L'altro Islam
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Dopo Platone, mentre in Europa la filosofia della politica e della storia attendevano ancora un Machiavelli per vedere compiutamente la luce, nel mondo islamico si assisteva alla fioritura di intellettuali destinati a lasciare un segno profondo nella storia del sapere, come al-Farabi (870-950) e Ibn Khaldun (1332-1406). A partire da loro è possibile tracciare i caratteri fondamentali che determinano la stabilità dei sistemi politici anche in presenza di grandi migrazioni e di civiltà i cui confini non sono tracciati da rigide frontiere, quanto piuttosto da aree di influenza politica e culturale. Spirito di corpo, coloritura della mentalità e capacità di integrazione sono alcuni dei fattori su cui maggiormente gli intellettuali musulmani concentravano la loro attenzione. Da ciò emerge una dottrina del pluralismo quale elemento centrale di una originale analisi politica. Gli autori del volume la sviluppano sia in relazione alla storia dei grandi imperi del passato, sia nei confronti di alcune delle più significative e recenti crisi politiche e sociali.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788849844153

PRIMA PARTE

L’Islam e le trasformazioni della storia

1.

Le lacune della filosofia politica

NEL PERIODO IN CUI LA FILOSOFIA della politica e della storia non era ancora nata in Europa, si è assistito alla fioritura di una vasta scuola islamica, per opera di gruppi di intellettuali musulmani destinati a lasciare un segno profondo nella storia del sapere, come al-Farabi (870-950), che poneva le basi della filosofa politica, la ‘ilm madani, e Ibn Khaldun (1332-1406), il primo a elaborare una Muqaddima, uno studio sulle premesse concettuali della «storia universale».
Senza un confronto con la tradizione islamica, nello studio delle scienze politiche si determinerebbe una grave lacuna. A partire dalle premesse poste dai greci, infatti, in Occidente la riflessione sul carattere delle diverse tradizioni politiche ha avuto inizio solo con il Rinascimento. Il lasso di tempo che corre da Platone all’inizio del XVI secolo è notevolissimo, come se per molti secoli il mondo intellettuale non avesse prodotto nulla di rilevante per una migliore comprensione della vita politica dei popoli. Lo stesso Machiavelli sottolineava nel proemio ai suoi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, che egli aveva intrapreso una strada del tutto nuova, non essendo suta ancora da alcuno trita1.
Ogni filosofia della storia si nutre di una specifica storiografia. Machiavelli viveva in un’epoca in cui l’Europa aveva già trovato un assetto che, mutatis mutandis, non sarebbe cambiato in maniera significativa nel corso dei secoli successivi. I grandi Imperi si sarebbero costituiti al di fuori dei confini continentali, senza mutare eccessivamente gli equilibri interni tra le diverse compagini nazionali. Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, lo stesso frammentario scenario italiano, erano soggetti politici che avrebbero segnato la continuità dei secoli successivi fino alla nascita dell’Unione europea.
Significativamente, Machiavelli scriveva le sue opere principali dopo il 1492, data che rappresenta una netta cesura nella storia della civiltà mediterranea. Con l’affermarsi dell’ideologia della limpieza de sangre e la cacciata degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna, si interrompeva, infatti, una tradizione di pluralismo politico e culturale che aveva profondamente segnato l’esperienza europea a partire dalla Spagna e dall’Italia, dove, almeno fino alla distruzione della colonia di Lucera nel 1300, si era consolidata un’importante comunità islamica. È in quest’epoca, come vedremo, che si affaccia in Europa l’esclusivismo etnico religioso.
