, fra gli Slavi della Monarchia, e terribile forza dissolvente della sua compagine. La guerra, che taluni avevano sollecitato anche come un buon eccitante per tener in vita lo Stato, pareva piuttosto che agisse come tossico. Perciò Carlo, mentre si volge a lusingare il nemico interno (nuove dichiarazioni di innocenza della Monarchia, carattere assolutamente difensivo della guerra, buona volontà di pace, promessa di vicina riapertura del Parlamento, autonomia alle nazionalità, amnistia ai ribelli, ecc.); lusinga anche il nemico esterno. Non l’Italia, naturalmente. Neanche la Russia, che pure riscuoteva assai minor odio di quella. Ma gli Stati d’occidente, in particolar modo la Francia. Con essi l’Austria che ragioni di guerra aveva? Non c’era, anzi, vecchia amicizia, vecchia solidarietà, anche di fronte all’Italia? Non c’era, in Francia, gente che di far la guerra all’Austria, sul serio, non voleva saperne, per diffidenza verso l’Italia, ed era disposta ad aprir le braccia al nemico-amico, solo che l’Austria avesse un po’ rotto i rapporti di servizio con la Germania? A fianco dell’imperatore, è Czernin, ancora più sottile tessitore di trame, ancora più persuaso che bisognava troncar al più presto la guerra. Un suo famoso rapporto dell’aprile, destinato anche a Berlino, dichiarava senza ambagi che la forza militare della Monarchia si avvicinava alla fine e che neanche era da pensare ad un’altra campagna invernale. Fatto sta che si comincia a soffiar negli orecchi dell’Intesa d’occidente: l’Austria, non mal disposta ad una pace separata... Sacrosanti i diritti francesi sulla Alsazia e Lorena. Indiscutibile l’obbligo di ricostituire il Belgio; di ricostituire ed, eventualmente, ingrandire la Serbia. L’imperatore Carlo, disposto a sostener la loro causa presso l’alleato... Intermediario di questo lavorìo diplomatico, di cui qualcuno ha dubitato che, almeno in parte, si svolgesse d’accordo con la Germania, era Sisto di Borbone, fratello dell’Imperatrice. E famosa diverrà una lettera di Carlo al «Caro Sisto», del marzo, che Sisto mostrò a Poincaré; famosi certi colloqui di Sisto con Poincaré, che sosteneva quella lettera base sufficiente per trattare. Insomma, balena la possibilità che l’Austria, pur di aver pace, volti le spalle all’alleanza. È naturale che la cosa era, se anche pensata sul serio e desiderata, impossibile. Quindi la manovra austriaca si riduceva ad un tentativo di staccar l’Intesa dall’Italia e isolare l’Italia. Francia e Inghilterra ascoltarono un poco: la Francia, ancor meglio disposta che non l’Inghilterra. E più di un uomo di governo sosteneva lì che si potesse fare a meno anche di informare l’Italia, salvo che a cose fatte o avanzate. Ma vi fu, anche in Francia, chi capì l’enormità della cosa. Lloyd George insisté perché se ne parlasse a Sonnino. Insomma, l’Italia c’era e bisognava pure tenerne qualche conto! L’Italia? insinuò Carlo in altra lettera e Sisto in altro colloquio; l’Italia? Ma l’Italia ha essa stessa fatto domanda di pace con noi, mettendo da parte le sue pretese territoriali: salvo il Trentino. Che era una menzogna sfacciata, come lo stesso Czernin riconoscerà poi, implicitamente, nelle sue Memorie. Quale pace avesse chiesto l’Italia, lo disse il giorno 19 e seguenti Sonnino a S. Giovanni di Moriana, dove si trattò, appunto, di paci separate; e gli alleati di occidente si trovarono di fronte alla fermissima volontà del ministro, cioè dell’Italia, di non conchiudere pace separata, se non erano raggiunti i suoi scopi di guerra. Gli alleati si rassegnarono, più o meno di buona grazia. E le conversazioni languirono: almeno quelle dirette, a Parigi. Al contrario, Conrad, in primavera, tornò a battere per l’offensiva a fondo. Riteneva che, entro un anno, i due Imperi dovessero a tutti i costi ottenere una decisione.
