Viaggio in Calabria
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Viaggio in Calabria

  1. 108 pagine
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Viaggio in Calabria

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Il viaggio di un romantico nella Calabria del 1830, di cui sono protagonisti assoluti il "viandante" Charles Didier e la straordinaria natura della regione: altera e terrifica, suggestiva e ammaliante. Una natura che si popola di personaggi e vicende del mondo classico, ma anche dell'umanità calabrese contemporanea, con la quale Didier non disdegna mai il dialogo e di cui coglie e comprende sia l'emarginazione sociale ed economica, sia i fermenti politici che la vedono protagonista non secondaria delle vicende risorgimentali italiane, seguite con attenzione dallo scrittore svizzero francese per la parte relativa al Mezzogiorno. Una descrizione di paesaggi e atmosfere nel più autentico spirito del romanticismo, ma anche una relazione che registra sottotraccia, come un sensibile sismografo, alcuni aspetti politico-sociali della Calabria pre-unitaria.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788849830316
Categoria
Viaggi
Viaggio in Calabria
Parte prima
Non si parte da Napoli per la Calabria, come da Parigi per la Bassa Normandia, benché in fondo la distanza sia quasi uguale. Calabria è una parola nefasta che terrorizza anche a Napoli, vale a dire che terrorizza a Napoli più che altrove. Per parecchi, calabrese è sinonimo di brigante.
Quando sono andato a ritirare il passaporto dall’ambasciatore del mio paese, egli mi ha preso da parte e mi ha scongiurato di rinunciare a questo viaggio pericoloso. Ha messo una solennità particolare nell’esortazione, dandomi ventiquattro ore per riflettere; ma le riflessioni le avevo già fatte da lungo tempo. La stessa cerimonia alla prefettura di polizia. Il prefetto, sapendo che mi avventuravo da solo in queste contrade particolari, mi consigliò di non andarci, perché non si poteva viaggiare così in una regione come la Calabria.Avrei dovuto prendere dei domestici, delle scorte o almeno dei compagni, perché, come straniero, l’ignoranza del paese mi avrebbe fatto correre dei rischi.
Tuttavia, mi dimostrai fermo nel proposito e l’allocuzione del prefetto e del diplomatico non mi fecero cambiare idea. Dopo venne il turno di banchieri, amici e altre persone disinteressate; tutti volevano dire la loro; era una vera congiura contro il mio viaggio; non ne tenni conto e, tagliando corto, partii.
Dopo dieci giorni di cammino e di avventure sulle montagne del Cilento, tutte fumanti e ancora sanguinanti di una sedizione appena repressa, raggiunsi i confini della Calabria. Ero solo, a piedi come sempre, e il mio passaggio provocava nelle campagne e nei borghi profondo sconcerto e innumerevoli ipotesi. Qui ero considerato un agrimensore, là un antiquario, in un altro posto un carbonaro1, in un altro ancora una spia: una congettura lusinghiera, questa. Di volta in volta principe e mendicante, mi offrivano ora l’elemosina, ora un brindisi col vino buono. Una volta mi scambiarono per un’Altezza della Casa reale che viaggiava in incognito tra il popolo, come Haroun al-Raschid.
Non nascondo che, avvicinandomi alla Calabria, mi tornarono in mente i sinistri presagi di Napoli, che non smisero di tenermi in allerta. Quando un pastore col cappello a cono mi appariva da lontano su un ponte di pietra o un cacciatore fischiava al suo cane, il mio cuore batteva più forte ed ero assalito da preoccupazioni inquietanti.
Non sognavo che pugnali e banditi, allorché, uscendo da un bosco molto scuro e fitto, vidi la strada macchiata di sangue. La guardia a cavallo era stata assassinata e derubata. L’esordio non era entusiasmante e la notte d’altronde si avvicinava; il posto era tragico, e, se il cuore mi fosse mancato, sarei morto là. Ma non mi feci condizionare da queste fantasie cruenti e, contrastandole con altre più piacevoli, rivolsi l’attenzione a tutti gli incantesimi graziosi o terribili di questa Calabria che aveva tanto occupato e agitato la mia infanzia e che dall’età di sei anni avevo giurato di vedere. Camminavo come Israele alla conquista della terra promessa; arrivato alla soglia della regione, potevo tornare indietro?
Quella sera dormii a Lauria, uno degli ultimi e più pittoreschi villaggi della Basilicata. L’indomani entrai definitivamente in Calabria. L’approccio da questa parte è davvero formidabile e conforme a tutto ciò che avevo sognato di più agreste e severo. Una gola stretta, scoscesa, tortuosa, serpeggia tristemente tra due vaste catene montuose, di cui una appartenente alla catena di Pietrasasso, l’altra a quella del Pollino, la più alta, alpestre e primitiva della Calabria.