Dopo Machiavelli, la filosofia e la filosofia politica in particolare conosceranno in Europa uno sviluppo straordinario. Hobbes, Kant, Hegel, tra gli altri, sono ancora oggi punti di riferimento per una riflessione sui problemi principali delle moderne democrazie. Ma la globalizzazione, intesa come relativizzazione delle frontiere nazionali, come internazionalizzazione dei processi economici e comunicativi, costituisce un elemento del tutto nuovo nella storia occidentale. Anche i più recenti interpreti della filosofia politica si sono trovati a dover correggere il tiro delle loro formulazioni. Partendo da La teoria della giustizia (1971), l’americano John Rawls (1921-2002), uno dei maggiori filosofi della politica del XX secolo, ha progressivamente ampliato in senso pluralista la sua concezione politica della giustizia, in modo da poter considerare anche le diverse dottrine di carattere religioso, filosofico e morale che sempre di più si confrontano nel mondo contemporaneo2.
Gli autori europei, dal Rinascimento in poi, in massima parte sono stati esclusi da una approfondita riflessione su alcune grandi trasformazioni storiche come quelle relative alla caduta dell’Impero persiano (650), alla nascita del Califfato abbaside (750), oppure alla creazione dei regni che si sono avvicendati lungo la Via della Seta, dal Mediterraneo all’Asia centrale, fino alla invasione del mongoli nel XIII secolo, alla caduta di Baghdad (1258) e alla formazione dell’Impero timuride (1370): cicli storici scanditi da migrazioni di interi popoli, epoche che hanno visto la nascita e la fine di Imperi multietnici di notevoli dimensioni, i cui confini non erano tracciati da rigide frontiere, quanto piuttosto da aree di influenza politica e culturale. La globalizzazione, in tal senso, non è stata un fenomeno nuovo della storia, anche se, dopo il 1492, con la scomparsa del pluralismo culturale e religioso dalla Spagna e dalla Sicilia, la Reconquista dei Re cattolici ha segnato una profonda spaccatura nel Mediterraneo, che fino ad allora aveva vissuto una sostanziale unità3. A partire da quell’epoca sono venuti meno Paesi e regioni che avevano svolto un ruolo di ponte tra le differenti civiltà, come l’Andalusia, per cui si è assistito alla fine dei rapporti organici tra Oriente e Occidente. Basti pensare solo al fatto che le università occidentali, a cominciare da quella di Bologna (fondata nel 1088), sono state strutturate sul modello delle madrase islamiche, la più antica delle quali è probabilmente quella di al-Qarawiyyin a Fez, in Marocco, inaugurata nell’8574. Non è da escludere, comunque, che gli stessi studi sociali durante il Rinascimento europeo siano improvvisamente progrediti anche grazie a una più ampia circolazione di opere, molte delle quali provenienti dal mondo islamico. Queste ultime attiravano l’attenzione degli studiosi, ma anche della censura ecclesiastica, al punto che in molti casi si preferiva tacere le fonti, per non incorrere nella condanna pontificia.
Potrebbe valere in tal senso l’esempio di Pico della Mirandola (1463-1494), modello dell’intellettuale umanista dell’epoca. Nel corso della sua formazione filosofica, Pico fin da giovanissimo si era consacrato allo studio delle lingue semitiche – ebraico, arabo, caldaico – sotto la guida del suo maestro Flavio Mitridate, ebreo di origini siciliane5. Era anche in possesso di una copia del Corano in arabo, come risulta da una corrispondenza di Marsilio Ficino dell’8 settembre 14866. Deciso a confrontarsi con i dotti dell’epoca, Pico li invitava a un pubblico incontro, che sarebbe dovuto avvenire il 7 gennaio 1487, forse addirittura presso il collegio cardinalizio, presieduto da papa Innocenzo VIII. Il rapporto con la cultura islamica doveva essere tanto evidente che il Papa annullava l’incontro romano e promuoveva una commissione per esaminare l’ortodossia delle idee di Pico. Tredici delle sue tesi venivano condannate e si apriva così uno scontro con la Chiesa che sarebbe durato in pratica, tra ritrattazioni e pentimenti, fino alla fine della breve vita dello studioso. Anche il suo maestro ebreo fu perseguitato: arrestato nel marzo 1489, a Viterbo, i suoi libri vennero confiscati e Pico inutilmente cercò di recuperarli7. Uno dei frutti più significativi della sua eclettica formazione intellettuale, l’Oratio de hominis dignitate (Discorso sulla dignità dell’uomo), con il quale Pico avrebbe dovuto introdurre la discussione delle sue 900 tesi filosofiche, sarebbe stato pubblicato solo due anni dopo la sua morte, nel 1496.
