L'altra storia del sindacato
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L'altra storia del sindacato

Dal secondo dopoguerra agli anni di Industry 4.0

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L'altra storia del sindacato

Dal secondo dopoguerra agli anni di Industry 4.0

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«Un libro anticonformista, un contributo serio per una discussione aperta sul movimento sindacale in cui non prevale la retorica e non domina il patriottismo di organizzazione. La globalizzazione, la finanziarizzazione dell'economia e il mercato hanno messo fuori gioco il sindacato. È un declino inarrestabile? Non ci sarà futuro? Giuliano Cazzola e Giuseppe Sabella non ne sono convinti, vedono delle opportunità. Sono molto interessanti gli stimoli, a volte le provocazioni, le proposte, i cambiamenti che propongono». Così scrive nella sua introduzione Giorgio Benvenuto, tra i più importanti protagonisti dell'Italia repubblicana, nel presentare L'altra storia del sindacato, una storia mai raccontata prima, lontana dai teoremi della "vecchia sinistra" e utile a capire presente e futuro. Ciò soprattutto in una fase di grande sconvolgimento economico e politico, sia a livello nazionale che internazionale. L'industria e il lavoro sono oggi al centro della grande trasformazione: laddove c'è innovazione ci sono accordi sindacali. La contrattazione di secondo livello, il welfare aziendale, la conciliazione vita-lavoro e, più in generale, il piano industria 4.0 sono sempre più al centro della vita delle imprese: ecco perché il sindacato ha davanti a sé una strada aperta e non scomparirà. Se cambierà pelle.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788849856026

1.

Gli anni della democrazia ritrovata

GLI ANNI CHE VANNO PIÙ O MENO DAL 1943 AL 1950 segnarono la caduta del fascismo, la lotta di Liberazione, la fine della guerra, la riconquista della democrazia nel contesto di un quadro politico che avrebbe caratterizzato l’intera prima Repubblica. In quest’arco temporale, a fronte della sfida della ricostruzione, il movimento sindacale sperimentò una fragile unità ben presto travolta dalle tempeste politiche della Guerra fredda. Nel 1950, dopo un processo di scissioni e aggregazioni, fu in sostanza definita quell’articolazione del sindacalismo italiano che, seppure con parecchie modifiche aggiuntive, è riuscita a sopravvivere anche dopo il tramonto di quel sistema politico che ne era stato la matrice. A pensarci bene, infatti, nessuna delle grandi formazioni politiche, custodi nel dopoguerra delle ideologie del XX secolo, dalle cui costole erano nate – con un forte timbro partigiano – le organizzazioni sociali del lavoro, dell’economia, della cultura e del tempo libero, è tuttora presente e operativa. Quelle che non sono scomparse nella «notte dei lunghi coltelli» dei primi anni ’90, hanno cambiato più volte nome e ragione sociale, nella vana speranza di mutare anche il proprio dna. CGIL, CISL e UIL sono invece ancora sulla piazza, anche se al loro interno sono cambiati gli azionisti di riferimento. E, paradossalmente, il livello dei loro rapporti è il peggiore riscontrato dagli anni ’50 a oggi. Solo che allora le divisioni erano più o meno le stesse che attraversavano in lungo e in largo l’umanità, i «blocchi imperiali» e le nazioni. L’Italia era attraversata e divisa da una «cortina» invisibile che tagliava il Paese in lungo e in largo, fino ai più sperduti paesini di pianura o borghi montani, e che penetrava implacabile o violenta anche all’interno delle famiglie. In quei tempi, da noi, la differente appartenenza partitica rappresentava quasi un fattore di discriminazione sociale simile a quello che in altre realtà era prodotto dai conflitti razziali. E anche le organizzazioni sindacali erano parte di questo mondo. Risulta oggi difficile capire i motivi del perché si siano ripresentate quelle divisioni che sembrano insuperabili. Si spiega, allora, l’utilità di ripensare al profilo di «quei padri fondatori», costretti a essere protagonisti di eventi più grandi di loro e a muoversi lungo scenari rigidamente precostituiti, a recitare copioni che non era dato modificare più di tanto. In tutte le organizzazioni esiste sempre una tendenza all’agiografia, che è sempre comprensiva di qualche esagerazione e di un filo di menzogna. Tuttavia, sono sempre persone normali quelle che si misurano con opere eccezionali. Il loro destino è condizionato dai fatti che li coinvolgono e dalle decisioni che sono chiamati ad assumere. Ma in ciascuno di loro – se sono onesti – è radicata una convinzione: «Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi».
I protagonisti di questi primi anni furono sicuramente tre: Giuseppe Di Vittorio per la CGIL, Giulio Pastore per la CISL e Italo Viglianesi per la UIL. Con loro tanti comprimari, il più importante dei quali fu Fernando Santi, il leader più prestigioso della corrente socialista della CGIL, che ha sempre avuto un rilievo particolare. Merita di essere segnalato anche il repubblicano Raffaele Vanni, il più longevo dei «padri fondatori», allora già membro del gruppo dirigente nazionale della UIL (in tal veste firmatario di numerosi accordi) e restato in attività a lungo.
Su questo pezzo di storia del sindacato è rimasta una domanda: quale sarebbe stata la leadership sindacale, e di conseguenza come sarebbero andate le cose, se il socialista Bruno Buozzi – unico leader sindacale (assassinato dai nazisti in ritirata) ad aver ricoperto prima dell’avvento del fascismo un ruolo di rilievo nazionale come segretario della Fiom – fosse sopravvissuto?

