Le metamorfosi della città
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Le metamorfosi della città

Saggio sulla dinamica dell'Occidente

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Le metamorfosi della città

Saggio sulla dinamica dell'Occidente

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Nel momento in cui l'Europa attraversa una crisi che appare al contempo politica e spirituale, Pierre Manent propone agli europei un illuminante percorso attraverso i momenti fondatori, i concetti orientativi e i più autorevoli interpreti della loro storia. Per riportare alla luce le ondate che accompagnano invisibilmente la turbolenta navigazione dell'uomo moderno, Manent esamina l'esperienza originaria della polis greca, il perdurante enigma delle trasformazioni di Roma e il rapporto tra le città degli uomini e la questione di Dio ravvivando imparzialmente il dialogo con Omero e Aristotele, Cicerone e Agostino, Machiavelli e Montesquieu, Montaigne e Rousseau. Per ritrovare i termini esatti del problema umano, il filosofo francese rinnova la discussione del nesso tra l'univer- sale e la mediazione, la scienza e l'azione, l'uomo e il cittadino. Si tratta per Manent di considerare la dinamica occidentale e la situazione pre- sente alla luce della più completa comprensione del comune e del governo degli uomini. La successione e la dialettica tra le forme politiche (Città, Impero, Chiesa e Nazione) che questo libro ricostruisce delineano così una prospettiva in cui l'incessante movimento dell'umanità odierna è ricondotto all'interno della più ampia e adeguata questione della vera comunità universale, o delle fonti e dei criteri dell'operazione umana: le metamorfosi della città sono a ben vedere le esperienze in cui l'umanità ha pensato, governato e dunque realizzato se stessa, cercando la legge e la cornice della propria azione. Attraverso lo sguardo che Manent offre agli europei il mondo non si mostra più un «processo» autonomo, irresistibile e creatore di «valori» o di «immagini», bensì il luogo intelligibile del confronto tra possibilità politiche e versioni dell'universale che occorre ancora meditare e incarnare.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788849839708
Argomento
Filosofia
PARTE SECONDA
L’enigma di Roma

1. Roma e i Greci

La nostra indagine è mossa e orientata dalla questione delle forme politiche. Le due grandi forme politiche, le due forme madri del mondo antico sono la città e l’impero. Forme madri, la città e l’impero sono anche le forme polari: la città è la ristretta cornice di una vita agitata nella libertà, mentre l’impero è l’ambito immenso di una vita pacifica sotto un padrone. È chiaro come il sole che è impossibile passare direttamente da una forma all’altra. Nel mondo greco, se l’impero di Alessandro «succedette» alla città, esso non uscì dall’una o dall’altra delle due città dominanti, Atene o Sparta, né da Tebe, ma dalla «monarchia tribale» di Macedonia. Si tratta del resto di una sorta di regola generale, di una specie di legge della fisica delle forme politiche: queste non si trasformano direttamente l’una nell’altra. Abbiamo vicino a noi l’esempio dell’Europa stessa: le nazioni moderne non sono nate dalle città medievali, bensì da quegli strani corpi politici che furono le monarchie nazionali prodotte da un operatore politico proprio all’Europa, il «re cristiano». L’esperienza storica greca, così come quella europea, dimostra che le forme politiche sono davvero delle forme, vale a dire che, se ciascuna di esse ha ovviamente una propria genesi, non sono dei momenti o degli aspetti di un processo, ma esistono in se stesse, e dall’una all’altra non vi è continuità ma rottura. Ora, a questa regola o legge vi è un’eccezione, unico esempio di una forma politica che si trasforma direttamente in un’altra, di una città che si trasforma direttamente in un impero. A Roma, o a partire da Roma e sotto il nome di Roma, si è sviluppato un fenomeno politico propriamente unico, un fenomeno che oserei dire contrario all’ontologia stessa del politico, cioè la continuità e la comunicazione effettive e dirette tra le due forme madri e opposte, la città e l’impero.
Perché lo sviluppo di Roma, che cominciò anch’essa come una città, fu così diverso da quello di Atene? È un problema che gli storici incontrano necessariamente, ma che è raramente tematizzato dalla scienza politica sebbene esso tocchi una fondamentale questione dell’ordine politico. Dove risiede la differenza tra la dinamica di Atene e quella di Roma? È dunque questa la questione che dobbiamo porci.

