Isaiah Berlin
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Frutto di un decennio di ricerche e dell'utilizzo di fonti inedite, il libro costituisce la prima ricostruzione integrale del percorso biografico e intellettuale del filosofo e storico delle idee Isaiah Berlin (1909-1997), svelando l'importanza che vi ebbero le vicende e i confronti con alcune tra le maggiori personalità del Novecento: da Chaim Weizmann a David Ben-Gurion, da Winston Churchill a Margaret Thatcher, da T.S. Eliot a Ludwig Wittgenstein. Emergono così l'attenzione verso l'appartenenza culturale e nazionale, l'impegno per il sionismo e la critica ai nazionalismi aggressivi, l'interesse per la decolonizzazione e per il pluralismo culturale, che rendono la proposta filosofica berliniana ancora attuale e la situano al centro del dibattito internazionale. La rilettura finale delle riflessioni di Berlin sul liberalismo e sul pluralismo fa dell'opera un'accessibile e al contempo rigorosa introduzione al suo pensiero.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788849854688

Parte 1
Dal Baltico a Israele

1.

La formazione di un’identità ebraico-russa

Anche se mi sono anglicizzato parecchio, sono un ebreo russo.
Isaiah Berlin (1996)1

Un buon lignaggio

«Suppongo di dovere il mio giudeocentrismo […] a lei e al suo mondo e alle radici culturali ebraico-russe». Così, in una lettera a Stuart Hampshire, scriveva Isaiah Berlin a proposito della madre, Mussa Marie Volshonok, scomparsa nel febbraio del 1974. Sottolineando il nesso indissolubile tra la propria identità e il percorso intellettuale compiuto, aggiungeva: «Il mio debito nei suoi confronti è gigantesco come sai bene: tutte le mie credenze herderiane sono fondate sulla ricca e solida tradizione in cui sono stato allevato per dieci anni». La perdita lasciava «un senso di desolazione e di amputazione: come se un intero mondo di parole, simboli, allusioni, riferimenti fosse svanito»2; una sensazione di solitudine esistenziale, di «homelessness, lo spezzarsi dell’ultima radice che mi connetteva alle mie origini»3. Due mesi dopo, Berlin ribadiva che la madre «era davvero una personalità ebraica completamente formata, ed era un’orgogliosa e degna rappresentante di una tradizione e di una cultura: le mie convinzioni e prospettive, così come sono, derivano direttamente dalla solida e incrollabile educazione ebraica che mi è stata data». Ella «era una forte combattente per tutti i valori ebraici: anima naturaliter sionista», ed egli si considerava sempre più vicino alla fede di lei nell’«emancipazione degli ebrei schiavizzati, colonizzati, metà risentiti metà acquiescenti, metà invidiosi degli stranieri metà vergognosi del desiderio di essere accettati» da loro. Il lascito culturale e morale che sentiva di aver ricevuto da Marie era differente, e più profondamente identitario, di quello che ascriveva al padre, Mendel: «Amavo mio padre, ma nonostante mi sentissi terribilmente triste, la sua morte non spazzò via il mio passato; la morte di mia madre ha rotto un legame vitale»4.
Può essere rinviato a questa percezione, e non soltanto al desiderio che il padre fosse stato «secolare, razionale e progressista»5, l’atteggiamento sprezzante riservato allo scritto autobiografico paterno steso tra il 1946 e il 1949, che Isaiah aveva letto solo cinquanta anni dopo, su pressione del proprio biografo Michael Ignatieff, ravvisandovi un «ritorno alle radici» e un «sentimentalismo ebraico» riemersi soltanto in vecchiaia, dopo una vita da evolué6. Quel che Mendel, consapevole della morte per mano nazista della gran parte dei membri della propria famiglia, intendeva trasmettere al figlio – e ciò che per questi avrebbe rappresentato fonte di disagio – era l’orgoglio di appartenere a un buon lignaggio (yikhes) che affondava le radici in una delle maggiori famiglie ebraiche dell’Europa orientale che annoverava una «lunga serie di rabbini e di studiosi»7, tra i quali Shneur Zalman di Liadi – fondatore della corrente Habad (conosciuta anche come setta Lubavitch) del pietistico hassidismo8 –, antenato comune a Mendel e a sua moglie e cugina di primo grado Marie, la quale poteva anche vantare la discendenza dal rabbino Shneur Zalman Fradkin9.