Il sindacato nella Costituzione

Al sindacato è riconosciuto un posto d’onore nella Carta costituzionale del 1948. Non potrebbe essere altrimenti dal momento che le libertà sindacali sono un aspetto essenziale del profilo che l’Italia ha voluto dare di sé nell’articolo 1, definendosi una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
In una Repubblica «democratica» e «fondata sul lavoro», il sindacato è chiamato a svolgere un ruolo fondamentale. E se, come recita l’articolo 49 della Costituzione, «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», i lavoratori possono far valere i propri diritti sia attraverso l’adesione a organizzazioni sindacali – i cui compiti sono definiti e tutelati dall’articolo 39 – sia mediante l’esercizio del diritto di sciopero – di cui all’articolo 40 – nell’ambito delle leggi che lo regolano. Anzi, la Repubblica si spinge persino, nell’articolo 46, a riconoscere il diritto dei lavoratori a collaborare nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende «ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione». La norma fondamentale per il sindacato resta comunque l’articolo 39, il cui testo è un esempio di sapienza giuridica in quanto riesce a raccogliere e a regolare le principali questioni che, fin dal suo sorgere da una costola del diritto privato, hanno angosciato il diritto sindacale: il profilo giuridico del sindacato in quanto soggetto collettivo, gli aspetti della rappresentanza e della rappresentatività in un regime di libertà e di pluralismo sindacale, le forme e le procedure della contrattazione collettiva, la sua efficacia e l’ambito di applicazione.
Premesso che l’organizzazione sindacale è libera, l’articolo individua un percorso rivolto a conferire la personalità giuridica ai sindacati registrati presso uffici centrali e locali, secondo le norme di legge. Per ottenere la registrazione – ecco il solo obbligo che può essere imposto ai sindacati – è richiesto uno statuto «a base democratica». I sindacati registrati e dotati di personalità giuridica – ai sensi dell’articolo 12 del codice civile – possono, se «rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti», stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. La norma è chiara e ben congegnata; tuttavia, non solo non ha mai avuto applicazione, ma in Italia si è sviluppato, nel tempo, un sistema di relazioni sindacali solido e strutturato, completamente extra (non contra) legem.
Ma perché il legislatore costituzionale immaginò l’ordinamento intersindacale prefigurato nell’articolo 39? I padri costituenti scelsero di non tornare al modello sindacale pre-fascista, ma puntarono – alla fine inutilmente, visto che l’articolo 39 è rimasto inoperante – a far evolvere in senso democratico e pluralista il modello ereditato dal corporativismo, la cui attività contrattuale era stata salvaguardata da un decreto luogotenenziale del 1944, tanto da divenire la base della contrattazione collettiva dell’Italia democratica; al contrario, le associazioni sindacali fasciste erano state subito disciolte e commissariate già a opera del governo Badoglio dopo la caduta del regime il 25 luglio del 1943. Per memoria, i commissari furono scelti tra ex sindacalisti appartenenti alle confederazioni del lavoro pre-fasciste. Durante il ventennio, l’assetto sociale aveva assunto un rilievo istituzionale e amministrativo, nel senso che la corporazione organizzava al proprio interno tanto i datori di lavoro quanto i lavoratori di una particolare categoria, i cui confini erano individuati anch’essi in base a una scelta di natura amministrativa e pubblica. Ambedue le parti erano chiamate a lavorare insieme per l’interesse superiore dello Stato. Nell’ambito della corporazione venivano definiti i contratti collettivi che avevano praticamente valore di legge. Lo sciopero era proibito; e le controversie – individuali e collettive – erano sottoposte alla magistratura del lavoro, una vera e propria giurisdizione speciale incaricata di dirimere, appunto, tutte le controversie.

