I.
Il “pensiero debole” contro le pretese
di una “ragione onnipotente”
LA FILOSOFIA NASCE IN GRECIA, fuori dal cristianesimo. E sono poi esistite ed esistono filosofie che proibiscono la fede, che cancellano ogni spazio della fede. La fede, la fede cristiana, risulta, infatti, incompatibile con tutte quelle metafisiche totalizzanti che, nel corso del pensiero occidentale, hanno costruito “assoluti terrestri” configuratisi come altrettante negazioni dell’“Assoluto divino”. Così, per esempio, se fosse vero il positivismo, la fede sarebbe unicamente illusione, residuo di mentalità sorpassate; se Hegel avesse ragione, allora la religione sarebbe, dal più al meno, solo avvistamento mitico di alcune verità che poi la ragione filosofica disvelerà in tutta la loro pienezza e fondatezza; se il materialismo dialettico fosse vero, la fede sarebbe null’altro che alienazione; se il neopositivismo fosse valido, gli asserti religiosi sarebbero dei puri e semplici nonsensi, sarebbero – per dirla con A.J. Ayer – solo materiale per lo psicanalista; se la metafisica psicoanalitica freudiana fosse vera, la fede non sarebbe niente di diverso da «una universale nevrosi ossessiva»; se il materialismo psico-fisico fosse vero, la fede nell’immortalità dell’anima diverrebbe insostenibile; se lo Stato etico fosse una istituzione valida, la religione sarebbe solo un instrumentum regni.
Questi sono soltanto degli esempi di assoluti terrestri. E c’è da dire che la filosofia contemporanea in alcune sue punte più avanzate e consapevoli (Kelsen, Popper, Gadamer, Hayek, per esempio) ha esattamente costruito gli strumenti concettuali più efficaci per la demolizione di questi assoluti terrestri. E siffatto lavoro di demolizione è necessario e oggi sempre più urgente: la fede, infatti, non è possibile in un universo in cui l’uomo fosse solo corpo; in un universo in cui quello scientifico fosse l’unico linguaggio dotato di senso; in cui il senso della vita del singolo e dell’umanità nella sua interezza fosse determinato da ineluttabili leggi di sviluppo della storia; in cui il tutto della realtà si risolvesse nel solo universo fisico. Quindi: perché il messaggio religioso abbia lo spazio di ascolto è necessario che prima vengano distrutti gli “assoluti terrestri”.
Sta proprio qui la ragione per cui negli anni passati io ho preso in seria considerazione il pensiero debole di Gianni Vattimo: in accordo con alcuni risultati più importanti della filosofia del secolo xx, Vattimo ha, in sostanza, proposto l’idea di una ragione limitata, ha insistito sulla finitezza dell’uomo e sulla storicità dei suoi prodotti, ha combattuto – per usare un’espressione di Hayek – l’abuso della ragione. L’aver concentrato l’attenzione sul rapporto tra linguaggio e realtà, e sulla situazione “interpretativa” caratteristica di tutta l’esistenza; l’esistere visto come lo stare in rapporto ad un mondo, rapporto condizionato e reso possibile dal fatto che si dispone di un linguaggio; l’insistenza sulla radicale storicità dei linguaggi, e quindi sulla temporalizzazione degli apriori; l’“offuscamento” della nozione di verità; la devastazione del mito dell’evidenza; la presa di congedo dalla categoria del progresso e del superamento, e quindi la fine della modernità; la dissoluzione della filosofia fondazionale, dell’idea cioè che si dia una fondazione unica, ultima e normativa; un atteggiamento né illuministico né romantico, ma rispettosamente critico nei confronti della tradizione; un’etica della pietas verso ciò che proviene dal passato; una politica della tolleranza; «una concezione dell’emancipazione in termini di interferenza più che di riconciliazione del soggetto con se stesso»: questi sono alcuni dei tratti del pensiero debole. Quello di Vattimo, in breve, è un pensiero che prende con decisione le distanze dagli idoli innalzati da presunzioni di un razionalismo oggi improponibile.
