Rivista di Politica 02/2019
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La "nuova Turchia" di Erdoğan. Tra risveglio islamico, sviluppo e autoritarismo politico.

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La "nuova Turchia" di Erdoğan. Tra risveglio islamico, sviluppo e autoritarismo politico.

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Gianfranco Miglio e il progetto (ancora attuale?) di una "nuova Costituzione" per l'Italia: una rilettura critica dell'attività del "Gruppo di Milano Andrea SpallinoOrigini, successi e metamorfosi del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP): un esempio in Turchia di "partito piglia-tutti" Valeria GiannottaOrigini e cause della radicalizzazione islamista: un approccio empirico-sociologico Alessandro OrsiniIl malessere delle democrazie e l'ascesa dei populismi Alessandro CampiL'islamismo turco in prospettiva politica: tra conservatorismo (egemone) e riformismo (perdente) Fabio ViciniPatriottismo e sentimento nazionale nelle riflessioni di Giacomo Leopardi Giovanni ScarpatoLa politica estera della Turchia negli anni di Erdog?an: un'analisi critica dal punto di vista del realismo neoclassico Emer Parlar Dal, Hakan Mehmetcik

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788849860481
DOSSIER:
LA “NUOVA TURCHIA” DI ERDOĞAN
I dilemmi della Turchia contemporanea: tra risveglio islamico, riformismo politico, sviluppo economico e derive autocratiche
Da alcuni anni la Turchia attraversa uno dei periodi più complessi e travagliati della propria storia moderna. La regressione del processo di democratizzazione, la fase di recessione economica, la crisi dei rifugiati – quasi quattro milioni di siriani sono presenti in territorio turco –, il moltiplicarsi delle minacce transnazionali (PKK, TAK, ISIS, YPG), l’accentuarsi della rivalità regionale (Arabia Saudita, EAU), la presenza di due stati deboli lungo il confine (Siria, Iraq), il raffreddamento dei rapporti con i tradizionali alleati (USA, UE) e l’avvicinamento alla Russia sono solamente alcuni dei motivi che pongono la Turchia al centro degli interessi di molti osservatori internazionali.
Se la centralità geopolitica rende la Turchia uno snodo cruciale della politica globale, il suo patrimonio culturale e il percorso compiuto dalla nascita della Repubblica (1923) all’adozione del nuovo sistema politico presidenziale (2017) centrato attorno alla figura di Recep Tayyip Erdoğan la rendono uno dei casi di studio più interessanti nonché necessari per la comprensione delle dinamiche politiche che coinvolgono l’intera regione. Il fascino e, al tempo stesso, gran parte della complessità del paese anatolico risiedono nella costante tensione tra Oriente ed Occidente, tra Islam e modernità, nonché nel peso storico dell’Impero ottomano, i cui domini sono stati l’incubatrice di molte delle fratture e dei conflitti del Medio Oriente moderno. Questi caratteri, mai realmente sopiti, sono riemersi con prepotenza negli ultimi due decenni, contraddistinti dal graduale abbandono del percorso orientato verso l’adesione al progetto comunitario europeo in favore di un approccio maggioritario alla democrazia e a metodi di governo autocratici. A mutare però è stata anche la struttura sociale turca, con la riabilitazione prima e l’affermazione poi della religione in quanto collante sociale primario.
I sedici anni trascorsi dalla prima vittoria elettorale del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), avvenuta nel 2002, hanno visto la Turchia attraversare due fasi politiche distinte ma collegate tra loro dalla revisione politico-identitaria i cui esiti sono visibili nella Turchia di oggi.
La prima fase di governo AKP (2002-11) è stata contraddistinta dalle riforme e da una generale riorganizzazione delle strutture e dei meccanismi istituzionali, economici e giuridici del paese in un contesto ancora fortemente condizionato dalla tutela politica dei militari e da standard democratici distanti da quelli delle democrazie liberali europee. A favorire tale percorso hanno concorso una molteplicità di fattori di origine esterna e domestica. Tra questi determinante è stato il diverso contesto regionale successivo all’intervento statunitense in Iraq (2003), l’impulso dato alla crescita economica da una serie di politiche di stampo neoliberale e le molteplici riforme strutturali introdotte nell’ambito del processo di adesione all’Unione Europea, i cosiddetti criteri di Copenaghen.
Molti osservatori guardarono con favore gli sforzi riformatori dei primi governi Erdoğan, giudicati una inequivocabile prova dell’impegno a rimuovere tutti quei vincoli che all’interno della sfera domestica rallentavano il processo di democratizzazione. L’approccio AKP è risultato determinante sia ad evitare lo scontro diretto con parte del vecchio establishment laico kemalista sia a rafforzare l’immagine e la legittimazione del partito di governo e del suo leader agli occhi della comunità politica, finanziaria e mediatica internazionale. Inoltre, l’AKP, nonostante avesse vinto le elezioni presentandosi come un partito catch-all, in grado di intercettare il crescente malessere di molti settori della società turca, era nato come formazione di forte ispirazione islamica. La maggior parte della sua classe dirigente condivideva infatti una lunga militanza nelle fila del principale partito islamista turco (Partito del benessere). Di conseguenza, il nuovo partito di governo emerse sia come il naturale rappresentante di una consistente fetta di Turchia conservatrice che per anni era stata emarginata dalla vita politica ed economica del paese sia come un esempio virtuoso di islam politico. In un quadro globale ancora fortemente traumatizzato dagli attacchi dell’11 settembre e dalla minaccia del jihadismo internazionale, la Turchia a guida Erdoğan sembrò offrire per anni una storia di successo, una sorta di eccezione mediorientale, al punto da spingere molti analisti a parlare di “modello turco”: una riuscita alchimia tra Islam, democrazia, capitalismo e istituzioni secolari.