Intanto, sul fronte occidentale ferveva l’offensiva anglo-francese, culminante verso la metà di aprile. Non so se essa si proponesse anche di alleggerire il fronte russo, che cominciava a risentirsi della rivoluzione all’interno. Certo, l’effetto che ottenne fu di allontanare l’azione austro-germanica dal fronte italiano, a cui Ludendorff, riluttante, aveva finito col consentire. E invece, Cadorna attaccò egli il 14 maggio, dietro sollecitazione degli alleati e in conformità degli accordi di Chantilly (fine del 1916). Altra grossa spallata, alcuni notevoli acquisti sul monte Kuk e sul Vodice, che allargavano la nostra occupazione oltre Isonzo: insomma, qualche altro passo avanti verso Lubiana e Trieste, non ostante la violentissima reazione austriaca dal 1° al 4 giugno, sul Carso, col sussidio delle divisioni e delle artiglierie che cominciavano a giungere dal fronte russo. In giugno, grossa offensiva nostra anche su gli Altipiani, nella zona dell’Ortigara, per riprendere posizioni perdute l’anno innanzi, rafforzare la nostra difesa in quel settore, assicurar meglio le spalle dello schieramento isontino, dare alla 2a e 3a armata maggior libertà d’azione. Ma i risultati, quassù, nulli. E nell’insieme, fra Isonzo e Altipiani, guadagni assolutamente sproporzionati alle perdite, per noi. Sproporzionati, del resto, anche sul fronte anglo-francese, dove si ebbe a soffrire un’altra grande carneficina, (quasi grande come la nostra che fu grandissima), con grave conseguente depressione di spiriti: malumore diffuso nel paese, più intense manovre pacifiste, manifestazioni di «disfattismo», gran parte dell’esercito in stato di latente ribellione che in molti corpi esplose, non appena Nivelle cedé il posto a Pétain. Si fece strada allora, anche nei Comandi francesi, l’idea che fosse ora di finirla con le sanguinosissime e inconcludenti offensive, tanto più che il tempo non era nemico ma alleato dell’Intesa. Ormai, l’America si era posta anche essa contro la Germania. Si trattava di aspettare che fosse in atto ciò che adesso era ancora in potenza. Qualche ministro francese non nascose questo proposito, dalla tribuna parlamentare. E il nemico non era sordo. A luglio, quel Comando risolse definitivamente di mettersi su la difensiva: per un anno.
Ma era bene che qualcuno, intanto, attaccasse, impedisse concentramenti di forze sul fronte franco-belga, attirasse le truppe austro-tedesche che si venivano rendendo libere dalla parte della Russia e della Romania. Fra il 25 e il 27 luglio, conferenza interalleata a Parigi. Vi è Sonnino, Cadorna e Thaon di Revel, per l’Italia; Foch e Weigand, per la Francia; Robertson, per l’Inghilterra. A noi si chiese di attaccare, attaccare, in estate, in autunno. Promettevano artiglierie grosse e medie. Cadorna, che pure conosceva le nostre perdite del maggio-giugno, che vedeva lenti a ricostituirsi i depositi dei proiettili, che cominciava a non essere del tutto tranquillo neanche per il morale delle truppe, Cadorna promise una offensiva, in agosto; non si impegnò per un’altra, subito dopo. Era il tempo che, sul fronte occidentale, regnava tregua: né si presumeva che sarebbe stata rotta. Più che tregua, sul fronte russo, donde, fra maggio e giugno, era cominciato l’afflusso di uomini e di artiglierie verso il fronte italiano: che ci dà la spiegazione dell’iniziale successo dell’effimera offensiva Kerensky, nel luglio (copia in piccolo dell’altra offensiva Brussilof, giugno 1916, quando l’Austria era pure impegnata con grandi forze nella straf-expedition del Trentino!). E Cadorna attaccò. Un po’ era desiderio suo di giungere a posizioni che agevolassero la difesa, in caso di grande offensiva nemica, un po’ era dovere di alleato e osservanza di impegni contratti. E questa tesi egli sostenne a Roma, nell’agosto, di fronte a chi, dalla parte del Governo, proponeva ci fermassimo anche noi, in attesa. L’Italia era accusata dagli alleati di condurre una guerra egoista; si diceva che essa, che il suo esercito si risparmiassero. In realtà, nessun esercito dell’Intesa ha, nel 1917, sanguinato tanto; nessun Comando, come Cadorna, ha fatto tanto per attuare unità di sforzi e dare disciplina alle operazioni militari dell’Intesa. L’Italia era ormai lanciata in piena guerra mondiale, e con una funzione di capitale importanza nell’economia generale della guerra stessa. È venuta meno una delle colonne della coalizzazione antigermanica; e del fronte orientale – russo, serbo e romeno – rimangono solo brandelli. Non è ancora pronto chi riempirà quel grande vuoto. Ed ecco l’Italia: quell’Italia che i diplomatici russi guardavano «con gran dispitto», fra il 1914 e il 1915; che essi anzi non volevano, come militarmente inutile e diplomaticamente ingombrante, capace più di indebolire che di rafforzare l’intimità degli alleati. E l’Italia, per molti mesi, fa essa le spese maggiori della guerra, sin quasi a fiaccarsi.
