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Cenni di geografia fisica
Giacciono le Calabrie in quel lembo estremo ed accidentato della nostra terra, che per la sua singolare figura merita tutto solo il titolo di stivale. Pescano da un lato nel Jonio, nel Tirreno dall’altro, per tutta la loro lunghezza e larghezza, fino all’estrema punta del fatale Aspromonte, le attraversano gli Apennini; di cui le due popolose marine formano, si può dire, gli ampi versanti, che tutti sono irrorati e cospersi da piccoli fiumi e torrentelli, più dannosi all’igiene che utili all’industria, come quelli che impaludano o si asciugano od ingrossano improvvisamente.
I terreni marno-calcari, o granitici o sabbiosi sotto gli Apennini, sono ricchi di galene argentifere e rame, a Reggio; di grafite, di lignite e carbon fossile a Gerace, a Santa Eufemia, ad Agnano; di piombo argentato a Longobucco e Campoli; di ferro a Pazzano e Stilo; di zinco in Grotteria; di grafite in Olivadi; di ferro solforato in Platania, Mesuraca, Gimigliano e Melissa: di piombo solforato sul Lese, tra Belvedere e Caccuri, e nel luogo detto S. Lorenzo tra Caccuri e Casino; di manganese ossidato in Scalea e Briatico; di zolfo in Melissa, S. Nicola, Strongoli, ove d’alquanti anni sono in grande attività delle miniere ed altri punti; di salgemma in Lungro, sulle rive del Neto, e vicino il fiume Tacina, e senza tener conto di altri piccoli filoni e punti, ove rinviensi quarzo, selce piromaco, feldspato. Non possiamo p. es. non ricordare i bei marmi di Gimigliano. Notevoli i bacini di Lignite di Briatico, il rame di Guardavalle.
I porti sono malsicuri, inetti al grande commercio; il mare, spesso infido per pericolose e contrarie correnti e, più che avvicinare, tende ad isolare le Calabrie dal mondo civile, e perciò doppiamente utile vi riuscì la linea ferroviaria.
Eccellenti acque e buone fonti sulfuree si trovano a Gerace, a Cassano, a Melissa, a Cerisano e Palestrine, Fuscaldo, Sersale, Cotrone, Strongoli, S. Nicola, Pallagoria, Polistine, Feroleto; ricche di ferruginose sono: Parenti, Girifalco, Ameroni, Gasparrina, Olivadi, Pizzo, Centrachi. Zagarise possiede tre acque saline: una di solfo ed allume, altra di solfato sodico, purgativa, ed una terza carica di allume che si usa per la concia dei cuoi. In Sellia sorge una polla ricca di molto solfato sodico purgativo, che si raccoglie col nome di sale di Sellia. Le acque di S. Biase, di Guardia e di Gerace posseggono grandi virtù termali, e vi accorrono ogni anno e con giovamento molti infermi.
Questa ricca terra, che misura l’estensione di 5.066 miglia quadrate, ne conta pur troppo 490 d’incolte e boschive; ma quasi a compenso dell’umana trascuratezza, la natura dei luoghi più o meno coltivati, sembra superare se stessa; e là il grasso e spinoso cactus s’inerpica per le rive più deserte e scogliose, là verdeggia il lucido olivo, a Gioia in ispecie; e a Reggio spandono i loro profumi l’arancio ed il bergamotto; e fioriscono e moltiplicansi l’agave, il ricino, l’euforbio ed il croco; a Monteleone e Roccella vegeta il canape; ed a Roccella, Ardore, Siderno e Cotrone, il cotone; e l’uva a S. Eufemia Mileto, a Gerace, Cirò, S. Biase e a Mileto: nei monti si trovano intere selve di noci, di frassini, di peri, di castagni, di quercie, di abeti e di felci; e nelle marine, specie di Reggio, verdeggiano bellissime la palma, il gelso, l’aloe, il limone, il cactus, l’agave, l’olivo, la centaurea e l’amarillide, e fra le piante tintorie la robbia, lo zafferano, il guado (Appendice).
La coltivazione principale è quella del gelso a cui tien dietro quella delle piante da frutta, specie il fico. Degli altri prodotti i maggiori sono: olio, vino, canape, riso, zafferano, liquirizia, miele, manna, legumi e frumento nelle pianure.
Molto coltivato è anche il cotone, specie nella provincia di Castrovillari e nelle pianure del Jonio.
Cotonifici, però, lanifici e altre fabbriche di simil genere sono scarse, come pure le concerie1. Più prospere invece sono le fabbriche di liquirizia, che cresce spontanea, e abbastanza numerose le fabbriche di sapone, gli oleifici e gli stabilimenti per estrarre olio dalla sanza col solfuro di carbonio. In Serra S. Bruno lavora una fabbrica della pasta di legno per la carta, e fabbriche di paste alimentari.
Ivi s’allevano robusti il capro, il porco, l’asino e il mulo; male vi allignano il cavallo, il cane ed il bue. Eccellenti pesci nuotano nelle onde dei suoi mari, fra cui il tonno ed il pesce spada.
Gli abitanti sommavano ad 1.140.396 al 1864; ad 1.326.781 nel 1893. Sono cioè sparsi a 91 per kil. quadrato.