Attraversai questa gola ardua con un tempo nuvoloso. Grandi nubi nere si trascinavano lentamente verso le cime dei monti; la solitudine era completa; il silenzio inflessibile. Solo, in lontananza, il flauto di qualche pastore invisibile diffondeva il suo esile suono tra le nuvole, mentre un mulattiere scendeva dalle montagne fischiettando; poi tutto taceva di nuovo e solo il rumore dei miei passi turbava il rimbombo provocato dalle rocce.
Dopo una salita lunga e talvolta faticosa, il percorso sbuca d’un tratto in una vasta pianura nuda, pietrosa, deserta, chiusa da tutti i lati da creste di una spaventosa aridità. È il famoso passo di Campotenese dove il generale Régnier sconfisse, nel 1806, l’esercito del re di Sicilia. Le trombe, i cannoni, i tamburi, tutti i rumori, tutto il fracasso di una battaglia in mezzo alla natura selvaggia dovette creare uno spettacolo infernale e degno del Paradiso perduto di Milton, un vero combattimento di demoni.
Niente di più desolato di questo campo di battaglia, dove, in mancanza degli uomini, tutti gli elementi naturali sono in guerra. Erosi dalle acque che scendono dai monti, profondi burroni solcano l’arida piana; rumoreggiando nei crepacci e nelle strette gole che qua e là interrompono l’opaca cortina delle montagne, i venti turbinano in tutte le direzioni e sferzano le nubi. Qualche scampolo di un sole pallido rischiarava la tristezza del posto; curvi sulle loro vanghe a mezzaluna, alcuni poveri contadini zappavano penosamente una terra dura, cercando invano di sottrarla alla sterilità e chiedendole non si sa cosa.
Questo vasto deserto ha un solo tetto, un rifugio assediato dai corvi e aperto ai viaggiatori sorpresi dalla tormenta. Come vi passai davanti, ne uscì un timido cavaliere con una scorta di gendarmi; ci incrociammo e il suolo pietroso risuonò per lungo tempo dello scalpiccio dei cavalli.
Non feci altri incontri.
Prima che finisse, l’altopiano si allargò a sinistra. Fin là senza alberi, cominciava a rimboscarsi e le montagne ai lati sparivano gradatamente. L’uscita come l’ingresso della pianura sono controllati da postazioni di guardia, specie di roccaforti con ponte levatoio e merlatura, attrezzate contro i banditi. L’uscita ne ha due, poste entrambe su una roccia scabra e chiuse da una staccionata con alti pali sormontati da teste umane, quelle dei banditi uccisi nei dintorni. Messe lì come spauracchi e sbiancate dal sole, sogghignano ai passanti in modo raccapricciante. Ero già abituato a questi esecrabili trofei; il Cilento, da dove provenivo, ne era cosparso. Repressa la rivolta, erano state esposte in gabbie di ferro le teste sanguinanti dei vinti uccisi sui patiboli. Essi erano decorati come una macabra scena teatrale, se non fosse stato per gli usignoli che cantavano nei boschi vicini.
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Avevo appena distolto gli occhi da tali abomini e fatto circa un miglio nella difficile discesa di Morano – il primo villaggio della Calabria – quando una grossa mandria di buoi grigi e selvatici mi sbarrò la strada. Si erano fermati da soli e, aprendo i musi fumanti, cominciarono a muggire con un tono così lamentoso da incutere paura. L’eco delle montagne ne ripeteva il suono da lontano. «Signore, mi disse il pastore, indicandomi col dito la terra, là è stato sparso del sangue; la mia mandria ha muggito». E soffiando con violenza nel corno, si avviò per la strada del pascolo.
Questo è l’ingresso e, per così dire, l’anticamera della Calabria. C’era certo di che sgomentare le immaginazioni più timorose; ma avevo presente il sesto canto dell’Eneide e sapevo che l’Inferno è l’anticipazione dei Campi Elisi. La natura, infatti, si addolciva a poco a poco; la vegetazione si impossessava di queste terre aride e la mano dell’uomo le rendeva fertili; giardini fiorivano sullo sfondo dei valloni; freschi ruscelli li bagnavano e la vita rinasceva dappertutto. Anche il tempo era migliorato e un magnifico arcobaleno cingeva le montagne, quasi a dirmi che era finito l’Inferno e stava cominciando l’Eliso; come Noé, ebbi fiducia in Dio e proseguii coraggiosamente il pellegrinaggio.
