Leggendo Shakespeare
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A Chesterton Shakespeare piaceva da matti: ne traeva insegnamento per la sua vita interiore e al tempo stesso autentico piacere e godimento, non solo per gli straordinari concetti da lui espressi, per la profondità dei suoi drammi, per la complessità delle psicologie dei personaggi, ma anche per l'originalità di talune immagini visive, per la creatività nell'uso del linguaggio, per il semplice suono di certi suoi versi, per la straordinaria capacità di raccontare l'uomo all'uomo senza infingimenti. Nel presente volume sono raccolti – grazie a Valentina Vetri, docente di Cultura e Civiltà inglese presso l'Università CIELS di Bologna – proprio gli scritti in cui Chesterton spiega e interpreta meglio alcune delle opere di Shakespeare più note, in modo che siano perfettamente comprensibili a tutti, dandone letture tanto semplici quanto originali e profonde, che ci spingeranno con rinnovato gusto sulle pagine del "grande Bardo".

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788849853636

Capitolo 1
Entra Shakespeare

Shakespeare è così grande da nascondere l’Inghilterra
CHE SHAKESPEARE SIA IL GIGANTE INGLESE, che non vi sia quasi nessuno alla sua altezza fra tutti i figli dell’uomo, è una verità che non dà cenni di volersi affievolire col passare degli anni; è però una verità con due facce, uno scudo a due lati, una spada a doppia lama. È proprio perché è un tale gigante, che la storia inglese ne esce quasi oscurata in prospettiva: egli è di grandezza sproporzionata per la sua epoca quanto per le altre, ma finisce col gettare una luce che disorienta sulla sua epoca e un’ombra su tutte le altre.
Per questa ragione in molti non mi comprenderanno quando parlo dell’ampiezza d’eco che il Poeta medievale [cioè Chaucer] origina e spande intorno a sé; a ogni modo, se dovessimo metterci a far paragoni, potrei spiegarmi meglio servendomi di un altro grande poeta medievale. È fatto dato quasi per certo, seppur implicitamente, che Shakespeare fosse sempre allegro e Dante sempre cupo, ma – da un punto di vista filosofico – è vero il contrario: la cosa diviene evidente se utilizziamo Dante per mettere alla prova Shakespeare.
Non sentiamo forse nei nostri cuori che Shakespeare avrebbe potuto competere con Dante nella scrittura dell’Inferno, ma difficilmente in quella del Paradiso? Ammettendo che sia possibile produrre un’opera di maggior grandezza di una già grandiosa, l’uomo che ha scritto Romeo e Giulietta avrebbe potuto trasformare la vicenda di Paolo e Francesca in qualcosa di ancor più struggente. L’uomo che scrisse quella terribile, disperata frase «Egli non ha figli» – dopo il massacro nella casa di McDuff – avrebbe potuto scegliere parole ancor più strazianti e significative per raccontare l’urlo di disperazione del conte Ugolino. E in verità la Torre della Fame non ha vastità di eco; quando però Dante racconta della danza delle virtù finalmente libere nelle altezze sconfinate dei cieli, ecco che sentiamo quell’eco di vastità. La sentiamo quando parla della Libertà; la sentiamo quando parla dell’eterno Amore; la sentiamo in quelle famose parole sull’Amore «che move il sole e l’altre stelle»; quell’eco è presente anche in un altro passaggio – meno conosciuto e più sublime – nel quale egli loda Dio nella sua magnanimità per aver dato allo spirito dell’uomo l’unico dono che sia degno di essere considerato tale: la Libertà. Solo uno sciocco può sostenere che Shakespeare sia stato un pessimista; ma potremmo dire, e solo limitatamente a questo aspetto, che vi era in lui qualcosa di pagano: nel fatto che raggiunge il massimo della sua grandezza quando descrive gli spiriti di grandi uomini in catene. In questo senso, i suoi drammi più seri sono un Inferno, o, comunque, non sono un Paradiso.
