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Informazioni sul libro

Le righe d'inchiostro di un manoscritto greco occultato intrecciano irrimediabilmente le vite di religiosi del Cinquecento: attorno a pochi fogli di pergamena s'infiamma l'eterna lotta tra fede ed eresia. Il coraggio è per alcuni frati la sola strada per salvare il libero pensiero. Chiostri di conventi e biblioteche ricolme di libri saranno teatro e campo di battaglia di violenti scontri, tra ambizione e brama di sapere, gelosia e sete di potere. Ma l'antico segreto verrà salvato per giungere nelle mani degli studiosi contemporanei.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788849853629

InChiostro

Prologo

L’avevo visto fuggire scrutando intorno che nessuno potesse vederlo, fermarlo, nella sua mattina più buia. L’ombra furtiva aveva varcato il portale del convento francescano, con un libro stretto al petto. Lo pose sulle scale, umide di muschi, della nostra vicina chiesa domenicana, con un gesto sacro, e riprese la corsa.
Da quell’oscurità dell’anno del Signore mille cinquecento e ottantaquattro, del giovane novizio cappuccino non si seppe più nulla.

I

Il Maestro

È uscito il fiume dagli argini, argilla liquida rosso sangue imbratta porte, vichi, case, frange sulle mura. La velocità è insondabile. Tre giorni di pioggia ininterrotta.
«Ci mancava questo», protestò un uomo a cavalcioni d’uno dei buoi che tiravano un carro.
«Santa Barbara, Santa Fiora, salvaci dalla sciagura!», inginocchiata nell’androne di un’abitazione una vecchia si dondolava e gemeva.
«Mi spagnu! Ho paura!» gridò un bambino tirando la veste della madre.
Sui gradini della chiesa, mantello nero sul capo, un frate domenicano, con la veste bianca imbrattata dall’acqua, guardava la gente affannarsi a proteggersi dalla natura prepotente che s’abbatteva sulla città. Sbattendo i piedi bagnati, che iniziando ad asciugare parevano di creta, non si trattenne: «La gente è spaventata ma accade ogni anno, per Dio! Ogni anno c’è una volta che il torrente Canne esce dal letto e trasforma questo posto in un macello. I vecchi lo sanno e dovrebbero insegnarlo ai bambini, invece di buttarsi a terra disperati. Così li allevano a pane e paura, questi superstiziosi! Ammetto, comunque, che la vista è perturbante» e volgendosi lentamente aprì il portone, dando le spalle alla città, ché dal refettorio il suono del cymbalo chiamava a desinare. Il quadrato perfetto del chiostro l’accolse. Egli l’attraversò tagliandolo in diagonale, mentre il frastuono dell’esterno si perdeva nei rombi di tuoni del temporale che s’allontanava verso il mare.
Il convento domenicano della Santissima Annunziata di Neocastro era elevato elegantemente, alternandosi teorie d’archi portanti e linearità geometriche di finestre, ampi corridoi interni e severe cellette per i frati. Ogniqualvolta vi rientrava, il frate lector si trovava involontariamente a paragonare lo spazio esternola città immiserita che perdeva la bellezza del suo organico impianto anticocon l’interno del convento, ch’era di sobria grazia e piacevole proporzione. La città era sede vescovile e la famiglia Caracciolo non badava a spese per affermare potestà. Nei primi anni del mille e cinquecento si doveva alla casata la fondazione del convento dei Predicatori, detti domenicani dal nome del fondatore dell’ordine, San Domenico. Nel 1544-45 la fondazione del convento di Santa Maria degli Angeli per i frati francescani cappuccini. Cospicui donativi, rendite e lasciti, rendevano florida la sede domenicana di Neocastro e destinazione ben accetta per le vocazioni obbligatorie dei maschi non primogeniti, di nobili famiglie. Che dire, poi, della sua librarìa, della varietà e dovizia di volumi che custodiva!