Le femmine superano i maschi. Si calcolavano nel 1862 ad 8.000 i marinai, o meglio i pescatori; a 540.000 i contadini a 6.000, pur troppo i preti.
Ora, però, se stiamo ai dati fornitici dagli Annali di Statistica industriale nelle provincie di Reggio, Cosenza e Catanzaro, pp. 51-98-157, sarebbero nelle industrie impiegati attualmente 26.409 operai, di cui:
Nelle industrie minerarie | 3.028 |
Nelle industrie alimentari | 15.268 |
Nelle industrie tessili | 4.312 |
Nelle industrie diverse | 2.771 |
Di più si hanno 16.446 telai a domicilio e 285 pescatori di tonno.
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Colonie greche. Canti popolari greci
V’hanno in Calabria, oltre alla piccola colonia piemontese di Guardia si dottamente illustrata dal Vegezzi-Ruscalla, molte altre colonie altrettanto curiose ed antiche, e d’un grande interesse per l’etnografo perché serbano le vestigia di due popoli, i quali ripeterono certo per uguali vicende e posizione geografica, la stessa emigrazione che già ne apportavano i loro antenati Elleni e Pelasgi; vo’ dire dei Greci e degli Albanesi.
I Greci, per un singolare sbaglio confusi da molti cogli Albanesi, occupano quell’estremo punto della nostra terra, che è l’ultima Tule dell’Italia continentale1.
Sono sparsi in numero di 8.531 circa, nel 1600 erano 12.000 a Bova, a Roccaforte, Roghudi, Cardeto, Condofuri, Galligo, Korio, Amenda ed in un sobborgo di S. Lorenzo2.
Molti di essi, specialmente i ricchi, conservano l’antico tipo dell’Attica; fronte alta, spazio interoculare largo, naso aquilino, occhi grandi e lucidi, labbro superiore corto; bocca piccola, cranio e mento arrotondati, tutte le linee del corpo dolci ed aggraziate.
Il loro temperamento è linfatico e nervoso; fini, astutissimi, lascivi, hanno grande mobilità di idee, tendenza al procaccio, e un poco al furto, somma facilità al canto ed all’armonia.
Confinati all’estremo lembo d’Italia, su aride roccie, cui mal bagna il Dario ed il Piscopio, divisi da un mare inospitale, non è a stupire, se conservaronsi, come vennero, semi-barbari nei poveri loro tugurii.
Essi vivono di latte, di grano, di miele, di cacciagione, di castagne, di carne caprina, e servonsi ancora, come i nostri proavi, che ne lasciarono traccie nell’impizzar e invisciar dei dialetti, di pezzi d’abete a modo di torcie (psinne o tedde). Usano pure di cuocere, a modo degli antichi Pelasgi, delle ciambelle di farina sotto le pietre arroventate.
Cinti da ogni lato dal mare, pure rifuggono dalla pesca; e questo mi è indizio che non venissero dalle coste, ma dall’interno della Grecia; ed appunto come gli antichi Elleni, preferiscono l’apicoltura, la pastura delle capre, la caccia delle volpi, la coltura del fico d’India, del castano; ovvero emigrano e coll’antica finezza, cui stimola povertà, si fanno ricchi ed avarissimi.
Essi hanno quattro chiesette, ed un povero ospitaletto: osservano, benché molti abbiano asserito il contrario, tutti i riti e la liturgia della religione cattolica, solo pochi vecchi e le donne recitano il Paterimò e lo Staurò della Chiesa Greca senza però capirlo, mescendovi solo, come tempo fa gli altri Calabresi, avanzi di vecchie pratiche pagane, meglio che importate, rimaste obliate al fondo di quelle deserte e vetuste regioni. Così sogliono fare piangere i loro morti da apposite donne, eredi delle prefiche, le quali si stemperano in lodi del defunto, e in atti di pagato dolore; ai quali segni di lutto, tengono dietro, a modo antico, splendidi conviti funerei; e con ricchi conviti celebrano le nozze, dette perciò prandi.
Il rito, che v’è in uso coi bambini, affetti da bulimia, rammenta bene le strambe ricette di Catone. Sogliono, cioè, farli circondare da tutti i piccoli suoi coetanei, che armati di tonde ciambelle, gli cantano intorno a tutta gola: Tha ce pie, ce hortasi. A dafi-ta-licopiasmata. (Va, bevi, e satollati, e lascia il cibo di lupo).
Certo è retaggio dell’Attica il singolare onore in cui v’è l’arte del poetare, che vi cresce come l’olivo, antica, spontanea, bellissima.
Il maggior sollazzo dei ricchi e dei poveri è quello di raccogliersi ad udire le belle tragude o canzoni, accompagnate dalla zampogna e dal tamburello che spesso improvvisano sotto le finestre delle donne amate, o radunandosi di sera specie di festa. I canti alludono alla caccia, all’agricoltura, alla satira del padrone, o dei ricchi vicini e alla femmina. Alcuni di questi trovatori, o meglio di questi poeti ciclici, si tramandano da padre in figlio la raccolta dei canti, e ne traggono lu...