*
I più grandi poeti del mondo possiedono una certa serenità, perché non si son dati la pena di inventare qualche nuova e piccola teoria filosofica, ma ne hanno ereditata una maggiore. Nove volte su dieci è una filosofia che uomini di grande levatura condividono con gli uomini comuni, e di conseguenza non è una teoria che attragga l’attenzione, perché non ha l’aspetto di una «teoria». In questi giorni, in cui il signor Bernard Shaw sta gradualmente assurgendo – fra il plauso generale – a Gran Maestro della letteratura inglese, è forse scortese che io ricordi una sua affermazione di qualche tempo fa, in cui sosteneva che non vi fosse nessuno – forse con l’eccezione di Omero – la cui intelligenza egli disprezzasse di più di quella di Shakespeare. Da allora il signor Shaw ha detto abbastanza cose sensate da controbilanciare l’enorme stupidità di questa, ma la cito solo perché rappresenta esattamente il modo di pensare del Diciannovesimo secolo. È assai probabile che Shaw non abbia mai letto Omero, e considerando alcuni dei suoi scritti critici su Shakespeare viene il sospetto che non abbia mai letto neanche Shakespeare, ma a ogni buon conto il punto è che Shaw non sapeva vedere, in tutta sincerità, quello che il resto del mondo vedeva in Shakespeare, perché quello che il mondo vedeva non era quello che Shaw andava cercando.
Shaw cercava quella cosa oscena che i non conformisti1 chiamano «messaggio», e che continuano a chiamare messaggio anche quando sono diventati atei e di conseguenza non sanno da chi provenga questo messaggio.
Cercava un sistema, uno di quei meschini sistemi di cui ormai abbiamo avuto abbastanza. Il sistema di Kant, il sistema di Hegel, il sistema come era per Schopenhauer e Nietzsche e Marx e tutti gli altri.
In ognuno dei casi che ho citato, un uomo s’era levato dalla massa, convinto di aver avuto un pensiero che nessun altro aveva avuto prima di lui. Ma il poeta, se è grande, dichiara di esprimere solo il pensiero che tutti hanno sempre avuto. La grandezza di Omero non sta nel provare, con la morte di Ettore, che la Volontà di Vivere è illusione e inganno; e nemmeno nel provare, con la vittoria di Achille, che la Volontà di Potere debba esprimersi in un Superuomo, perché Achille non è affatto un Superuomo ma, al contrario, un eroe. La grandezza di Omero sta nel fatto che sapeva far sentire agli uomini quello che erano quasi pronti a pensare, e cioè che la vita è uno strano mistero in cui un eroe può vagare per il mondo e un altro fallire. Il poeta fa comprendere agli uomini quanto grandi siano le grandi emozioni che loro stessi, nel loro piccolo, hanno già sperimentato.
Qualsiasi uomo che abbia cercato di tener in piedi qualcosa, che si tratti di un piccolo club o di un giornale o anche di una manifestazione politica di protesta, sente risuonare le profondità della sua anima all’udire quella famosa frase, la cui efficacia è indebolita dalla traduzione: «Davvero nel mio cuore e nell’anima so che Troia cadrà». Qualsiasi uomo che si guardi indietro, rivolgendosi ai tempi passati, pensando a se stesso e agli altri, e si accorga dei cambiamenti che vessano quel qualcosa dentro ognuno di noi che non può soffrire il cambiamento, comprende allora meglio l’immensità del senso di sé ascoltando il suono di quelle parole in greco che significano: «Perché anche tu, vecchio mio, un tempo sei stato felice».
Queste parole sono poesia, e per questo non hanno bisogno di spiegazione: ma forse esistono persone per cui persino le parole di Shakespeare debbono essere tradotte. In ogni caso, quel che si impara da Romeo e Giulietta è di non chiamare il primo amore infatuazione, e non chiamare nemmeno l’amore passeggero capriccio, ma capire che queste cose che milioni di uomini volgari hanno involgarito non sono volgari affatto.
Il grande poeta esiste per mostrare all’uomo comune quanto sia grande. Da Amleto non si impara la psicanalisi o come si curino in maniera appropriata i malati di mente, si impara invece a non disprezzare l’anima di nessuno come fosse piccola cosa, anche quando critici piuttosto femminei dicono che la volontà è debole2. Come se la volontà potesse mai essere forte abbastanza per affrontare i compiti che la sfidano in questo mondo! Solo il grande poeta è forte a sufficienza da saper stimare quella potenza in frantumi che chiamiamo debolezza dell’uomo.