Nato nel 1883 a Lublino, ma presto trasferitosi a Vitebsk con la famiglia, Mendel era stato rigidamente allevato ai princìpi religiosi in uno heder, in un contesto esclusivamente ebraico, per volontà del padre, Ber, che parlava solamente yiddish. Grazie alla madre, che aveva seguito la tendenza in voga tra i maskilim (i fautori della Haskalah, l’illuminismo ebraico), aveva però ricevuto anche un’educazione laica, apprendendo i rudimenti della grammatica ebraica e il russo10. All’età di dodici anni, nel fallimentare tentativo di accedere al Gymnasium, Mendel era stato inviato a Riga, presso Shaya Berlin – il prozio paterno che aveva adottato Ber, di qui la mutazione del cognome dall’originale Zuckerman –, un milionario commerciante di legname appartenente alla Prima Gilda, titolo che garantiva la cittadinanza russa trasmissibile ai propri discendenti e la libertà dalle restrizioni imposte agli ebrei, tra cui quella di risiedere nella Zona di residenza istituita dalla zarina Caterina II nel 179111. Nel momento in cui Mendel si apprestava a diventare il responsabile delle esportazioni dell’impresa12, intervenne la prima rivoluzione russa. Una sorella di Mendel, Evgenia, che aveva avuto un coinvolgimento marginale con i socialisti rivoluzionari nelle agitazioni del 1905 e rischiava l’arresto durante la severa repressione accompagnata da pogrom che interessò anche Riga13, riparò per qualche tempo a Varsavia14.
Nella Riga dell’epoca, avrebbe ricordato Isaiah, «in cima alla scala sociale stavano i baroni baltici» di origine tedesca e filozaristi, «dopo di loro venivano i ricchi mercanti tedeschi e scandinavi», seguivano gli «ebrei ricchi» germanofoni, poi «gli ebrei russi della classe media, che parlavano il russo, e subito dopo gli ebrei del ghetto»15, in ultimo i lettoni, in gran parte contadini16. Se Mendel si collocava a metà tra gli ebrei germanofoni e quelli russofoni, Marie, nata nel 1880, proveniva da quello che Isaiah, seguendo l’uso materno, chiamava ghetto: il sobborgo della Dvina Rossa, abitato dagli «ebrei poveri»17 e «parlanti yiddish, i cui figli parlavano russo»18, che lavoravano per altri ebrei19, come nel caso del padre di Marie, anch’egli impiegato presso la ditta di Shaya. Nelle memorie – scritte tra il 1971 e il 1972 –, Marie fornisce il quadro delle spesso conflittuali relazioni intercomunitarie righesi, che rafforzavano l’identità culturale di ciascuno. A emergere prepotentemente è soprattutto il diffuso e rabbioso antisemitismo, che Marie aveva sofferto tanto da «vegliare la notte e pensare come quell’odio potesse essere curato», manifestato in modo particolare dai concittadini di origine tedesca. La profonda ostilità dimostratale perfino dalla sorella di una sua cara amica si spiegava con la incapacità di «comprendere che nazion[i] come gli ebrei o gli arabi potessero essere scure e avere capelli neri, potessero avere il loro proprio modo di vivere, la loro propria religione»20.
L’ebraicità quindi da Marie era intesa in termini prevalentemente nazionali21, esposti in maniera più articolata dai membri della coeva corrente etnicista degli ebrei russi. Da questa convinzione discendeva quasi inevitabilmente una conclusione: «A quel tempo, molte decadi fa, divenni una devota sionista. Non ne feci menzione a mio padre o a [mia] madre, o ad alcuno dei miei amici. Ma nel mio cuore ero certa che avrei potuto avere qualche compensazione per le sofferenze dalla mia infanzia»22. L’«innato desiderio» di trasferirsi in Palestina fu accantonato per via delle responsabilità che sentiva nei confronti del fratello e delle sorelle23. Impossibilitata a trasferirsi a Pietroburgo per studiare da cantante lirica, Marie provvide alla propria educazione, imparando e parlando correntemente il russo e il tedesco, e occupando il tempo libero con la letteratura tedesca – Goethe e Heinrich Heine su tutti – e francese24. Rifiutati i numerosi pretendenti che il padre aveva sottoposto al suo giudizio e non potendo presentare ai propri genitori, «hassidim devoti»25, un goy (gentile) quale possibile marito, aveva finito per sposare Mendel nel marzo del 190626.
I coniugi Berlin si stabilirono a Moskauer Vorstadt, elegante quartiere della buona borghesia ebraica, al quarto piano del numero 2a di Albertstraße, un edificio in stile Art Nouveau la cui facciata, riccamente decorata con due grandi sfingi ai lati del portone d’ingresso, era stata disegnata da Mikhail Ejzenštein, padre del regista Sergej27. Isaiah nacque lì il 6 giugno 1909, dopo un parto complicato: l’utilizzo del forcipe aveva lacerato alcuni muscoli del braccio sinistro, causando una permanente disabilità. Il nome del bambino fu scelto in onore di Shaya – e Shaya fu pure il soprannome utilizzato per lui da parenti e amici – che, morto nell’estate del 1908, aveva lasciato a Mendel un’eredità di ventimila rubli che sarebbero stati impiegati nella nuova florida società di esportazione di legname28. Affidato alle cure di una balia tedesca, Isaiah fino all’età di tre anni parlò tedesco29, ma poi perse la dimestichezza con quella lingua30, venendo trasformato in russofono dalla istitutrice. Anche Mendel e Marie in casa parlavano russo, ricorrendo all’yiddish solo nella comunicazione con i genitori31, al punto che Isaiah non seppe mai parlarlo, pur comprendendone alcuni vocaboli32 (difatti se ne trova un uso raro nella corrispondenza), maturando piuttosto una perdurante insofferenza per la yiddishkeit e per il retaggio che, ai suoi occhi, essa rappresentava nel mondo ebraico.