Il frate lector aveva ricevuto i primi rudimenti di conoscenza proprio in quel convento, dove si teneva scuola per bambini, in un magazzino senza finestre. La schola aveva un’entrata dall’orto, per gli allievi esterni, e una dal chiostro, per il frate insegnante e gli scolari interni, i domenichini, come venivano canzonati i figli cadetti della piccola nobiltà locale che riteneva inutile spendere per un precettore privato e teneva i propri figli, spesso più d’uno, in convitto dai domenicani. Dov’erano, d’altronde, destinati a entrare fin da giovanissimi. Attraversando l’orto e i giardini del convento, ove i frati conversi coltivavano frutta e ortaggi, gli scolari esterni portavano terra, letame e sterpi attaccati a zoccoli e brache. Così la schola puzzava come una stalla e i domenichini lamentavano di non potersi applicare, con quell’odore di pezzenti. A volte si sentivano mancare, perfino!
A onor del vero i migliori scolari erano i ragazzi esterni che studiavano senza retta, solo pagando il carbone per lo scaldino del frate insegnante. Questa concessione veniva accordata grazie alle capacità dimostrate con un esame, a cui ciascuno scolaro esterno veniva sottoposto dal priore in persona.
Il frate lector divenne terzinello all’Annunziata, compiuti ch’ebbe tredici anni, iniziando così il suo cammino nell’ordine religioso domenicano, al comparire della prima barba sul viso e non vedeva altro che lo studio e i libri.
Neocastro si trovava a levante dell’ampia pianura intitolata a Santa Eufemia. Principiava da un cocuzzolo col castello normanno-svevo e le casupole discendenti del rione San Teodoro, il nucleo antico bizantino di Neokastron, dove c’era la casa natale e la famiglia del frate lector. Due torrenti circondavano l’abitato scendendo tortuosi dai monti verdi di foreste, lambendo la judeca degli ebrei. Anche il monte Reventino, da cui sgorgava la miglior acqua che si bevesse in città, era di roccia verde, da cui si cavava un’elegante pietra per gradini, ma certi saputi raccontavano che la pietra era verde di veleno e portava una sconosciuta e mortale malattia.
Il giorno che il fiume inondò la città, il frate lector non riusciva a ritrovare la pace che gli aveva sempre consentito d’immergersi nella lettura; nel trascorrere invano del giorno si sentiva derubato del suo tempo, d’un frammento della sua vita infinitesimo per l’universo, ma per lui prezioso.
«Santa pazienza, quanto piove in questo posto!» sbottò.
«Ci sono nato, è il mio destino, ma s’avessi potuto recarmi in città come Padova o Roma, forse avrei messo a frutto il mio sapere, sarei diventato magari un accademico, un magister d’una nostra prestigiosa sede di studi. Non mi sarebbe dispiaciuto affatto insegnare a studenti pieni di curiosità, dubbi e forza critica, fors’anche provenienti da terre lontane». Ma poi si consolò pensando che il vantaggio d’avere quel clima umido era che il tempo dedicato allo studio si moltiplicava nelle settimane piovose.
In verità acqua e vento a Neocastro sconvolgevano le fattezze dei paesaggi e delle cose grandi come delle minute. Al levante o allo scirocco che soffiavano forte da scoperchiar le case, talvolta s’univano scuotimenti della terra, terremoti anticipati da un rombo sordo e spaventoso. Ognuno temeva per la vita e pregava il Signore d’essere ancora una volta risparmiato, per vedere i figli crescere e sistemarsi, per rivedere un’altra estate. Il levarsi del sole, il giorno seguente, era garanzia d’un ristabilito moto perpetuo.
