Il segreto del potere
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Il segreto del potere

Alla ricerca di un'ontologia del «politico»

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Il segreto del potere

Alla ricerca di un'ontologia del «politico»

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Il realismo politico ha sempre coltivato l'ambizione di penetrare il segreto più oscuro del potere. La realtà cui allude spesso polemicamente il realismo politico è infatti la cruda realtà del potere e del conflitto: una realtà che soggiace a implacabili «regolarità » e che scaturisce dai caratteri immutabili della «natura umana». Questo volume cerca però di mostrare come ogni progetto che si ispira al realismo politico si trovi lacerato da un paradosso strutturale. Da un lato, il realismo ambisce infatti a far discendere la propria comprensione delle «regolarità» della politica da una conoscenza 'realistica' della «natura umana», intesa come paradigma invariante. Dall'altro, è invece consapevole della pervasività del «politico»: si trova perciò a sospettare che tutti i concetti politici siano concetti polemici e che le logiche del potere plasmino anche il modo di concepire la «natura umana». Ma il mancato riconoscimento della tensione fra natura e cultura rischia di occultare ciò che davvero contrassegna il «politico». E solo assumendo come punto di partenza il paradosso in cui si trova costretto il realismo, diventa invece possibile tornare a interrogarsi sull'ontologia del «politico» e sui più remoti «segreti del potere».

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Informazioni

1. Il realismo politico e la «natura umana»
Il «problema terminale» nello studio delle regolarità della politica

La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi.
F. DE ROBERTO, I viceré

1. LE INSIDIE DELLA REALTÀ

Nel ritratto di Consalvo Uzeda di Francalanza, dipinto da Federico De Roberto nelle ultime pagine dei Viceré, è quasi inevitabile ravvisare alcuni dei più deteriori tratti spesso attribuiti al carattere nazionale italiano1. Per l’abilità camaleontica di adattarsi a ogni mutamento politico, per l’esaltazione di un machiavellismo capace di utilizzare ogni legge e ogni istituzione per bieche finalità egoistiche, è infatti davvero forte la tentazione di riconoscere nell’ultimo discendente dei Viceré siciliani il progenitore letterario dell’ambizioso nipote del Principe di Salina, secondo il quale «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»2, o persino il paradigma di quella tara politica che negli anni Cinquanta Edward C. Banfield definì «familismo amorale»3. A ben vedere, nella sagoma di Consalvo non è però neppure difficile ritrovare almeno alcune delle componenti che stanno al cuore della tradizione teorica del realismo politico, ossia di quella visione della politica che – contro ogni idealismo e contro ogni moralismo – tende a ricondurre le dinamiche politiche (e le relazioni umane) alle grandi costanti della ricerca del potere e della sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Nel celebre monologo conclusivo dei Viceré, nel quale Consalvo espone la propria visione della storia, affiorano infatti molti dei motivi cruciali che contrassegnano il realismo politico, principalmente perché il vero pilastro della cinica Weltanschauung dell’ultimo degli Uzeda è rappresentato dalla convinzione che la supremazia dei forti sui deboli sia un dato inalterabile, e che si tratti dunque di una “legge” che nessuna riforma potrebbe anche solo minimamente scalfire. «Ammessa pure la possibilità d’abolire con un tratto di penna tutte le disuguaglianze sociali», infatti, quelle medesime diseguaglianze «si sarebbero di nuovo formate il domani, essendo gli uomini naturalmente diversi, e il furbo dovendo sempre, in ogni tempo, sotto qualsiasi regime, mettere in mezzo il semplice, e l’audace prevenire il timido, e il forte soggiogare il debole»4. Dalla prospettiva del rampollo degli Uzeda viene così ovviamente esclusa ogni