Partita rimandata
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Partita rimandata

Diario calabrese

  1. 90 pagine
  2. Italian
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Partita rimandata

Diario calabrese

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Ecco un testo sconosciuto di un grande eccentrico del nostro Novecento. Il libro è la cronaca di un viaggio in Calabria nel pieno delle elez1oni "apocalittiche" del 1948. [...] Un sorprendente reportage d'autore. Mario Fortunato, «l'Espresso» Che scrittore Savinio, uno dei pochi che possono farci credere d'avere, anche in Italia, nella nostra lingua, una tradizione narrativa. Un viaggio, nel 1948, con alcuni resoconti, ripresi da quotidiani o riviste, ormai dimenticati: ed ecco un piccolo gioiello. Ermanno Krumm, «Panorama» In questo libro troviamo ben visibile un Savinio intento a giocare la sua personale "partita rimandata" con il dio nascosto della letteratura, dove l'argomento, qualsiasi argomento esterno, si finge dei caratteri della metafisica; la Calabria è uno spettacolo esibito che singolarmente sfuma nell'astrazione e invece, grazie ad una tecnica tanto più abile quanto più sembra naturale, viene resa visibile attraverso divagazioni, notazioni al margine, rapide illuminazioni, il vero e proprio rituale che guida lo scrittore verso una verità altra. Luciano Caruso, «il Quotidiano della Calabria».

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788849830309
Categoria
Viaggi
Partita rimandata