In questa prima fase politica, l’interminabile serie di vittorie elettorali consentì al partito di governo di assumere un ruolo predominante all’interno delle istituzioni, favorendo il ricambio dei quadri burocratici e il ridimensionamento dell’ingerenza dell’Esercito. Inoltre, approfittando dell’introduzione dei pacchetti di riforma europei, i governi AKP furono in grado di riabilitare l’identità musulmana nella sfera pubblica, riuscendo a soddisfare così le istanze di una classe media conservatrice la cui ascesa era iniziata sul finire degli anni Ottanta grazie alle prime liberalizzazioni economiche. Di conseguenza, il revivalismo religioso subì una netta accelerata, dando vita ad un vero e proprio processo di revisione identitaria. Principale motore di tale cambiamento insieme all’AKP fu quello che ad oggi è considerato il suo più acerrimo nemico ovvero la comunità facente capo al leader spirituale Fethullah Gülen. Operando in due settori distinti ma complementari quali il partitismo politico e la società civile, i due attori furono in grado di attuare una rivoluzione culturale dal basso (bottom up) che ha portato al ribaltamento dell’apparato laico kemalista e della sua egemonia culturale, ed alla sostituzione degli stessi con un apparato istituzionale ed ideologico strutturato lungo l’asse islamico-conservatrice.
L’incrinarsi di questa alleanza rettasi per un decennio sulla condivisa lotta ad un nemico comune, aprì alla seconda fase (2012-19) nella quale l’AKP si è progressivamente allontanato dall’orientamento democratico e liberale per abbracciarne uno più nazionalista e conservatore, contraddistinto da un approccio alla democrazia di tipo maggioritario. Una tendenza che ha inevitabilmente suscitato le preoccupazioni delle componenti riformiste e laiche della società turca. Il malessere, non trovando più istituzioni in grado di canalizzarne l’energia sfociò nelle proteste di Gezi del 2013. A seguito degli scontri di quei giorni e della crescente repressione di ogni forma di dissenso politico, si è accentuata la polarizzazione sociale che ha storicamente attraversato la società turca a partire dalla fondazione della Repubblica, ovvero la divisione fra il campo religioso-conservatore e quello laico. In pochi mesi la rapida concentrazione del potere nelle mani di Erdoğan si accompagnò alla riduzione dei contrappesi istituzionali e al progressivo soffocamento della società civile. A fare da sfondo alla crescente instabilità interna e alla deriva illiberale del regime turco, l’onda lunga delle proteste arabe e i loro effetti sugli equilibri geopolitici dell’intero Medio Oriente. Il rimescolamento della distribuzione del potere e la formazione di nuove alleanze lungo linee trasversali dettate più dalla condivisione della minaccia che da elementi identitari ha favorito la configurazione di un inedito tripolarismo regionale. Uno scenario ottimale per appagare le ambizioni della Turchia che per storia, capabilities e rilevanza geostrategica internazionale costituisce uno dei tre poli naturali di riferimento insieme all’Iran e all’Arabia Saudita. Da qui il tentativo turco di affermarsi a leader regionale attraverso l’adozione di una politica interventista in alcuni contesti di crisi, su tutti la Siria, coadiuvata dall’aperto sostegno alle formazioni di islam politico come i Fratelli Musulmani, e da rapporti ambigui con gruppi più radicali.
In mezzo, il definitivo congelamento del processo di adesione europea consumatosi a seguito del tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016 condotto da militari affiliati al movimento di Gülen. La reazione dell’esecutivo a tale tentativo è stata veemente e, in una cornice di formale liceità assicurata dalla proclamazione dello stato d’emergenza, ha promosso una lunga serie di azioni repressive volte a colpire non soltanto i presunti membri gülenisti ma i principali esponenti del dissenso civile tra cui accademici, giornalisti e attivisti. In questa seconda fase politica i rapporti con l’UE si sono inevitabilmente raffreddati, raggiungendo un nuovo equilibrio su base meramente utilitaristica.
Se il progetto di adesione è oramai una mera chimera, retta e alimentata dai reciproci interessi politici, la Turchia ha iniziato a rapportarsi attraverso accordi bilaterali con gli stati europei, facendo leva sulla delicata questione dei flussi migratori, diventati una vera e propria arma di ricatto. Sventato il colpo di stato e avviata una fase repressiva, l’esecutivo AKP ha approvato le modifiche costituzionali che hanno trasformato il sistema parlamentare in un presidenzialismo imperfetto (2017) in cui vi è la pressoché totale assenza di bilanciamento dei poteri. Da allora la direzione intrapresa da Erdoğan non sembra condurre verso l’affermazione di uno stato islamico repressivo, come inopinatamente pronosticato da molti media, bensì verso l’adozione di una forma di potere che rimanda ai tradizionali regimi mediorientali, presentando alcuni loro tratti distintivi: concentrazione del potere nelle proprie mani, democrazia procedurale, utilizzo delle forze di sicurezza per reprimere il dissenso, concezione patrimoniale del potere, accumulazione di capitali e culto della personalità. Come verrà messo in luce da alcuni contributi del presente dossier, in tale percorso la religione è più che altro un importante strumento di coesione e mobilitazione sociale che, negli ultimi anni, ha assunto i caratteri ideologici del nazionalismo turco-sunnita. Dal 2012 ad oggi, la Turchia non solo si è dimostrata incapace di guidare e gestire le spinte a...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Copyright
  3. DOSSIER: LA “NUOVA TURCHIA” DI ERDOĞAN
  4. ARCHIVIO DEL REALISMO POLITICO
  5. STORIA DELLE IDEE E DELLE DOTTRINE POLITICHE
  6. OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
  7. TEORIA POLITICA
  8. Notizie sugli autori
  9. Abstracts