ipotesi che un’azione comune possa contribuire ad aumentare il benessere collettivo, semplicemente perché gli assunti sono che ciascun individuo tenda invariabilmente a perseguire con l’inganno e la dissimulazione il proprio «tornaconto materiale o morale, immediato o avvenire», e che dunque, dietro qualsiasi solenne proclamazione di nobili ideali, si nascondano invariabilmente la malafede, l’inganno, il desiderio di sopraffazione5. Ma, soprattutto, dalla filosofia dell’ultimo discendente dei Viceré è espunta in termini persino programmatici ogni possibilità di reale trasformazione sociale e politica. Proprio perché «gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi», agli occhi di Consalvo la storia non può infatti apparire altro che una lunga, interminabile, «monotona ripetizione»6.
Naturalmente il cinismo di Consalvo era solo una caricatura del realismo politico, l’esasperazione di «un realismo compiaciuto, che ostenta la propria dimestichezza con le faccende del mondo e la propria capacità di padroneggiare il gioco pericoloso della contingenza»7. Eppure, a dispetto delle forzature, quella stilizzata filosofia veniva proprio a restituire in modo fedele molti degli elementi che contrassegnano il realismo politico nella sua lunga e tutt’altro che lineare vicenda, e in particolare riproponeva – in termini quasi paradigmatici – l’idea che la natura umana sia immutabile, e che proprio per questo la storia umana sia sempre solo «una monotona ripetizione», destinata a replicare le medesime eterne regolarità8. Secondo una griglia definitoria proposta da Alessandro Campi, la tradizione del realismo politico – quantomeno nella sua declinazione europea – è contraddistinta infatti da un’unitarietà di approccio riconducibile ad alcuni punti cruciali: la «rigida separazione tra giudizio morale ed analisi scientifica», la concezione della politica «come sfera autonoma, originaria ed insopprimibile dell’agire umano», l’analisi dei fenomeni politici «condotta attraverso categorie specificamente politiche, non dedotte da altre attività», la «ricerca delle leggi di costanza (o regolarità) che strutturano l’agire politico in quanto tale», la «preminenza dell’approccio diacronico su quello sincronico», e infine «l’assunzione della natura umana come paradigma invariante, alla luce del quale analizzare – quantomeno nella loro configurazione più elementare ovvero primaria – gli atti ed i comportamenti politici»9. E, sebbene tutti questi elementi siano fondamentali, è evidente come tutto l’impianto del realismo si poggi proprio sull’ultimo punto, ossia sull’idea che la natura umana sia davvero un paradigma invariante, e che in virtù di questa invarianza i singoli esseri umani – in ogni luogo e in ogni tempo – siano indotti a perseguire i medesimi obiettivi. La realtà cui allude spesso polemicamente il realismo politico non equivale infatti semplicemente a una resa dinanzi all’esistente, e non soltanto perché molti realisti – a dispetto della fama di conservatorismo – non sono affatto ripiegati sul mantenimento dello status quo. La realtà cui essi si riferiscono è piuttosto la cruda realtà della forza e del potere, una realtà che soggiace a regolarità, e la cui portata – in termini evocativi ed esplicativi – riposa sulla convinzione che quelle tendenze costanti affondino le radici nei caratteri immutabili della natura umana. Ciò nondimeno, se la forza del realismo si poggia su una specifica visione dell’essere umano, è proprio attorno a questo punto che si annidano una serie di insidie. Probabilmente, ogni volta che ci si volge alla precisazione di quali siano effettivamente le componenti immutabili della natura umana, viene ad affiorare infatti uno di quei «problemi terminali» che, come osservava Emanuele Sella, si collocano al confine di ogni disciplina scientifica10: un problema che per il progetto realista di decifrazione delle regolarità della politica risulta davvero terminale, e che richiede quantomeno di essere considerato con la dovuta cautela.