È stato solo fino a poco tempo fa, in un recente e agitato periodo di transizione, che si è creduto che ogni scrittore dovesse per forza elaborare una nuova teoria onnicomprensiva, o disegnare una nuova mappa del mondo. Agli scrittori di un tempo bastava scrivere del mondo di un tempo, ma raccontandolo con una ricchezza immaginativa e una freschezza tali da farlo sembrare un mondo nuovo. Prima dell’epoca di Shakespeare gli uomini si erano abituati all’astronomia tolemaica, e quelli venuti dopo Shakespeare si abituarono all’astronomia copernicana. Ma i poeti non si sono mai abituati alle stelle, e il loro compito è impedire che gli altri vi si abituino. E ogni uomo che legga per la prima volta «si sono consumate le candele della notte»3, trattiene il fiato e quasi si maledice per non aver guardato prima e con maggior attenzione, o più spesso, alla magnifica e misteriosa alternanza di notte e giorno.
Le teorie presto diventano stantie, ma le cose rimangono fresche. E, secondo l’antica idea della funzione del poeta, egli si occupa esclusivamente delle cose: delle lacrime delle cose, come nel doloroso racconto di Virgilio; della gioia nascosta nelle tante cose, come nella rima leggera e allegra di Stevenson; della gratitudine per le cose come nel Cantico del sole di Francesco o nel Benedicite, omnia opera. Che dietro a queste cose vi siano certe innegabili verità è cosa certa; e tutti gli infelici che non credono in queste verità possono certo contentarsi di chiamarle «teorie». I poeti di allora, però, non pensavano di dover competere l’uno con l’altro o sfidarsi nella produzione di teorie opposte. L’arrivo della concezione cosmica cristiana fece grande differenza, e il poeta cristiano scoprì una speranza più fulgida rispetto al poeta pagano. E, persino nella maggiore austerità, era sempre meno triste.
Ma, tenendo conto di quel cambiamento che era ben più che umano, i poeti rimasero fedeli alla tradizione di una volta, senza vergognarsene affatto. Ognuno insegnava a modo suo, «con una piccola e continua originalità», come diceva Aristotele, ma non erano una frotta di eccentrici separati l’uno dall’altro alla ricerca di mondi diversi. Non c’era uno che offrisse un paio di lenti da vista colorate per far sembrare l’erba blu, o un altro che si mettesse a dare lezioni di ottica e prospettiva per dimostrare alla gente che l’erba era arancione, ma tutti avevano il compito – assai più difficile ed eroico – di far sentire alla gente che l’erba è verde. Ed è proprio perché loro hanno continuato ad assumersi questo compito eroico che il mondo, trascorse le epoche di dubbio e di disperazione, si rinnova e diventa sempre più verde.
La vicenda della vita e della morte di Riccardo II è probabilmente lo specchio della tragedia della storia inglese, e di certo è la tragedia della monarchia inglese. Questo aspetto è stato poche volte messo in chiara luce, principalmente a causa di due pregiudizi che impediscono agli uomini di riflettervi sopra in modo disinteressato e diretto. Il primo pregiudizio deriva dal fatto che, nonostante i fatti risalgano a più di cinquecento anni fa, sembra che non sia possibile non farne una questione di posizioni politiche: Shakespeare, al tempo dei Tudor, usò la storia di Riccardo per esaltare una sorta di diritto divino della monarchia, mentre gli scrittori successivi, ai tempi di tutti i re Giorgio, se ne servirono per sminuirlo. La cosa curiosa è che nessuno ha mai notato che il povero Riccardo non aveva mai neanche lontanamente sostenuto il concetto di diritto divino, e nei primi anni del suo regno sosteneva al contrario quei diritti che per noi molto tempo dopo sono diventati la normalità, e che potremmo chiamare – certo, relativamente – i diritti della democrazia.
L’origine di questa cecità sta nel secondo pregiudizio, cui accennavo prima. È un pregiudizio straordinario, a volte identificato con il concetto di progresso, e cioè la percezione che il mondo con il passare dei secoli diventi sempre più liberale e di conseguenza che non sia possibile la sussistenza di ideali diffusissimi in un tempo antico e successivamente dimenticati. Il caso di Riccardo II potrebbe essere usato per distruggere proprio questa errata convinzione.