Nella prima versione dell’Oratio si affermava esplicitamente la sostanziale continuità della filosofia occidentale con quella greca e araba. Il passo, però, scompariva nella versione definitiva del Discorso.
I testi più sacri e i misteri più segreti è necessario chiederli prima agli ebrei, ai caldei, poi ai greci. Le altre arti e la filosofia in genere gli arabi le condividono con i greci8.
Tuttavia anche nella versione definitiva del Discorso, Pico della Mirandola cita gli autori arabi dei quali è direttamente debitore:
Tra gli Arabi, in Averroè troviamo una fermezza incrollabile, in Avempace e in al-Farabi una ponderata riflessione, in Avicenna una divina sublimità platonica9.
L’intero impianto dell’Oratio sembra essere debitore di una impostazione umanistica tipica del mondo islamico, in particolare il tema della dignità umana e del ruolo che l’umanità svolge in relazione alle altre creature, una funzione che manifesta l’unità nella molteplicità dell’intero universo. Il riferimento a fonti islamiche si ritrova così anche nelle prime righe della versione definitiva di Pico, per quanto in forma sintetica.
Ho letto, molto venerabili Padri, nelle fonti degli Arabi, che Abdalla Saraceno, interrogato su che cosa, in questa sorta di scena del mondo, scorgesse di sommamente mirabile, rispose che non scorgesse nulla di più mirabile dell’uomo. Con questo detto concorda quello famoso di Mercurio: «Grande miracolo, o Asclepio, è l’uomo»10.
Tra le ipotesi avanzate per individuare l’Abdalla Saraceno citato da Pico, spicca quella di Pier Cesare Bori relativa a una sua identificazione con Anselm Turmeda (1355-1423), un monaco francescano originario di Palma di Majorca, che aveva studiato teologia a Bologna tra il 1376 e il 1386, con Nicola Martello, futuro arcivescovo di Ragusa (Dubrovnik)11. La sua vicenda è rimasta per molto tempo occultata, anche se dimostra come almeno fino a quell’epoca gli scambi di uomini e idee tra le diverse «civiltà» del Mediterraneo fossero ancora relativamente frequenti.
La figura di Anselm Turmeda è dunque emblematica di come i rapporti con il mondo islamico si mantenessero anche per tutto l’inizio del Rinascimento. Dopo gli studi bolognesi, Turmeda si recò in Sicilia e da qui a Tunisi, dove si convertì all’Islam e sarebbe vissuto fino alla fine della vita. Prese il nome ‘Abdallah e il soprannome di al-Tarjuman, il traduttore, divenendo il capo della dogana. Parlava correntemente, oltre al castigliano, anche l’italiano, il francese e l’arabo. Intorno al 1398 cominciò a scrivere alcune opere letterarie che godranno di un buon successo anche nel mondo cristiano. Del suo Libro del buon consiglio, per esempio, tra il 1635 e il 1821 si contano più di trenta edizioni, tanto da diventare un punto di riferimento per decine di generazioni di cristiani catalani, in massima parte ignari dell’appartenenza islamica dell’autore. Del 1417, invece, era la Disputa dell’asino, conservatasi solo in una versione francese del 1544. L’opera è quella a cui Pico della Mirandola avrebbe potuto fare riferimento all’inizio della sua Oratio. Si tratta di una favola sapienziale che vede l’uomo e gli animali disputare su quale delle creature abbia maggiore dignità. L’uomo sta per soccombere, ma alla fine riesce a spuntarla facendo riferimento alla funzione centrale che l’umanità riveste nelle Sacre Scritture12.
Non è escluso, quindi, che durante la fase formativa del pensiero rinascimentale vi fossero ancora ampi e regolari scambi culturali con il mondo islamico. Tuttavia, è evidente che questi si siano sempre più rarefatti fino a divenire quasi del tutto inesistenti o insignificanti durante il periodo coloniale.