ATENE E ROMA

Per questa indagine di «fisica politica comparata» possiamo partire da un fenomeno d’opinione molto rivelatore: a dispetto delle spaventose calamità legate alla sua storia, Roma ha goduto nel corso dei secoli di un immenso prestigio, mentre, a dispetto della gloria dei suoi filosofi e dei suoi artisti, Atene non fu mai considerata come un oggetto politico degno di imitazione né, prima del XIX secolo, di ammirazione. Di questa disparità di trattamento troviamo un’espressione particolarmente eloquente nel documento che esplicita e giustifica la prima fondazione repubblicana dell’epoca moderna, cioè nei Federalist Papers1.
Prendiamo l’articolo IX, redatto da Hamilton, e leggiamo il primo paragrafo:
Una solida unione sarà di ancor più grande importanza per la pace e la libertà degli Stati opponendo una barriera alle fazioni intestine e alle insurrezioni. Non si può leggere la storia delle piccole repubbliche greche e italiane senza sentirsi presi dall’orrore e pieni di disgusto per lo spettacolo dei disordini da cui esse erano continuamente agitate e da quella rapida successione di rivoluzioni che le tenevano in uno stato di perpetua oscillazione tra gli eccessi del dispotismo e dell’anarchia. Se la calma vi riappare per caso è solo per formare un effimero contrasto con le terribili tempeste che la seguono. Se, di tanto in tanto, la vista si posa su qualche intervallo di felicità non vi si può fermare senza un misto di rimpianti pensando che quelle ridenti scene scompariranno sotto le ondate burrascose della sedizione e della rabbia dei partiti. Se qualche raggio di gloria squarcia per un momento quelle tenebre non ci abbaglia con un bagliore passeggero e incerto che per farci deplorare con ancor più amarezza i vizi di un governo che ha pervertito la direzione e offuscato il lustro di quei brillanti talenti e di quelle eroiche qualità che sono valse una così giusta celebrità alla terra che li ha prodotti2.
Il giudizio politico è inequivocabile: «perpetua oscillazione tra gli eccessi del dispotismo e dell’anarchia».
Cito ora l’articolo X, redatto da Madison:
Da tutto ciò occorre concludere che una democrazia pura, voglio dire una società composta da un piccolo numero di cittadini che si riuniscono e si autogovernano, non comporta alcun rimedio contro i danni delle fazioni (no cure for the mischiefs of faction)3.
No cure! Alcun rimedio! Un po’ dopo Madison spiega che grazie alla rappresentanza politica siamo in grado di guarire la malattia altrimenti incurabile della democrazia: «Una repubblica, intendo con ciò un governo in cui l’idea della rappresentanza (the scheme of representation) esiste, apre una diversa prospettiva e promette il rimedio che cerchiamo». E spiega in cosa la repubblica differisca dalla «pure democracy» – che noi chiameremmo piuttosto democrazia diretta:
La democrazia e la repubblica differiscono in due punti essenziali: 1) la delega del governo, nella repubblica, a un piccolo numero di cittadini eletti dal popolo; 2) il maggior numero di cittadini e la più vasta superficie territoriale su cui la repubblica può estendersi4.
Non possiamo soffermarci sulla questione, così interessante, del governo rappresentativo – la grande invenzione politica moderna. Atteniamoci al confronto tra Atene e Roma. Abbiamo potuto osservare che Hamilton non includeva Roma nelle «piccole (petty) repubbliche greche e italiane». Non che provasse necessariamente molta simpatia per Roma, che nell’articolo VI definisce «insaziabile di conquiste e di carneficine»5. Ma Roma costituiva probabilmente un caso diverso poiché nell’articolo XXXIV, dopo aver analizzato un difetto apparentemente redibitorio delle istituzioni politiche romane – cioè il fatto che l’autorità legislativa risiedesse in due legislature indipendenti e rappresentative degli interessi contrapposti, i Comitia centuriata e i Comitia tributa –, Hamilton conclude: «Eppure quei due organi legislativi coesistettero per secoli e la repubblica romana raggiunse le più alte vette della grandezza umana». Quali che fossero le sue colpe o i suoi vizi, Roma non era petty.
Se volessimo dare un’idea un po’ più completa della valutazione che i Padri fondatori esprimevano su Roma, dovremmo citare l’articolo LXIII del Federalista, redatto probabilmente da Madison, uno di quelli dedicati a provare l’utilità di un senato.