2. LA «NATURA UMANA»

Sebbene le declinazioni del realismo politico siano per molti versi tanto numerose quanti sono i pensatori arruolati sotto le bandiere di questo magmatico filone di pensiero, è comunque quasi strabiliante riconoscere la continuità che si riscontra tra autori tanto lontani a proposito della raffigurazione della natura umana. E dunque, sfogliando le pagine dei classici, non è affatto difficile imbattersi in formule che ci ricordano ogni volta come la politica possa essere compresa solo riconoscendo il peso di quei caratteri immutabili che accomunano tutti gli esseri umani e che dunque guidano la vita di ogni società e di ogni sistema politico, a dispetto persino delle prescrizioni morali e religiose o di quanto stabiliscono le leggi. Molto prima di Consalvo Uzeda, nel primo libro della Repubblica di Platone, Trasimaco ci avverte che «il giusto è l’utile del potere costituito», e dunque che il giusto non è altro che «l’utile del più forte»11, mentre Callicle nel Giorgia – dopo aver sostenuto che le leggi sono solo gli strumenti con cui i deboli puntano a difendersi dai forti – afferma che è la «natura» stessa, «sia nelle altre specie animali, sia in tutte le città e le stirpi umane», a dimostrare il principio secondo cui «è giusto che chi è migliore abbia più di chi è peggiore, e chi è più capace abbia più di chi è meno capace», e dunque «che il più forte comandi sul più debole ed abbia più di lui»12. E una simile visione ritorna naturalmente nelle Storie di Tucicide, il testo che può essere a buon diritto considerato come la vera pietra di fondazione del realismo politico occidentale, oltre che come il paradigma di uno studio “realistico” delle relazioni internazionali13. Nel celebre discorso degli ambasciatori ateniesi a Melo, Tucidide non si limita infatti ad attribuire agli emissari della potenza in guerra con Sparta la più classica esplicitazione della regolarità per cui «chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede»14, ma tiene anche a sottolineare come quella regolarità sia il riflesso di una legge di natura valida per l’eternità: una legge di cui gli esseri umani possono servirsi, ma che non possono in alcun modo puntare a modificare15. Inoltre, dipingendo con fosche pennellate la sagoma di una natura umana ingorda, insaziabile, talvolta persino ferina, lo storico greco fissa gli elementi cardinali di quel pessimismo antropologico cui attingeranno in seguito tutti i realisti. Nella descrizione degli orrori della guerra civile di Corcira, Tucidide rileva per esempio che l’irruzione della violenza determina lo sconvolgimento nel modo di vivere e nell’ordine interno. In quell’occasione, osserva dunque in un passaggio famoso, «la natura umana, solita a commettere ingiustizie anche contro le leggi, ebbe il sopravvento su di esse e volentieri si mostrò incapace di dominare i propri sentimenti, più forte della giustizia e nemica di chiunque fosse superiore»16. E, infine, non esita a segnalare come si tratti di sciagure tutt’altro che eccezionali o irripetibili, dal momento «che avvengono e sempre avverranno sinché la natura umana sarà la stessa»17.
L’antropologia di Tucidide e il suo riferimento alla natura umana si inscrivono all’interno di una visione in cui la relazione tra physis e nomos, oltre a configurarsi sempre nei termini di un rapporto conflittuale, è destinata a risolversi invariabilmente a favore del primo dei due poli18. Ma la sinistra raffigurazione della natura umana che affiora dalle Storie non è certo indissolubilmente legata al relativismo etico che contrassegna la riflessione dei sofisti, perché in seguito viene accolta e valorizzata anche all’interno di costellazioni dottrinarie del tutto differenti, come accade per esempio nel «realismo cristiano» di Sant’Agostino, nell’antropologia di Machiavelli e nella filosofia di Hobbes. Per Agostino la natura umana non riflette ovviamente l’ordine immutabile della physis, ma è piuttosto la conseguenza del peccato originale, perché è proprio nel momento in cui Adamo ed Eva si ribellano a Dio che essi smarriscono la capacità di controllare interamente il corpo e la psiche. L’esperienza umana appare lacerata da un dissidio insolubile tra un corpo spirituale e un corpo animale, proprio a causa della frattura intervenuta nella volontà con il peccato originale (e dunque a causa della scissione tra atti volontari e involontari che ne è seguita)19, e per questo il governo deve configurarsi come coercizione, come un dominio tanto indispensabile quanto incapace di sradicare il peccato originale20. Nelle pagine di Machiavelli, il pessimismo antropologico viene invece a poggiare su fondamenta teoriche notevolmente distanti da quelle di Agostino (e anche da quelle di Tucidide), ma ciò nonostante il quadro della natura umana – e di cosa dunque siano gli esseri umani nella “realtà” dei loro comportamenti politici – rimane sostanzialmente congruente con quello definito dai predecessori. Al segretario fiorentino – come si legge nel celebre capitolo XVII del Principe – gli uomini appaiono infatti «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno», tanto che, «mentre fai loro bene, sono tutti tua, òfferonti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli […], quando il bisogno è discosto», ma «quando ti si appressa, e’ sì rivoltano»21. L’avarizia, l’ambizione, l’invidia sono in altre parole tratti che contrassegnano in modo indelebile la natura umana, e, nonostante non si risolva in una cinica esaltazione della forza e della dissimulazione, il pessimismo antropologico appare davvero come uno dei fondamenti – e probabilmente la componente principale – della visione di Machiavelli, prima ancora che le disavventure politiche intervengano a colorarne la riflessione dei toni ancora più cupi della rassegnazione e del risentimento22. La mente umana emerge d’altronde inconfondibilmente dalle sue pagine come «insaziabil, altera, / sub...

Indice dei contenuti

  1. Il segreto del potere
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Introduzione
  5. 1. Il realismo politico e la «natura umana» Il «problema terminale» nello studio delle regolarità della politica
  6. 2. Il sovrano senza qualità Il “politico”, la decisione, il soggetto
  7. 3. La legge del padre Alla ricerca del realismo politico di Sigmund Freud
  8. 4. Arcana imperii La ricerca sul “politico” di Gianfranco Miglio
  9. 5. Il dominio dell’uomo sull’uomo Appunti per un’ontologia del “politico”