I Berlin nella rivoluzione

Nel 1915, temendo che il crescente antisemitismo, alimentato dal sospetto che gli ebrei guardassero con favore all’avanzata delle truppe tedesche, portasse a credere vera l’accusa di avere incendiato il mulino affittato come deposito, per riscuotere i soldi dell’assicurazione, Mendel indirizzò la moglie e il figlio ad Andreapol’, un piccolo villaggio nella regione di Tver’ che apparteneva alla sua società, mentre tentava di far valere a Pietrogrado le richieste di risarcimento33. Nella mente di Isaiah, sebbene avesse allora sei anni e pur avendovi trascorso solo nove mesi, rimase scolpita l’immagine di Andreapol’, dove sembrava sopravvivere «davvero la vecchia Russia cechoviana»34. Lì ricevette in un heder la «prima istruzione religiosa formale», che coincise anche con la prima esperienza scolastica al di fuori della sfera familiare e dei precettori da essa assunti. Riporta Ignatieff che «da un vecchio rabbino [Berlin] aveva appreso le lettere dell’alfabeto ebraico. Anche il rabbino non fu mai dimenticato. Una volta si era interrotto e aveva detto: “Cari bambini, quando sarete più grandi capirete che in ognuna di queste lettere sono racchiusi il sangue e le lacrime degli ebrei”». Nel raccontare l’episodio Isaiah, dopo un momento di commozione, aveva aggiunto: «Questa è la storia degli ebrei»35. Pure in seguito, in lui il sentimento dell’ebraicità – «così profonda, così innata» da rendere ozioso il tentativo di analizzarla36 – era rimasto legato all’«istintivo senso delle proprie radici», della «comune sofferenza», al «senso di fratellanza» dei propri «antenati, i poveri ma istruiti e socialmente coesi ebrei dell’Europa orientale»37. Anche la dedizione alla religione ebraica sarebbe stata declinata in un’ottica culturale prossima a quella degli esponenti dell’etnicismo secolare ebraico come Ahad Ha’am, l’ideologo del sionismo culturale al quale si sarebbe richiamato più volte. «Sordo al tono religioso»38, Isaiah avrebbe motivato la propria presenza in sinagoga in occasione delle maggiori festività proprio con la volontà di «identificar[si] con la tradizione» degli antenati che avrebbe voluto «vedere continua...

Indice dei contenuti

  1. Isaiah Berlin
  2. Colophon
  3. Introduzione
  4. Parte 1 Dal Baltico a Israele
  5. Parte 2 La “scoperta” del nazionalismo
  6. Parte 3 Un liberale negli anni della decolonizzazione
  7. Parte 4 Nazionalismo e cosmopolitismo
  8. Conclusioni
  9. Riferimenti bibliografici
  10. Indice