Inverno o estate, ogniqualvolta piovesse, per i corridoi del convento dell’Annunziata s’udiva la sequela «Acquanive! Acquanive!», gridata dalla donna che serviva i frati nelle incombenze più pesanti: lavare panni, strofinare pignatte e sbiancare latrine. Per quell’essere senza età e grazia di fattezze, a ogni pioggia e acquerugiola, persino in piena mietitura, il cielo gettava sulla terra acqua gelata mista a neve. «Segno di sicuri sconvolgimenti a venire!» diceva lei. Ascoltando la donna, un ghigno sommesso e austero, forse un accenno di sorridente compatimento, coloriva il volto dei frati. Uomini impenetrabili i domenicani, domini canes, mastini di Dio che lo studio rendeva insensibili all’inutile.
A Neocastro il frate lector aveva stretto molte amicizie, anche al di fuori del suo ordine, soprattutto con i frati cappuccini il cui convento distava dai domenicani il tempo d’un sospiro. Perdeva la nozione del tempo con loro in lunghe disquisizioni. La conoscenza delle opere d’Aristotele non era mai abbastanza e il desiderio di ribellarsi alla sua filosofia conduceva il frate a leggere, giorno e notte, oltrepassando i limiti del fioco lume della lucerna.
Al convento domenicano la modalità di lettura ad alta voce e quella silenziosa si facevano concorrenza. Dal secolo precedente s’era ereditata la pratica interiore e silente, che ora progrediva non solo negli ambienti colti ma anche fra i più umili. Esternare qualcosa a voce alta implicava liberare la coscienza individuale dai propri occhi solitari, dal pericolo dell’immaginazione o da un’incontrollata interpretatio.
La collezione dei libri dei cappuccini non era variegata come quella nella librarìa domenicana, ma al suo interno c’erano molti testi in greco. Gli studiosi venivano da diverse città per leggere quegli antichi codici neocastresi sebbene, per ignoranza e invidia che sempre abbondano, vox populi s’intrometteva: correva notizia che all’interno del convento cappuccino vi fosse chi alimentava il camino col posseduto librario ché anni prima il patrimonio era assai più consistente e dove fossero andati a finire tanti libri chi lo sapeva era bravo. Forse erano pure i domenicani a mettere in giro queste dicerie, ma si trattava dei soliti modi litigiosi con cui cappuccini e predicatori usavano accusarsi a vicenda di qualcosa e disputare. D’altronde due galli in un pollaio stanno stretti e il lembo di terra che divideva i due conventi non concedeva tanto spazio: un campo di superbi cedri, coltivato dai domenicani, delimitava il confine dell’orto cappuccino.
Già durante il primo anno di sacerdozio il frate lector s’era reso conto che non sarebbe stata quella la missione per dare un senso alla sua esistenza. Il primo ordine a cui aveva dovuto obbedire era stato di convertire gli ebrei di Neocastro. Prestissimo, però, aveva realizzato che nulla e nessuno avrebbe convinto quelle famiglie, a lui note fin da bambino per la vicinanza delle rispettive case natali, a rinunciare alla loro religione e alla loro identità culturale. Escogitò allora un tentativo per salvarli dalle persecuzioni, che si stavano diffondendo anche a Neocastro e in Calabria.
«Quale colpa hanno?» si chiedeva il frate lector, «anche altri, i greci calabresi, per dire, vogliono vivere in pace e fraternamente in questa terra e lo stesso sono costretti a nascondersi». Aveva spiegato ogni vantaggio del suo piano durante incontri accorti e riservatissimi. Un nucleo familiare per volta. «La verità è davanti agli occhi del Signore, là deve risplendere» disse loro. «Non è faccenda che riguardi gli occhi umani. Iddio vi perdona fin d’ora se, acconsentendo a questa menzogna, salvate la vita delle generazioni che da voi avranno séguito. Voi donne, nel segreto, accendete pure lumi o candele alla vigilia di shabbat. Nel segreto delle vostre feste cucinate kosher con prudenza. Ma innanzi a tutti, mostrate d’onorare Padre, Figlio e Spirito Santo. Amen».
