1. Scoprire i beni relazionali lineamenti di una teoria generale
1. ALLA SCOPERTA DI “ALTRI” BENI CHE SOSTANZIANO LA VITA BUONA
Il concetto di bene relazionale, in quanto fenomeno sociale presente nella nostra società, è stato proposto contemporaneamente e in modo indipendente da Carole Uhlaner (1989) e Pierpaolo Donati (1989). È ben vero che molti lo attribuiscono alle riflessioni di Martha Nussbaum (1986) sul pensiero di Aristotele, e in specifico per quanto riguarda la trattazione dell’amore e dell’amicizia1. Dovremmo dunque dire che il concetto risale ad Aristotele? Io ritengo di no, a causa della concezione premoderna che Aristotele aveva della relazione. Spiegherò più oltre perché la nozione morale di “beni di relazione” utilizzata da Nussbaum sia una nozione limitata che non coglie la ricchezza e la novità dei beni relazionali come qui intesi.
Parto dunque dalle definizioni di bene relazionale che ne hanno dato Uhlaner e Donati. Questi autori hanno utilizzato due approcci completamente differenti. Uhlaner lo ha proposto sulla base del paradigma della scelta razionale, ampliandolo in modo da tenere conto delle componenti espressive del comportamento umano, con riferimento ai movimenti sociali e politici (Uhlaner 2014). Donati, invece, ha elaborato il concetto di bene relazionale sulla base del suo paradigma di sociologia relazionale (Donati 1991, pp. 150-171). Ne vedremo i dettagli.
Negli anni successivi, una serie di autori ha ripreso il concetto di bene relazionale. Alcuni hanno seguito l’approccio di Uhlaner arricchendo la prospettiva della scelta razionale con vari elementi psicologici (Gui 1996; Gui & Sugden 2005), strategici (Sacco & Vanin 2000; Sacco & Zamagni 2006). Altri hanno seguito l’approccio della sociologia relazionale (Folgheraiter 2004; Colozzi 2005, 2006; Ruggieri 2016). Una versione fortemente ispirata da motivi religiosi ha definito i beni relazionali in termini di fraternità umana e comunione (Bruni 1999, 2005). Una definizione che sintetizza le versioni a sfondo psicologico, rilevanti in economia, è quella di Becchetti, Pelloni & Rossetti (2008), secondo la quale i beni relazionali sono «il lato affettivo/espressivo, non strumentale, delle relazioni interpersonali».
Questo modo di intendere i beni relazionali è senza dubbio il più diffuso fra gli economisti, i quali sottolineano il valore dei beni relazionali come “correttivo” (civilizzatore) dell’economia capitalista. Antonio Magliulo (2010) sostiene che, sotto tale profilo, i beni relazionali erano già stati teorizzati dalla scuola austriaca (principalmente Carl Menger e Eugen von Böhm-Bawerk), con rilevanti influssi su importanti economisti britannici. Egli osserva che nelle moderne società benestanti, la correlazione tradizionalmente positiva fra reddito e felicità (happiness) sembra essere scomparsa: in breve, anche se il reddito di queste società continua a crescere, la gente dice che non è più felice. Questo problema, che in letteratura è noto come il paradosso della felicità (paradox of happiness), è stato studiato a fondo. Una delle possibili spiegazioni si basa sull’osservazione che un aumento del reddito può talvolta comportare la distruzione di quei beni relazionali su cui si basa in gran parte la felicità: i rapporti di famiglia, amicizia, amore e fratellanza. L’economia moderna non può spiegare il paradosso della felicità perché prende in considerazione solo le relazioni umane strumentali, che sono quindi considerate un modo per ottenere beni adatti alla soddisfazione dei bisogni. Per il mainstream economico, il bene è l’oggetto di una relazione, non la relazione stessa. La Scuola austrica, egli afferma, sostiene invece che la felicità si basa in gran parte sulle relazioni non strumentali, pure o genuine, chiamate “beni relazionali”. Quindi, il bene è la relazione stessa, per esempio, la relazione tra genitori e figli, amici, membri di un’associazione o di una società. L’economia moderna o marginalista non riconosce la natura economica delle relazioni non strumentali, evitando così di indagare sulla felicità e spiegare i suoi paradossi.
Benché il concetto di beni relazionali sia diventato molto popolare fra gli economisti, è comunque un fatto che, nel corso degli anni, il concetto di bene relazionale è entrato negli interessi di varie discipline, da quelle che si interessano dello sviluppo delle comunità locali (Brunetta & Tronti 2006) alla filosofia morale (Krienke 2018), fino a diventare sinonimo di “incontri di valore” fra persone (Paglione 2018). Questa vasta letteratura ha reso sempre più polivalente e multidimensionale questo concetto.