2.

Lo Stato virtuoso

SE PARLIAMO DI MODELLO ISLAMICO di filosofia politica, non intendiamo sottolineare un particolare carattere confessionale, quanto semplicemente indicare che si tratta di un’elaborazione avvenuta all’interno di una determinata civiltà, a opera principalmente di intellettuali di estrazione musulmana. Dal punto di vista culturale, però, la civiltà islamica non solo non è stata autoreferenziale, come nessuna civiltà lo è mai stata integralmente, ma ha svolto largamente un’opera di diffusione di istanze provenienti da altre tradizioni intellettuali, da quella indiana a quella, in particolare, greca. A differenza di quanto accadrà in ambito rinascimentale, il platonismo dei filosofi musulmani non è solo frutto di una cultura libresca, ma deriva dalla conoscenza diretta degli ultimi eredi della scuola di Platone, in continuità con il patrimonio intellettuale comune maturato intorno alle sponde del Mediterraneo.
Dopo la chiusura dell’Accademia di Atene da parte di Giustiniano, infatti, nel 529 d.C. alcuni neoplatonici si rifugiavano in Persia, aprendovi dei centri di insegnamento. Quando gli arabi conquistarono il Paese nel 651, trovarono ad Harran un’accademia neoplatonica ancora attiva. La città divenne così uno dei primi luoghi di insegnamento e un centro di traduzione. Il recupero dei testi classici e la loro traduzione in arabo, la lingua delle élite culturali dell’epoca, era solo uno degli aspetti di una più generale trasmissione diretta da maestro a discepolo.
Curiosamente il mondo occidentale si considera il solo depositario dell’eredità greca, dimenticando che questa ha goduto e gode tutt’ora di largo credito nel mondo islamico, il quale l’ha fatta interamente propria, anche per quanto riguarda i suoi aspetti più spirituali. La concezione del bene ultimo, dell’uomo come della società, che si ritrova nella civiltà islamica, è analoga a quella della tradizione greca. Per molti tra i maggiori intellettuali musulmani, la felicità, sa’ada, si raggiunge quando l’uomo è in sintonia con la sua natura più profonda e con i principi ispiratori dell’intero universo. Se l’universo è unico e unito nei suoi fondamenti, allora anche l’uomo avrà come sua aspirazione più profonda quella di essere una parte di un tutto, di realizzare l’unità nella molteplicità e la molteplicità nell’unità. Per questo, il fine ultimo della filosofia politica è quello di realizzare una prospettiva unitiva e pluralista della società, pur dando coesione e coerenza all’intero corpo sociale.
La tradizione islamica dedica una notevole attenzione ai caratteri del buon governo, così come ai pericoli dell’ingiustizia sociale. Uno Stato giusto sarà anche uno Stato stabile, mentre la mancanza di giustizia reca sempre con sé il pericolo dell’anarchia e del declino dell’autorità pubblica.
Indicare quali siano i requisiti di uno Stato giusto è il tema di una delle opere principali di al-Farabi: La Città virtuosa. Come già per Platone, secondo al-Farabi l’individuo è un essere sociale:
L’uomo ha per natura bisogno, per sussistere e per pervenire alla più eccellente perfezione, di molte cose che non è possibile acquisisca tutte da solo […]. Dunque, per il concorrere di ciò che tutta la comunità è in grado di offrire, ciascuno riceverà quanto gli è indispensabile per sopravvivere e per attingere la felicità1.
Necessità e natura portano l’individuo a collaborare con i suoi simili per affrontare le contingenze della vita quotidiana. Modello di società è la città, la polis, da cui deriva lo stesso termine politica, intesa come organismo sociale complesso, nel quale la collaborazione delle diverse parti al bene comune assume un carattere di particolare rilievo. La divisione del lavoro per condurre le varie attività è solo un esempio di quegli aspetti che richiedono la collaborazione tra individui.
L’uomo non è quindi un solitario, ma un essere che vive in comunità. Tuttavia, se non vi fosse un elemento unificante tra gli uomini, l’ordine sociale non si realizzerebbe. Secondo Platone, a fondamento del senso civico dell’uomo c’è il thymos, come avrebbe ripreso anche Fukuyama, l’«animo», insieme coraggio e spirito di iniziativa. È il thymos che muove i difensori dello Stato e li spinge a combattere le insidie esterne.
Sarebbe stato Ibn Khaldun il primo ad approfondire sensibilmente il carattere dei legami collettivi. Secondo lo studioso tunisino, la vera causa dell’attaccamento al corpo sociale non è tanto il thymos, inteso come qualità personale, quanto piuttosto un più generale «spirito di corpo»:‘asabiyya.
La radice da cui il termine deriva significa «circondare», nell’accezione di avvolgere da ogni parte. In tal senso, le prime aggregazioni sociali nascono parallelamente allo strutturarsi dei rapporti interni di fidelizzazione, così che la fortuna di un popolo risu...

Indice dei contenuti

  1. L’altro Islam
  2. Colophon
  3. Introduzione
  4. PRIMA PARTE: L’Islam e le trasformazioni della storia
  5. SECONDA PARTE: Il pluralismo degli antichi
  6. TERZA PARTE: La modernità e gli antagonisti del pluralismo
  7. QUARTA PARTE: La dialettica del pluralismo nel mondo contemporaneo
  8. Conclusioni Politica e migrazioni
  9. Note
  10. Indice