Intendiamoci, egli era un re ben lontano dalla perfezione, prese iniziative che permettono di certo ai parlamentaristi moderni di dipingerlo come un despota, ma se lo paragoniamo con molti dei suoi contemporanei e con la maggior parte dei suoi successori, fu un governante democratico. Di certo tentò d’aiutare la corrente più democratica del tempo e di certo gli fu impedito di continuare a farlo. Shakespeare ha per lui sincera simpatia, ma Shakespeare non aveva in simpatia quello che al giorno d’oggi la gente troverebbe degno di simpatia. Non menziona nemmeno il fatto che il principe, che egli rappresenta mentre si dispera per l’insulto arrecato alla sua corona e si appella alla sacra immunità del suo crisma, aveva in gioventù affrontato una marmaglia di schiavi ribelli e chiassosi, offrendosi d’essere il loro capo, il vero demagogo della nuova democrazia, e aveva promesso loro d’ascoltare ed esaudire le loro richieste; aveva poi lottato disperatamente con i nobili per far sì che quelle richieste venissero accolte, e infine era stato messo in minoranza e costretto ad abbandonare la causa popolare proprio da quei baroni insolenti che presto gli avrebbero imposto di abbandonare anche il trono.
Se ci domandiamo perché il grande drammaturgo fosse cieco davanti alla vicenda più drammatica di tutte, quella in cui il giovane re si mette a guida del popolo oppresso, non fatichiamo a trovare una spiegazione, ed è questa: l’intera teoria secondo cui «i pensieri degli uomini vanno ingrandendosi con il girar dei soli»4 è una sciocchezza da ignoranti. Ma come farebbero i soli ad ampliare la mente degli uomini? La spiegazione è che gli uomini dei tempi di Shakespeare capivano di ideali democratici assai meno di quelli dei tempi di Chaucer. I Tudor erano interessati – come d’altronde Shakespeare nella sua tragedia storica – all’esaltazione mistica, tipicamente secentesca, del Principe: era molto più probabile che un’esaltazione mistica per il popolo esistesse nel 1300. Il Riccardo di Shakespeare è religioso, tanto da definirsi l’unto del Signore. Il vero Riccardo con tutta probabilità si sarà rivolto al popolo chiamandolo il gregge del Signore.
Shakespeare, grande e pieno d’umanità come fu, vede in Riccardo solo il re insultato, e sembra tenere in scarsa considerazione i sudditi di Riccardo, così come i sudditi di Lear. Ma Riccardo pensava eccome ai sudditi di Riccardo. Aveva all’inizio del suo regno cercato di essere un re del popolo nel significato di capo del popolo.
Il Rinascimento esaltava sì il Poeta ma ancor di più il Principe, e non si occupava un gran che dei contadini e dei poveri, e proprio per questo il più grande figlio del Rinascimento, pur avendo composto migliaia di versi tuonanti e inebrianti sul regno di Riccardo II, non si preoccupa di fare alcun riferimento alla Rivolta dei contadini.
*
La scorsa settimana non ho avuto modo di discutere l’argomento che il signor Shaw ha sollevato in conclusione dei suoi pregnanti paragrafi in merito, voglio dire se Shakespeare sia ottimista o pessimista.
Sono abbastanza portato a concordare con il signor Shaw sull’idea che l’insegnamento di Shakespeare non sia stato prettamente positivo, e sull’idea che – come uomo – il Poeta non possedesse una dottrina di vita del tutto definita. La vita a cavallo del Rinascimento e della Riforma era di certo colma di scetticismo e di confusione dal punto di vista filosofico, forse ancor più che ai tempi nostri.
Shakespeare possedeva in gran quantità un innato sentimento religioso, di derivazione principalmente cattolica; in gran quantità possedeva anche uno scetticismo retorico piuttos...

Indice dei contenuti

  1. Leggendo Shakespeare
  2. Colophon
  3. Presentazione di Valentina Vetri
  4. Nota al testo
  5. Capitolo 1 Entra Shakespeare
  6. Capitolo 2 Le opere
  7. Capitolo 3 La religione
  8. Conclusione Il vecchio e il nuovo
  9. Nota bibliografica
  10. Indice