Nel presente contributo vorrei riprendere il dibattito sui beni relazionali per mettere a fuoco il loro statuto ontologico. Per statuto ontologico del bene relazionale intendo ciò che caratterizza la realtà propria di questa entità nelle sue strutture e dinamiche oggettive. A mio modo di vedere, infatti, molti dei contributi di ricerca sui beni relazionali, specie quelli offerti da economisti e psicologi, non rendono conto della natura propriamente relazionale del bene di cui si parla, perché riconducono il bene a certe qualità e proprietà causali dell’agire individuale (come l’affetto e l’empatia personale), oppure anche a fattori collettivi (come ad esempio la cultura civica), anziché vederlo come effetto che emerge dalle qualità e dalle proprietà causali delle azioni reciproche tra soggetti che agiscono con una certa riflessività (relazionale) all’interno di un contesto socio-culturale che favorisce l’operare di specifici meccanismi generativi (Donati 2015).
Adottare un’ottica propriamente relazionale che attribuisce alle relazioni una struttura, per quanto dinamica e processuale, con poteri causali propri (diversamente dalle sociologie “relazionaliste”, che, come poi chiarirò, negano queste proprietà) è decisivo sia per distinguere i beni relazionali da altri che relazionali non sono, sia per comprendere il senso più profondo di ciò che chiamiamo “vita buona” e una “buona società”.
La difficoltà dell’impresa è aumentata dal fatto che il concetto di bene relazionale utilizza due termini, “bene” e “relazione”, che rimandano entrambi a delle realtà multidimensionali, altamente polimorfe e ambivalenti.
Infatti, il termine “bene” può essere riferito ad una entità che ha una consistenza materiale (come i beni di consumo, beni mobili e immobili), oppure a entità psicologiche (come lo “stare bene”, il senso di ben-essere), oppure ad entità spirituali o morali (come nella frase “è bene essere altruisti”), oppure ancora a entità sociali (beni sociali, come la solidarietà e l’inclusione sociale). Come vedremo, gli autori enfatizzano spesso una di queste dimensioni. Per esempio, Nussbaum usa il concetto di bene in senso puramente morale (come espressione di virtù umane), gli economisti le attribuiscono un valore psicologico-morale soggettivo rilevante per le relazioni interpersonali e le transazioni economiche, mentre la mia sociologia relazionale, senza negare queste dimensioni, conferisce al concetto di bene una realtà sociale oggettiva e concreta, correlata alla disposizione morale soggettivamente intesa delle persone umane.
Il termine “relazione” è anch’esso definito e trattato in molti e diversi modi. Innanzitutto, dire “relazione” può riferirsi sia ad un processo (Luca sta facendo amicizia con Maria), sia ad una struttura stabilizzata (Luca è sposato con Maria). Ma soprattutto il concetto risulta assai problematico in sé stesso, come si constata nell’attuale confronto internazionale fra le sociologie chiamate “relazionali” e altre chiamate “relazionaliste”, che differiscono in modo sostanziale nel definire le relazioni sociali.
Come poi verrà chiarito nel testo, le sociologie propriamente relazionali sono basate sul realismo critico, cioè attribuiscono una realtà propria alle relazioni sociali, di cui sottolineano la criticità; adottano un’ontologia sociale stratificata (ossia le relazioni si collocano a diversi strati o layer di realtà) e considerano le relazioni sociali come effetti emergenti (cioè aventi proprie qualità e poteri causali, che non sono la somma, ma il prodotto degli elementi che compongono le relazioni); queste sociologie seguono i principi dei mondi della vita e usano una conoscenza di tipo analitico e analogico.
Le sociologie relazionaliste, invece, si basano sul pragmatismo, descrivono le relazioni sociali in termini dinamici, continui e processuali, adottano un’ontologia piatta (le relazioni sono tutte a un solo livello di realtà) e intendono l’emergenza delle relazioni come un prodotto di transazioni; all’interno di queste correnti, molti intendono la relazione come realtà artificiale e usano una conoscenza di tipo virtuale (si veda ad esempio la Actor-Network Theory). Tutte queste varie correnti sono rappresentate nel Palgrave Handbook of Relational Sociology a cura di Dépelteau (2018).
Nonostante le divergenze fra i vari approcci, esiste un crescente consenso sulla rilevanza sociale, economica e politica dei beni relazionali. La rilevanza sta nel fatto che i beni relazionali sono prodotti da reti sociali che, operando sulla base di principi di reciprocità e di procedure cooperative di tipo associativo, creano attività che hanno un valore economico non assimilabile a quello capitalistico e inoltre possono incidere sulle modalità di intendere e praticare la democrazia politica.
Il bene relazionale riguarda primariamente le persone, che, nelle relazioni interpersonali, creano beni relazionali “primari”. Ma i beni relazionali possono essere creati anche da un ampio numero di persone che hanno fra di loro relazioni mediate da una organizzazione, ossia condividono una appartenenza associativa, e per questo sono detti beni relazionali “secondari”. Pensiamo, ad esempio, a piccole associazioni di famiglie che, costituiscono una rete di secondo livello per finalità di mutualità reciproca o di volontariato fra le singole associazioni locali, oppure ancora pensiamo a reti di cooperative sociali che creano un tessuto di forte coesione e solidarietà sociale in una certa area territoriale. Questi ultimi sono chiamati “beni relazionali secondari” non perché siano meno importanti, ma per...