Li portò a Pasqua, bianchi di paura, al fonte battesimale nella chiesa dell’Annunziata, ché altrimenti Chiesa e spagnoli li avrebbero scacciati dalla città prima dell’estate, le loro casupole sarebbero andate perse e con esse il loro lavoro di molinari ai mulini della città, con la sola prospettiva d’una fuga nella miseria più nera. Riuscirono a salvarsi più ebrei di quanto si sperasse ché le conversioni finte aumentarono e gran parte degli abitanti della judeca rimasero a vivere a Neocastro, mischiandosi senza drammi con la popolazione cristiana. Al frate lector pareva d’aver realizzato un capolavoro. Gli pesava giusto qualche grammo sulla coscienza, l’aver gabbato la curia con il vescovo in testa. Almeno il sacrificio della sua vita per il sacerdozio era servito alle vite d’altri, oltre ad aver permesso a lui d’accedere agli studi e divenire frate lector, docente in scienze bibliche e teologiche. Ma nulla spronava e infiammava i suoi giorni quanto approfondire la conoscenza, stare in mezzo ai libri ad ascoltare le voci degli antichi scrittori che, leggendo, egli riportava dal passato alla vita, accogliendo e rendendo vivo il messaggio che ognuno d’essi aveva lanciato nel tempo alle generazioni future.
Nell’ottobre del mille cinquecento e ottantatre, avviato l’anno scolastico allo studium particulare del convento dell’Annunziata, il frate lector era partito per il bosco del Carrà diretto a Santa Maria, un monastero dell’ordine di San Basilio – di rito greco – che sorgeva al limine della diocesi di Scolacium. Nemmeno una giornata di cammino da Neocastro. Chiese e ottenne per quell’anno una dispensa dall’insegnamento per approfondire – mentì al priore – il De vita regulari del Beato Umberto de Romans: un’opera nota ai religiosi dell’Ordo Praedicatorum. «Ah, Signore Dio, finalmente lontano dalla circumventio delle dispute tra confratelli saputi, fuori dall’intricatio dei sofismi!», gioiva mentre s’allontanava da Neocastro alla prima luce del giorno. Era così contento che, se non avesse incontrato alcuno, strada facendo, magari si sarebbe messo pure a ballare, come un contadino alla festa del grano mietuto. «È male essere felice, Dio?», urlò verso il cielo. Gli amici frati cappuccini ridevano e gioivano fra loro, dicevano che il loro Padre, San Francesco, voleva vivessero in letizia. Mentre i loro volti di domenicani parevano statue d’un perenne apparato funerario!
Durante il soggiorno al monastero, il frate lector avrebbe anche avuto il delicato compito d’accogliere i legati pontifici che intendevano visitare il monastero basiliano del Carrà. Là erano rimasti soltanto pochi monaci, molto anziani e spaventati dall’isolamento, i quali l’avevano pregato di raggiungerli poiché il frate lector aveva fama, oltre che di studiosissimus, di grande conoscitore della grecità antica. I monaci erano rimasti assai turbati dagli ordini, contenuti in una perentoria missiva da Roma, con cui la Santa Sede pretendeva d’anticipare la missione dei legati. Disposizioni che riguardavano il patrimonio librario in lingua greca, praticamente tutto quanto posseduto dall’antico monastero.
«Ah, qual vino m’attende», pregustava il domenicano durante il cammino verso Santa Maria del Carrà «e i vigneti di queste colline, che meraviglia! Come capisco quella volpe di Cassiodoro che stufo di Roma se ne venne qua a creare il vivarium. Mare di fronte, viti e uliveti attorno ed ecco Megale Hellas, la Magna Grecia». Capitava che il pane mancasse al grande monastero basiliano, ma l’uva aveva permesso all’acqua di tramutarsi in miracolo sostenendo le commedie dei monaci e le tragedie della popolazione affamata che viveva intorno. Al monastero del Carrà il frate lector avrebbe avuto l’opportunità di leggere tutte quelle opere che, nei suoi intendimenti, gli potevano consentire di scrivere in