La polvere del passato

Sull’impianto complessivo dell’articolo 39 è rimasta, così, molta polvere del regime fascista. Il legislatore costituzionale invero, essendosi trovato a gestire la transizione dal regime alla democrazia e avendo a che fare, in materia di lavoro, con un impianto consolidato fatto di norme concretamente applicate nelle aziende, si limitò in larga misura a riformulare l’ordinamento previgente alla luce dei sacri principi della libertà e della democrazia; e a immaginarne – non era facile per quei tempi – una concreta operatività ispirata al pluralismo. Ma è rimasta visibile la sua preoccupazione di rivisitare in altre forme le questioni che il modello corporativo, a suo modo, aveva affrontato e risolto.
Durante il fascismo i sindacati erano praticamente una branca della pubblica amministrazione. Nell’Italia democratica riprendevano piena libertà, ma continuava a sussistere il problema di conferire loro una personalità giuridica (ancorché) di diritto privato, sottoposta al solo requisito di uno statuto interno a base democratica, al fine di definirne una precisa identità, secondo quanto dettato dalla legge ordinaria che avrebbe dovuto applicare la norma costituzionale. L’ambito della categoria come riferimento della contrattazione a quel livello rimaneva centrale come lo era stato nel precedente contesto in forza di un pregiudizio ideologico divenuto norma (il corporativismo, appunto, come forma di organizzazione dello Stato).
Infine, il legislatore costituzionale era ossessionato dall’esigenza di individuare un meccanismo che, persino in un contesto di possibile pluralismo sindacale, consentisse di conferire un’efficacia erga omnes ai contratti collettivi, altrimenti applicabili – secondo i principi generali del diritto comune – soltanto agli iscritti alle organizzazioni stipulanti. In buona sostanza, per quanto riguarda l’ordinamento sindacale, il fascismo aveva promosso e orientato un processo evolutivo, già in corso dopo la conclusione della Grande guerra, ma il cui sbocco era ancora incerto. Il legislatore costituzionale, dal canto suo, aveva confermato, in alcuni suoi aspetti, quell’ordinamento – di cui il contratto nazionale di categoria era l’architrave – pur andando «a risciacquare in Arno» i panni della democrazia anche per il sindacato, il che non era un cambiamento da poco. Sempre per rimanere nel campo delle politiche sociali capitò la medesima cosa per le scelte concernenti il modello di welfare State (l’articolo 38, in primis). In questo campo, l’ordinamento corporativo, caratterizzato dall’esistenza di tanti enti pubblici non economici detti «parastatali» – un’altra peculiarità del regime in linea con i principi del corporativismo –, non solo venne confermato, ma diventò il modello e l’esempio nell’Italia repubblicana per l’estensione delle tutele previdenziali e assistenziali obbligatorie ad altre categorie, diverse dal lavoro dipendente.