Dalla metà di agosto, infierì aspra battaglia di fronte alla 3a e, più, alla 2a armata. Concentramenti di artiglierie non mai visti sul fronte italiano. Divisioni su divisioni lanciate oltre l’Isonzo, verso i due maggiori obiettivi fissati ad esse, l’altipiano della Bainsizza e l’altipiano di Ternovo. Avevamo ancora grande superiorità numerica: 44 divisioni nostre, contro 20 o 21 divisioni austriache. Ma quale superiorità nemica, in fatto di posizioni! Bisognava, sul medio Isonzo, passare un rapido fiume, dalle sponde dirupate; gettar i ponti, davanti a un nemico annidato in alto nelle ben munite caverne; scalare e avanzare sopra un altipiano brullo e sitibondo. Riuscì mediocremente nel suo compito il XXVII Corpo (gen. Vanzo), a nord della Bainsizza. E Tolmino non fu dominato, aggirato, preso. Assai meglio, sempre su quell’altipiano, il XXIV con Caviglia, che fece cadere per manovra importanti posizioni nemiche. Ma il cerchio di ferro che, più a sud, strinse per giorni e giorni il San Gabriele non riuscì ad avere ragione del terribile caposaldo che dominava la piana di Gorizia. Tuttavia, ancora una spallata, ancora un passo avanti verso obiettivi maggiori. Dal punto di vista territoriale, anzi, mai, dopo il balzo dei primi giorni, si era avuto tanto acquisto, come fu quello della Bainsizza occidentale. Non comoda, quella nostra posizione sull’altipiano! Davanti, il nemico ci signoreggiava da posizioni più elevate; alle spalle, un gran fiume profondamente incassato. Ma c’era da credere che, un altro passo avanti, e gli Italiani avrebbero dominato e preso il vallone di Chiapovano, fatto cadere di lì Tolmino e il San Gabriele. Più in là, c’era la grande foresta. E gli Austriaci dove avrebbero arrestata la loro linea? Lo stato morale del nostro paese non era, in quel tempo, elevato. Ma una piccola ondata di entusiasmo e di ottimismo passò sopra gli Italiani. Molti combattenti, che avevano intuito come questa dovesse essere una delle funzioni e, forse, degli scopi dell’offensiva, si rallegrarono che l’effetto non fosse mancato.
Viceversa: gravissimo colpo fu avvertito in Austria. E si rafforzò la persuasione che bisognasse, a mali estremi, contrapporre estremi rimedi. Il 25 agosto ’17, mentre i due eserciti erano ancora alle prese, il Comando austriaco decise far appello alla Germania, incaricando il gen. Waldstätten di presentare ufficialmente la richiesta al Comando tedesco. Il 26, Carlo imperatore scriveva da Reichenau a Guglielmo: «Le esperienze della nostra undicesima battaglia fanno persuaso me che la dodicesima potrebbe essere arduissima fatica per noi. I miei generali e le mie truppe sono convinti che meglio sia superare le difficoltà con una offensiva. Fa di sostituire, sul fronte orientale, truppe tedesche a truppe austro-ungariche, in modo che queste siano libere. Molto tengo a che l’offensiva contro l’Italia si faccia solo con truppe austro-ungariche! Tutto l’esercito chiama questa la nostra guerra; ogni ufficiale è cresciuto con il sentimento, che i suoi padri gli hanno trasmesso, della guerra contro il nemico ereditario. Ma con gioia saluteremo sul nostro fronte artiglieria tedesca, specialmente pesante. Con un riuscito colpo contro l’Italia, potremo accelerare la fine della guerra»2. Al che Guglielmo rispondeva che l’Austria poteva contare su tutto l’esercito tedesco, su tutta la Germania, lieta di dare addosso, fianco a fianco con l’alleato, contro l’infedele Italia. Nel prevedere male da una dodicesima offensiva italiana, l’imperatore Carlo rispecchiava il pensiero dei suoi generali. Quella dell’agosto scosse nel profondo l’esercito nemico. Noi ne avemmo sentore anche dall’interrogatorio dei prigionieri. Essi parlarono delle enormi perdite, dei terribili effetti del bombardamento, dell’audacia senza limiti degli aviatori che si abbassavano a trenta metri per mitragliarli, della distruzione delle trincee e dei reticolati, del disordine nelle retrovie, della mancanza di rifornimenti, della confusione nei Comandi. Gli ufficiali non sapevano più che fare per tenere su la truppa. Annunciavano l’arrivo di divisioni germaniche, bulgare e turche, affettavano la persuasione che gli Italiani non avrebbero potuto perdurare nello sforzo, ecc. Vedevano i vecchi soldati stanchi, i giovani poco solidi. Specialmente gli Slavi vacillarono. Qualche reparto polacco alzò le braccia, ai primi colpi dei nostri. In talune posizioni, reparti di Cèchi, che di solito si erano sul nostro fronte validamente battuti, cedettero, senza troppa resistenza, alla nostra pressione: e una compagnia boema si arrese, sul Carso, al canto dell’Internazionale! Più alto morale, come di consueto, fra i Tedeschi e gli Sloveni. Accaniti i Croati. Ancor più fermi gli Ungheresi. Nell’insieme, si capisce come i generali austro-ungarici potessero vedere nero assai nel prossimo avvenire. Già a proposito della 10a offensiva nostra, ...

Indice dei contenuti

  1. Da Caporetto a Vittorio Veneto
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Caporetto come «problema storiografico»
  5. 1. L’anno 1917
  6. 2. Combattenti e civili
  7. 3. L’offensiva austriaca
  8. 4. La ritirata al Piave
  9. 5. La resistenza vittoriosa
  10. 6. Restaurazione