Un fatto toccante avvenuto in questi paraggi riassume bene lo spirito di tutti gli orrori della natura e degli uomini. Un soldato francese, ferito in uno scontro con gli insorti calabresi, si trascinò nel bosco, dove sarebbe morto per le ferite e la fame se non l’avesse notato una ragazza che vi si era recata a far legna. Ella gli promise aiuto e protezione. Gli medicò le ferite, gli fece un riparo di frasche e foglie e lo curò tutti i giorni portandogli del cibo. Allorché un distaccamento francese passò nei dintorni, corse verso il comandante conducendo poi i soldati fino al loro compagno: «Addio, disse al ferito, siete salvo. Ho mantenuto la promessa e ora non avete più bisogno di me». Dopo queste parole, l’angelo liberatore volò via.
La prima città che si incontra dopo Campotenese è Castrovillari, che della città ha solo il nome, essendo in realtà un misero borgo di campagnoli. Salvo poche eccezioni, questa è la condizione di quasi tutti i paesi della regione; anche Cosenza, il capoluogo, non è granché: ma non essendo in Calabria alla ricerca di monumenti, mi consolavo del fatto di non trovarne e non avevo altro piacere che rifugiarmi nella natura.
Da Castrovillari a Cosenza il percorso offre, però, ben poche delle meraviglie della natura di cui ero così avido e che avevo tanto sognato. Si attraversa dapprima un ampio pianoro, talvolta affidato all’aratro, talvolta alle greggi. Non vi si trova un villaggio; solo, qua e là, qualche capanna di pastori. L’Appennino corre a sinistra, nascondendo le belle marine di Maratea e Diamante, dove Metastasio ha trascorso i giorni più felici della sua infanzia2. Si dubiterebbe, leggendo il dolce poeta, che sia stato istruito tra le dure rocce della Calabria!
Il tragitto, benché interrotto da qualche bosco, è piatto e monotono; non offre che un punto da cui si gode una bella vista, ma è una vista magica. Arrivato sulle alture di Spezzano, villaggio albanese, compare d’un tratto ai suoi piedi la piana di Sibari e, in lontananza, il golfo di Taranto, che si distende come una striscia blu. La piana è un deserto; non resta più niente dell’antica opulenta città; il sito dove sorgeva, oggi è un bosco acquitrinoso popolato da lupi e bufali. Il Crati serpeggia silenzioso nella solitudine.
Appena lasciato questo immenso belvedere, fui bruscamente richiamato dalla natura all’uomo, cioè ai briganti. Trovai il vicino villaggio di Tarsia in subbuglio. I banditi avevano sequestrato il figlio del sindaco e chiedevano, per restituirlo, un considerevole riscatto. Solo dopo ho saputo che non era stato pagato, perché la gendarmeria era riuscita a liberare l’ostaggio.
Sotto Tarsia comincia la vallata del Crati, che si distende fino a Cosenza per una lunghezza di trenta miglia. Su tutto il tratto non vi sono città, né villaggi; solo qualche casupola di canne e qualche taverna sporca e spoglia a disposizione dei corpi di guardia addetti alla sicurezza della strada. Il paesaggio è monotono e poco pittoresco; diventa ridente e grazioso alle porte della città; fin là non è che una valle stretta costeggiata da montagne senza asperità, senza rocce. Non si ha neppure la consolazione di vedere il Crati, nascosto com’è dietro una spessa cortina di boschi che potevano essere pieni di banditi, ma che in quel momento non lo erano che di usignoli.
Questa strada, lunga e uniforme, sarebbe stata insopportabile se la mandola dei pastori, sempre invisibili nei boschi, non ne avesse attenuato la lunghezza e rallegrata la tristezza. Ma la sera, quando i pastori si rintanano nei loro ripari, rientrai nel silenzio e non ebbi per compagnia che il canto dell’assiolo. Sempre afflitto da pensieri funesti, i tronchi spogli degli alberi erano spesso causa nelle tenebre di strane impressioni. Non ricordo di aver incontrato lungo questa strada anima viva e per dormire ho dovuto anche ricorrere all’ospitalità dei gendarmi. Ero lontano dalla meta, il mio Eliso doveva ancora arrivare.
Non mi aspettavo di trovarlo a Cosenza e infatti non lo trovai, senza per questo rimanere sorpreso. Cosenza ha venti chiese e ventiquattro famiglie nobili. Essa non deve la sua origine a schiavi ribelli rifugiatisi sulle montagne dei Bruzi. Il suo nome antico è Consentia, dal latino – si ritiene – consensus. Si sa che Alarico fu sepolto ai piedi della città, alla confluenza del Crati col Busento. Di qui la tradizione popolare di un tesoro nascosto, di qui gli scavi appassionati e clandestini di quelli che credono nella sua esistenza. Il quartiere bagnato dai fiumi è una specie di sobborgo abitato da zingari.