Il nostro proposito non era qui tanto di ricapitolare l’opinione che i più avveduti repubblicani dell’epoca moderna avevano di Roma, quanto di prendere la misura del dispregio in cui essi tenevano Atene in quanto corpo politico. Noi non possiamo ovviamente attenerci a quella opinione, per quanto autorevole essa possa essere. Noi non possiamo accontentarci di dire che una città come Atene era in preda alle fazioni e oscillava senza tregua tra la tirannia e l’anarchia, il che del resto non è esatto come suggeriscono sufficientemente le indicazioni che abbiamo dato nella nostra prima parte. Dobbiamo formarci un’idea un po’ più precisa di ciò che fu, politicamente, Atene. Senza entrare affatto in una narrazione storica, dobbiamo cercare di ritrovare lo schema dinamico della storia ateniese. Disporremo così di un termine di paragone che ci permetterà poi di cogliere meglio ciò che lo sviluppo politico romano ebbe di proprio e singolare.
Atene e Roma ebbero molti tratti comuni, essendo entrambe città indipendenti e repubbliche libere. Che cosa ebbero soprattutto in comune? Quale tratto, quale caratteristica? Secondo l’osservazione di Platone «[ogni città] è moltissime città e non una città […]. Ve ne sono innanzitutto due, quale che sia la città, in guerra l’una contro l’altra: quella dei poveri e quella dei ricchi»6. Nel linguaggio moderno noi diremmo che il principio del movimento, ad Atene come a Roma, era la lotta di classe, o la guerra tra le classi. Quella guerra assunse però nei due casi forme molto diverse. Cominciamo considerando in questa prospettiva la storia di Atene.
Il riassunto della storia politica di Atene più suggestivo e più illuminante per il nostro discorso si trova nella Costituzione degli ateniesi di Aristotele.
Nel testo di cui disponiamo (l’inizio del trattato è andato perduto), l’esposizione di Aristotele comincia da Solone. Solone, ci dice Aristotele, fu «il primo a divenire un capo del popolo (tou dèmou prostatès7. Prima delle riforme che egli introdusse vi erano discordie tra la nobiltà e il popolo. Il regime – è politeïa – era infatti oligarchico: i poveri, con le loro donne e i loro figli, erano schiavi o servi – edouleuon – dei ricchi. Secondo l’impressionante formula di Aristotele, essi non avevano «per così dire parte a nulla (oudenos […] metechontes8. Non vi è allora nulla di sorprendente nel fatto che il popolo si rivolti contro i nobili e che le discordie divengano violente. Alla fine i due partiti scelsero di comune accordo Solone come mediatore e arconte e gli affidarono lo Stato – tèn politeïan. Accadde allora che questi aveva composto un poema – una «elegia» – sulla situazione del suo Paese, poema in cui, dice Aristotele, «egli combatte per i due partiti contro i due partiti»9.
Non servirebbe a nulla per il nostro discorso seguire nel dettaglio l’esposizione di Aristotele. Vorrei soltanto far risaltare qualche punto. Aristotele osserva che Solone «attribuisce in generale la responsabilità del conflitto (stasis) ai ricchi»10. Un po’ dopo, commentando un’accusa rivolta a Solone – gli si rimproverava in sostanza un «reato di insider trading» –, Aristotele dice che «la versione degli amici del popolo sembra più degna di fede»11. Fa poi l’elenco delle misure democratiche promulgate da Solone per alleviare il popolo. La più famosa è ovviamente l’annullamento dei debiti (seisachtheïa). Sottolineando i tratti più democratici della costituzione di Solone, Aristotele attribuisce un posto particolare al diritto di appello a una giuria popolare, poiché, dice, quando il popolo è padrone di votare nelle corti giudiziarie è padrone dello Stato – kurios tès politeïas12. Il carattere più peculiare di Solone risiede nel fatto che fu al contempo il capo del popolo e l’arbitro o il mediatore imparziale tra il popolo e i ricchi, o i nobili. È come tale che egli dà la chiave – che dà il la, la nota tonica – di tutta l’ulteriore storia politica ateniese. A partire da quel momento Atene va verso la democrazia, cioè verso una democrazia sempre più democratica, con i suoi migliori cittadini che cercano una giustizia arbitrale tra le pretese del piccolo numero e quelle del gran numero. Roma organizzerà gli stessi elementi – i ricchi, i poveri e le loro discordie – secondo una diversa formula, e soprattutto imprimerà loro un movimento completamente diverso.
Il leitmotiv dell’esposizione dello sviluppo ateniese dopo le riforme di Solone è dato da aggettivi o da verbi derivati d...

Indice dei contenuti

  1. Le metamorfosi della città
  2. Colophon
  3. Indice
  4. La città e l’anima. La ragion comune di Pierre Manent di Giulio De Ligio
  5. Prefazione all’edizione italiana
  6. Introduzione La dinamica occidentale
  7. PARTE PRIMA L’esperienza originaria della città
  8. PARTE SECONDA L’enigma di Roma
  9. PARTE TERZA L’impero, la Chiesa, la nazione
  10. APPENDICI
  11. Roma come problema filosofico
  12. Che cos’è una nazione?