Viaggio ministeriale

12 marzo. In treno. Non sapevo due ore fa che sarei partito per la Calabria. La Calabria io tra l’altro non la conosco. Un viaggio in Calabria potrebbe dunque essere attraente per me. Ma la mia vita è ormai di là dagli interessi turistici. I viaggi formano la gioventù. Ma in me, in questo senso, non c’è più niente da formare. Non sapevo due ore fa… La vita è fatta a fili. Corrono i fili della nostra vita e noi appresso. D’un tratto un filo si avvolge intorno a se stesso e fa nodo. (Peggio quando il filo si spezza). Così è capitato a me l’altro ieri. Ma due ore fa, inaspettatamente, il nodo si è sciolto. Col telefono stesso (filo anche qui) che mi aveva annunciato lo scioglimento del nodo, dico a Fausto: «Vengo»1.
Viaggerò con un ministro. Questa primavera vede assieme con i rondoni anche i politici italiani volare da città a città, a concionare chi per il Blocco del Popolo, chi per la Democrazia Cristiana, chi per il “Pisello”. Il ministro col quale io viaggerò2 appartiene al raggruppamento politico noto col nome di questa leguminosa erbacea annua. Di solito, il successo dell’oratore politico è proporzionato alla sua mancanza di pudore. Il ministro col quale io viaggerò è saggio e timido. Non dovrebbe dunque aver successo. Ma ci sono anche altre forme di successo. Forse le più sicure.
Fausto mi dice: «Viaggeremo in saloncino». Sempre più frequenti mi ritornano in questo periodo della mia vita i temi dell’infanzia. Che segno è? E devo rallegrarmene o dolermene? Nelle composizioni musicali, il ritorno del tema iniziale talvolta è segno che la composizione è per finire. Anche nel mio balletto,“Vita dell’Uomo”, i temi dell’infanzia ritornano quando l’Uomo sta per rientrare nel grembo della propria madre. E con ciò? Al capo opposto della mia nascita alla luce, è con profondo interesse, è con profonda dolcezza d’animo che io mi preparo a nascere all’oscurità. Nascere all’oscurità. Sono io così “soltanto uomo” da prendere sul serio l’antitesi luce-oscurità?
Quarantasei anni, esattamente, che non ho più viaggiato in “saloncino”. Assieme con la signora Natalia, moglie del mio amico Fausto, cammino dietro il maestro di casa e il carrello che porta il nostro bagaglio al diretto per Reggio.
Ecco il treno e la prima delusione. Il “saloncino” è una comune vettura con letti di prima e seconda classe. Ben altro era il “saloncino” ferroviario della mia infanzia. Sulle ferrovie della Tessaglia, che egli stesso aveva costruite, mio padre era re. Re in prefettizia e tubino, che a guisa di scettro reggeva fra l’indice e il medio un bocchino d’ambra nel quale fumava un’inestinguibile sigaretta. Quattro divanetti a mezzaluna arrotondavano gli angoli del “saloncino”. Tortoramente grigi nell’imbottitura, occhiuti di bottoni bianchi e frangiati di bianco cordonetto. Quattro poltroncine egualmente tortoree si aggruppavano sul tappeto, simili a quattro damine in visita. Nell’angolo destro una tavola teneva ripiegate le ali di lucido legno fuori dei pasti, e all’ora dei pasti le stendeva. Tra finestrino e finestrino, sui quali scendevano e risalivano le tendine stemmate nel mezzo col Sigma e la Theta, sigla della società ferroviaria (Sideròdromos Thessalìas), le sfacettature delle bottiglie di cristallo, infilate negli anelli di metallo lucido, scintillavano (miroitaient) alle scosse della corsa. Raggi di raso grigio convergevano nel centro del soffitto, intorno alla conca della lampada. E di là dai finestrini passava ora un minareto mozzo, ora una cicogna gibbuta e ritta su una zampa sola, ora la guida argentea del Peneo, ora i gruppi atletici delle Meteore. E talvolta, che il treno si fermava in aperta campagna, per quelle ragioni che nessuno, nemmeno i tecnici, sanno spiegare, un centauro venerabile, grondante peli e fili di erba, si avvicinava al nostro “saloncino”, si fermava a guardare da dietro il vetro noi che stavamo mangiando il pilàf con lo spezzatino d’abbacchio o tagliando nello spicchio a barca la polpa di un odoroso popone. Mio padre gli faceva cenno di favorire, ma il venerabile ippàntropo continuava a guardare senza rispondere, poi, come rinunciando a capire, se ne andava con un piccolo trotto stanco.
Passiamo davanti al treno calabrese. Spettacolo solito delle popolazioni meridionali. Spettacolo desolante. Poverismo. Tristezza. Umiliazione della fatica, soprattutto nelle donne – nelle povere donne. E l’infanzia brulicante e misera. Spettacolo che si ripete ovunque arrivano gruppi o lembi di queste popolazioni – sale d’aspetto dei nostri consolati, fumanti di miseria. Perché? Perché?… Io mi vergogno di questa vettura che ci aspetta, la sola sotto la quale uomini e donne non premono laceri e carichi di some, la sola dalla quale non grondano bimbi piangenti. Pudicamente, il “saloncino” ha le tendine abbassate.
Mancano venti minuti alla partenza. Siamo al binario 14. Su un altro binario sta per partire in direzione opposta il filo che l’altro ieri aveva fatto nodo, e due ore fa si è sciolto. Mi avvicino. Faccio in tempo a vedere la carrozza di coda che lentamente si allontana sul dedalo dei binari.
Cielo forbito. Cielo da cupola Fortuny3. (Che intolleranza tra il laccato verismo della cupola Fortuny e la ruvidezza dello scenario fatto a mano! Il vero messo a confronto col falso, è più falso del falso). Siamo al 12 del mese. In qualche parte di questo cielo spudoratamente puro, ci deve essere il filino d’argento della luna nuova. Se lo vedo a destra, il mese mi andrà bene; altrimenti guai! Cerco il filino attraverso la tettoia di questa stazione in confusa formazione4, ma non lo trovo. Sono come davanti a un pericolo che sento ma non vedo. Cammino a sghimbescio avanzando e sollevando la spalla destra. Devo somigliare a Gabriele D’Annunzio. Somiglianza di testa china e spalla sollevata, è la sola che accetto col Poeta soldato. Compro un giornale, cerco in cronaca il calendario. Trovo la temperatura ma non trovo l’orario della luna. Nell’estate del 1937, il mio amico Lacombe, professore di filò al liceo Condorcet di Parigi e comtiano, venne a trovarmi a Roma5. Un giorno stavamo al caffè e lui leggeva la «Tribuna». Lacombe non conosce l’italiano, ma essendo uomo colto conosce anche le lingue che non conosce. D’un tratto punta l’indice su una colonna della seconda pagina. Mi domanda: «Qu’est-ce que ça signifie?». Leggo che l’Ave Maria è alle ore 18. Sorrido da stupido. Come spiegare a quel positivista che in Italia l’orario è ancora associato alla preghiera? Questa ricerca propiziatoria della luna destra, io la ripeto ogni mese. Certuni mi domandano con stupore come mai io, uomo intelligente, tengo dietro a siffatte superstizioni da donnicciola. Credono costoro che l’intelligenza dissipa il metafisico della vita. Se così fosse, quale uomo intelligente accetterebbe di essere intelligente?
Pochi minuti prima della partenza, Roberto Tremelloni, ministro per l’industria e il commercio, arriva al treno scortato da un gruppetto di funzionari. Porta intorno alle labbra rotonde un piccolo ornamento di peli sale e pepe, ha due occhietti neri e lucidi da ragazzo italiano. Strette di mano e scambio di convenevoli: «Molto… molto lieto». L’automatismo di queste piccole formule di cortesia, non ha spento del tutto il loro senso magico. E con coscienza di significato che a certe persone io dico: «Molto lieto».
Continuo a cercare la luna nuova. Ora attraverso il vetro del finestrino, perché siamo fuori dell’abitato e il “saloncino” ha tirato su una tendina, come Pinocchio malato riapre un occhio quando i medici hanno voltato i tacchi. Poi la notte cancella il cielo, e io rimando all’indomani la ricerca della luna.
Questo viaggio ministeriale mi mostra la distanza tra il regime di ieri e il regime di oggi (se di regime oggi si può parlare). Come negare che l’Italia ha vestito anche i panni della democrazia e di un repubblicanismo scarso di mezzi? Malgrado il suo titolo di “saloncino”, questa vettura testimonia che del passato imperialismo non rimane traccia. Alcuni scompartimenti a cuccette, e di saloncino neppur l’odore. Per la cena il maestro di casa, che ha due occhi da batracio aperti sulle tempie a grande distanza uno dall’altro e ha cominciato a servir ministri sotto il gabinetto Facta, apparecchia in uno degli scompartimenti su due tavolinetti affiancati ma diversi di statura. Come “primo” arriva un risotto in bianco. Per il “secondo” ciascuno di noi è invitato a scegliere tra una fetta di prosciutto e un uovo al tegamino. Scelgo il prosciutto, ma quale sforzo mi costa anche una confessione così piccola! Un’arancia chiude la cena. Ha lasciato il fascismo alcune tracce di sé in questa vettura ministeriale?… Una sola. Nella ritirata. Dal sommo del tubo dell’acqua, avanza un bottone sul quale è scritto:“Premere”. L’uso dell’infinito con senso imperativo, era una forza verbale sotto il passato regime. “Credere, obbedire, combattere”. Cui bisogna aggiungere altri infiniti con senso imperativo, emanati non dall’autorità dittatoriale, ma da cittadini privati o tenuti per tali: “Vedere” per dare attenzione alle opere plastiche. “Sapere” per introdursi nel mondo della scienza. Nella regione che io vedrò nel sole di domani, l’infinito è sconosciuto. Leggo nella Guida dell’Italia Meridionale (vol. III, pag. 65): «Le popolazioni della Basilicata meridionale e dell’intera Calabria (e della Sicilia, della Puglia) hanno comune l’avversione all’infinito. A Catanzaro gli si sostituisce per lo più una proposizione secondaria introdotta da mu, a Reggio da mi: annu raggiuni mu ti chiamanu ciucciu». Aggiungo per parte mia che anche la Grecia moderna ha perduto l’infinito. Al greco moderno mancano quelle desinenze in ein che tanto infinito danno al greco antico, e bisogna unire una preposizione na alla prima persona singolare del presente indicativo. L’infinito non è greco. (Che l’abbia introdotto Platone, questo introduttore dell’asiatismo in Grecia?). Con che si vede che la Grecia moderna è più greca dell’antica, più “presocratica”. La mancanza d’infinito, mostra quanto greci sono i calabresi.
Quando dell’arancia non rimangono nel piatto se non le bucce e i semi, passiamo a parlare del piano Marshall. Roberto Tremelloni, che ha studiato questo piano e ne ha discusso a Parigi nella conferenza dei Sedici, me ne illustra la portata economica e il bene che ne verrà alla ricostruzione dell’Europa. Alla mia domanda se il piano Marshall nasconda fini di conquista, Tremelloni nega. Che è dunque quell’“egoismo”, quell’“imperialismo”, quel “padronismo” che altri scopre nel piano Marshall? Questo: l’America dà denari e lavoro agli altri, per salvare il proprio lavoro e i propri denari.
Difficile trovare quaggiù azioni del tutto disinteressate. La carità praticata dalle anime pie, è essa stessa volta a beneficio dell’anima pia che la pratica. Così io penso. Ma il mio pensiero, quando mi ritiro nella mia cuccetta e assisto alla impari lotta tra Ypnos che tenta di avvicinarsi a me e abbracciarmi e le scosse del treno che ogni volta lo ricacciano indietro, il mio pensiero va oltre il piano Marshall.