Il sindacato in un Paese da ricostruire

Prima che il legislatore ordinario potesse porsi il problema di come dare attuazione a quanto prevedeva l’articolo 39 (la Carta entrò in vigore il 1° gennaio 1948), la realtà aveva preso un’altra strada, sotto la spinta impellente dell’Italia di allora, uscita dal secondo conflitto mondiale in un contesto di miserie morali e materiali. I problemi economici da affrontare erano di una gravità schiacciante. Di quasi 33 milioni di vani esistenti all’inizio della guerra, 1,7 milioni erano completamente distrutti (soprattutto al Nord), più di un milione gravemente danneggiati, 3,4 milioni lievemente danneggiati. Le capacità del sistema ferroviario erano del 30 per cento inferiori ai livelli prebellici. Era utilizzabile solo un ottavo del tonnellaggio della marina mercantile. I danni degli stabilimenti e degli impianti industriali – nonostante gli sforzi eroici delle maestranze per difenderli dalla distruzione e dallo smantellamento da parte dei tedeschi – toccavano il 25 per cento della capacità precedente il conflitto. La produzione toccò nel 1944 il 36 per cento del livello del 1938, e il 23 per cento nel 1945. Mancavano sia il combustibile sia le materie prime. In agricoltura, oltre alla disorganizzazione prodotta dalla guerra e alla mancanza di fertilizzanti, si aggiunse nel 1945 una lunga siccità che ridusse la produzione di cereali al 55 per cento della media prebellica. Quanto al consumo di generi alimentari fu calcolato dagli organismi internazionali che, sempre nel 1945, la popolazione non agricola raggiungesse la media di circa 1.550 calorie pro capite al giorno. In tale contesto era rinato e tentava di svolgere i suoi compiti istituzionali il sindacalismo democratico a ridosso della ricostruzione dei partiti antifascisti di massa che riprendevano in mano progressivamente il governo di un Paese, ancora spaccato in due dalla guerra e sottoposto al controllo dell’amministrazione militare alleata. Ma la ricostruzione del sindacalismo democratico era già in corso, con tutte le difficoltà e i problemi del caso, all’indomani della caduta del fascismo in conseguenza dell’approvazione dell’«ordine del giorno Grandi» alla riunione del Gran Consiglio del 25 luglio del 1943, quando ancora la guerra continuava a essere combattuta sul suolo italiano. Il governo del Maresciallo Pietro Badoglio prese l’iniziativa di nominare alcuni esponenti antifascisti delle diverse correnti partitiche – che allora si trovavano in carcere o al confino o in esilio – commissari alle disciolte organizzazioni corporative con il compito di riorganizzarle. Bruno Buozzi fu nominato commissario della Confederazione fascista degli operai dell’industria. Buozzi era un socialista riformista, già segretario della FIOM; aveva gestito, con saggezza e realismo, l’occupazione delle fabbriche del 19191. Esule dopo l’avvento del fascismo, fu arrestato dai tedeschi in Francia, condotto in Italia e incarcerato. Buozzi era sicuramente il leader sindacale di maggior prestigio ed esperienza. Nel giugno del 1944 venne fucilato dai tedeschi durante l’evacuazione della capitale. La sua morte contribuì largamente, negli anni successivi, a determinare l’egemonia del PCI sulla CGIL, con tutte le conseguenze che ne derivarono. Vice commissari furono nominati il comunista Giovanni Roveda e il democristiano Gioacchino Quadrello. Allo stesso modo Achille Grandi, ultimo segretario della Confederazione italiana dei lavoratori (CIL, il «sindacato bianco» prefascista), diventò commissario della Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura, con un socialista e un comunista come vice commissari. Toccò a Buozzi la direzione del comitato di coordinamento dei diversi commissari. Nel breve tempo che intercorse prima che i tedeschi occupassero Roma, l’unico fatto di un certo rilievo fu il cosiddetto accordo Buozzi-Mazzini (quest’ultimo era il commissario della Confederazione degli industriali fascisti) con il quale s’istituivano le commissioni interne, elette da tutti i lavoratori con compiti di rappresentanza. Tali organismi erano destinati a essere protagonisti di un’intera fase della storia del sindacato. Dei sindacalisti democratici non potevano certo accontentarsi di riorganizzare i sindacati del regime deposto. Così iniziarono pure i contatti e le iniziative per dar vita a un grande soggetto unitario.

Il Patto di Roma

Nei primi mesi del 1944, nella Roma durante l’occupazione tedesca, fu elaborato un accordo di cui i principali negoziatori furono Buozzi (giustiziato poche ore dopo l’accordo) per i socialisti, Grandi per i democratici cristiani e Giuseppe Di Vittorio per i comunisti. Era questo il «Patto di Roma», sottoscritto il 3 giugno alla vigilia della liberazione di Roma a opera degli alleati.
Di Vittorio, bracciante pugliese, proveniva dal sindacalismo rivoluzionario, era un altro protagonista dell’epoca prefascista. Era poi entrato nel PCI e, esule in Francia, ne era stato il rappresentante sindacale, dopo aver ricoperto altri incarichi di partito. Il Patto di Roma stabiliva che la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) fosse articolata in tre correnti: quella democristiana, quella comunista e quella socialista; ognuna avrebbe avuto uguale rappresentanza negli organismi dirigenti ed espresso un segretario generale in concorso con gli altri due. L’esclusione della rappresentanza del Partito d’azione, che pure partecipava alla lotta partigiana e ai Comitati di liberazione nazionale (CLN), determinò per un breve periodo la costituzione di un’altra confederazione che ben presto fu riassorbita.
In quei mesi il governo italiano si era spostato al Sud e riprendeva possesso del territorio, sempre sotto l’egida delle truppe alleate, man mano che i tedeschi ripiegavano. Il Nord restava dietro la Linea gotica sotto la dominazione dell’esercito germanico e della Repubblica sociale italiana (RSI), lo Stato-fantoccio – che si definiva repubblicano vagheggiando un ritorno alle origini – in cui erano asserragliati Mussolini e gli scampoli del fascismo...

Indice dei contenuti

  1. L’altra storia del sindacato
  2. Colophon
  3. Introduzione di Giorgio Benvenuto
  4. 1. Gli anni della democrazia ritrovata
  5. 2. Le nuove sfide
  6. 3. Luci e ombre della riscossa operaia
  7. 4. Gli anni difficili
  8. 5. L’inverno del nostro scontento
  9. 6. Il gioco si fa duro
  10. 7. Il crollo della prima Repubblica e la svolta degli anni ’90
  11. 8. Le grandi riforme del lavoro e del welfare
  12. 9. Il caso FIAT e l’impatto delle relazioni industriali con la globalizzazione
  13. 10. Relazioni industriali oggi
  14. Epilogo
  15. Postfazione di Alberto Brambilla
  16. Bibliografia
  17. Note
  18. Indice