2.
Radici antiche
di una controversia recente
NE LE RAGIONI DEL PENSIERO DEBOLE (Borla, Roma, 1993, 19952) misi in luce che il pensiero debole non era affatto un pensiero necessariamente antireligioso o, più in particolare, anticristiano. Cercai di far vedere come il pensiero debole, eliminando gli assoluti terrestri, rendesse libero lo spazio della fede. E parlai dei limiti della ragione stabiliti da Kant; richiamai Pascal e Montaigne. E mi soffermai un po’ più a lungo sulla polemica tra Pierre-Daniel Huet e Lodovico Antonio Muratori – una polemica che costituisce un momento significativo della controversia tra pensiero debole e pensiero forte, in vista della soluzione del problema religioso1.
Nel 1745, a Venezia, esce il libro del Muratori dal titolo: Delle forze dell’intendimento umano o sia il pirronismo confutato. Trattato di Lodovico Antonio Muratori bibliotecario del Serenissimo Signor Duca di Modena, opposto al libro del preteso Monsignor Huet intorno alla debolezza dell’umano intendimento2. Qui il Muratori si impegna a fondo nel dimostrare che i “pirronisti” sbagliano quando asseriscono che non esiste un criterio di verità3; che il pirronismo «estingue ogni lume delle scienze»4; che i pirronisti solo indebitamente tentano di negare «la fedeltà dei sensi»5; che essi ingiustamente screditano la ragione6; che è illusorio pensare che il sistema dei pirronisti «prepari l’uomo a ricevere la fede di Cristo»7.
Muratori – rappresentante della ragione forte – scrive questo libro contro Pierre-Daniel Huet. Il Vescovo di Avranches, Pierre-Daniel Huet, in precedenza fervente cartesiano (e quindi metafisico fondazionista) scrisse un’opera che, appena dopo la sua morte, viene pubblicata a Padova nel 1724 in edizione italiana. Stiamo parlandò del Trattato filosofico della debolezza dello spirito umano8. È questa appunto l’opera presa di mira dal Muratori.
La filosofia è «ricerca della verità». Ma – si chiede Huet – può l’uomo raggiungere verità certe? No, egli risponde. E quello che davvero conta è ammettere che «l’huomo non può conoscere la verità con una perfetta certezza, mediante l’aiuto della sua Ragione»9. L’umana ragione, ad avviso di Huet, non è capace di un «vero sapere»10. E tale incapacità si ha perché «manca una regola certa della verità»11. Non esiste criterium, scrive Huet, non esiste cioè una regola o un mezzo che in maniera definitiva permetta di distinguere il vero dal falso12: i sensi ci ingannano, l’intelletto è fallibile e l’evidenza spesso «ingannatrice»13. Certo, «la sperienza al contrario è utilissima»14, e sebbene le nostre opinioni – intese quali giudizi verosimili – servono bene agli usi della vita, «esse bisogna sempre tenerle per dubbiose»15. Stando così le cose, risulta che «quelli i quali si applicano alla ricerca della verità chiara e costante, e che non sia oscurata da alcun dubbio, fanno una fatica inutile, e perdono il loro tempo, essendo questa verità sopra la capacità dell’intelletto humano»16. E due, sottolinea Huet, sono i fini che la consapevolezza della debolezza della ragione umana permette di raggiungere: 1) «il fine primario è di schivare l’errore, l’ostinazione, l’arroganza»; 2) ma ben più importante è «il fine lontano», il quale consiste nel «preparare lo spirito a ricevere la fede»17.
Dunque: tra una ragione umana che pretende di fondare la fede, e una ragione che invece più modestamente, ma con maggiore efficacia teorica, apre alla fede, Huet sta per una ragione che apre alla fede. Ebbene, non dobbiamo forse ammettere che oggi il progetto di Huet appare in tutto il suo splendore razionale e in tutta la sua forza apologetica?. In breve:...