Il ferry-boat è una nave femmina

Arriviamo a Reggio alle 11. Il giorno è tralucente. Alcune ore avanti, mentre ancora era notte, attraverso la finestra del “saloncino” ministeriale nel quale io viaggio, avevo veduto brillare un fuoco in mezzo alle tenebre. Non determinai a tutta prima la vera natura di quel fuoco solitario, laggiù, su l’invisibile mare. Poi, per induzione geografica, capii che era lo Stromboli. Allora qualcosa di profondo avvenne in me. Come se avessi traversato una ineffabile soglia. Come se mi fossi affacciato a una stanza buia e sconosciuta. Mentre dormivo nella cuccetta traballante, ero entrato nella regione dei prodigi naturali; regione nuova per me, abituato alle terre spente e silenziose.
La “viva” natura è una cattiva compagna all’uomo. L’uomo non comincia ad aprirsi alla libertà, se non quando la natura intorno spenge i suoi fuochi e fa tacere le sue voci. (Come diversamente impostare il “problema” del Mezzogiorno?) E progredisce quindi nella conquista della libertà, via via che riesce – se ci riesce – a spengere dentro di sé i suoi propri fuochi e le sue proprie voci. E non conquisterà la piena libertà – se mai la conquisterà – se non quando avrà del tutto spento dentro di sé i fuochi e le voci. Quando? Non sembra imminente quel giorno, a veder quanto fuoco bestiale consuma tuttora l’umanità, a udir quanto vano boato esce tuttora dalle sue innumerabili bocche.
Guardo quel fuoco solitario nella notte con curiosità sì, ma un po’ delusa. Che altr...

Indice dei contenuti

  1. Copertura
  2. Titolo Pagina
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. Partita rimandata
  7. Note