pochi mesi un trattato filosofico necessario alla difesa d’un amico, prematuramente morto. Questi era stato attaccato da scrittori incapaci di cogliere le novità e le spinte verso la moderna concezione del sapere legata a Lutero. «A me non dispiacerebbe conoscere ’ste dottrine d’oltralpe. Perché rigettarle come eresia senza vagliarle?», andava immaginando, «la Chiesa potrebbe prenderne il buono e gettare al fuoco la pula, non chiudersi in un ignorante pregiudizio. Se n’avessi il potere, proclamerei che è giusto rinnovare attraverso la tradizione». L’entusiasmo per la sconfinata bellezza della conoscenza gli aggraziava anima e corpo, lasciandolo spesso scambiare per uno studente. Impressione rafforzata dal fisico asciutto, i capelli ribelli audacemente non sacrificati alla tonsura e un’involontaria sfrontatezza nel viso che lo ringiovanivano. Ma aveva superato i quarant’anni e i suoi polmoni erano spesso colpiti da infezioni e malanni.
A quel tempo tutti temevano la mal’aria e ancor di più l’ombra nera della peste che in Calabria, come altrove per il mondo, dimezzava di frequente le genti. Nonostante la ricchezza di molte famiglie arroccate nei propri palazzi, per le strade c’era una povertà assoluta e molti non conoscevano più dignità o altro valore nella vita umana. Erano affranti dalla rapace fiscalità dei dominatori spagnoli e dai signorotti che riducevano troppi all’indigenza più amara. Catapecchie di fango e paglia costellavano i borghi e le vie calabresi. E più ci s’avvicinava al mare più l’aria malsana costringeva l’uomo ad una lotta strenua contro la natura. I religiosi erano assai fortunati rispetto alla maggioranza della popolazione.
Erano trascorsi diversi giorni ormai che il frate lector si trovava ospite al monastero del Carrà, quando una mattina presto, già ben concentrato, all’interno dello scriptorium, egli era intento a chiosare di commenti le pagine d’un libro a stampa. I monaci glielo consentivano, nonostante litigasse spesso col pennino sulle pagine d’alcuni volumi, scarabocchiando tutti quegli scritti che riteneva buoni giusto per incartare il pesce alla marina. Gli capitava pure di macchiare, talvolta, le coperte di volumi pregiati e trattandosi di pergamena, le gocce d’inchiostro o dell’olio lampante della lucerna s’intridevano irrimediabilmente. Anche questa scorrettezza gli veniva perdonata. Quel dì, la freschezza del principio di giornata rinnovava ogni aspetto della materia vivente. Finanche il respiro del legno dei banchi e degli armaria, dov’erano serbati i codici e i libri, pareva goderne. Nell’aria c’era profumo di querce.
Ma all’improvviso, quasi sfondando la piccola porta dello stanzone, un vecchio monaco entrò scomposto con l’affanno d’un cavallo al galoppo, esclamando con occhi stravolti: «Sono arrivati!». Il frate lector lo guardò senza dir niente. Poi tornò sulle pagine che stava leggendo. La foga del vecchio si placò nel vederlo impassibile. E quando i battiti del suo cuore si riconciliarono con l’anima, il monaco zoppo andò via. Il domenicano rimase di nuovo solo, come desiderava stare quando studiava. Sapeva che il benevolo rispetto di cui godeva tra i monaci dell’Ordo Sancti Basilii di Calabria era motivato dal suo inesausto desiderio di leggere opere in greco. Con movimenti quieti impressigli dal ritmo della lettura profonda, chiuse il libro che aveva fra le mani, riadagiandolo sul banco dello scriptorium. S’alzò dalla sedia e mise le lenti nel tascone della veste. Come se alcuna ansia gli impregnasse le vene del petto, si diresse...

Indice dei contenuti

  1. InChiostro
  2. Colophon
  3. InChiostro
  4. Postilla a InChiostro Un manoscritto proibito e le cronache di un frate nella Calabria del Cinquecento
  5. Postfazione
  6. Indice