Cosenza è la patria di Telesio, il precursore di Bacone e il primo filosofo che ha combattuto la filosofia scolastica. Non so chi vi abbia fatto nascere Ponzio Pilato.
Una cosa mi colpì: vedere i costumi del «Journal des Modes» di Parigi davanti a una bottega di sarti e modiste. Questi frivoli distintivi della civiltà parigina in mezzo alle aspre montagne della Calabria producevano un contrasto molto audace; ma la gente ci passa davanti senza curarsene. Le donne non si coprono la testa, come le monache, col velo nero, e gli uomini non portano il cappello a cono ornato di nastri e fiori.
L’ospitale famiglia alla quale ero stato raccomandato, e presso cui ero alloggiato, ha conservato intatte le antiche tradizioni. Ridotta al ruolo patriarcale di addetta all’economia domestica, la donna non comparve a tavola e neppure i bambini. Pranzai a tu per tu col capo famiglia; solo il figlio maggiore fu ammesso tra di noi, ma condannato al silenzio. Così vuole il galateo calabrese.
La sera ritornai ai ricordi dell’Europa, poiché quaggiù si è quasi prossimi all’Africa. Fui condotto a teatro.Vi si recitava l’opera Carlotta e Werther ed ebbi la soddisfazione di vedere un Werther nei panni di un giovane parrucchiere sentimentale e Carlotta in quelli di una buona borghese napoletana. Alberto aveva l’aria di un grosso mercante di buoi. Ma ciò che mi ha bene impressionato, in una regione devota fino al bigottismo, è che il perno intorno a cui ruotava la recita è un abate licenzioso, perfetta caricatura di Tartufo. Non sarà stato per caso il «Journal des Modes» ad avere corrotto i buoni, vecchi costumi cattolici e inculcato in questi bravi calabresi la nostra irriverenza filosofica? È il 1789 che dà i suoi frutti!
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Bisogna attraversare l’Appennino per giungere a Cosenza e bisogna ripercorrerlo per uscirne, poiché è là che finisce di svilupparsi lungo la costa e, facendo una brusca curva qualche miglio sotto la città, torna a occupare il centro della regione separando la Calabria Citeriore dall’Ulteriore. La dorsale comincia a Rogliano, grosso villaggio situato alle falde della Sila, un vasto altopiano di quasi cento miglia che corona l’Appennino.
All’inizio pianeggiante, poi interrotta da profondi burroni e torrenti impetuosi, la strada comincia a salire senza tregua per almeno dieci miglia. Dapprima con un tracciato a chiocciola, passa poi in mezzo a querce e castagni, presentando passi tormentati e difficili. M’inerpicai in silenzio sul monte Januario, uno dei bastioni naturali che a occidente fiancheggiano la Sila; il tempo era scuro, il paesaggio deserto e la vista chiusa da tutti i lati. Un canto di donna, lento e armonioso, giunse da un bosco vicino e mi aiutò un poco a salire alleggerendomi la fatica; ma finì presto e mi lasciò solo, quasi sfinito, nell’immenso silenzio delle montagne. Non udii altro che lo scroscio sordo dei torrenti invisibili nelle profondità dei crepacci e di quando in quando il verso lugubre del cuculo.
Più mi inerpicavo, più il dedalo dei boschi diventava inestricabile e minacciosi i profondi precipizi. Nascosto tutto il giorno, come a Campotenese, il sole rifiutava i suoi raggi a questa natura straordinaria; e la natura senza sole è come priva di vita. Avevo raggiunto la zona immersa nelle nuvole e camminavano nella loro atmosfera umida e penetrante. Ora turbinavano sotto di me in fondo ai burroni, ora si alzavano in colonne grigiastre per poi sprofondare in basso. Coprivano ogni cosa, mascheravano tutto, e se qualche colpo di vento talvolta le squarciava, nell’improvviso spiraglio non scorgevo che qualche bosco e delle rocce. Niente risaltava col grigio del cielo, tutto era confuso in un colore scuro, uniforme, e vedevo trasformate in elementi ossianici le brulle montagne della Calabria. La metamorfosi era totale, e se il vento mi riportava qualche nota perduta della mandola dei pastori, essa era triste e misteriosa come quella dell’arpa leggera dei romantici spiriti di Morven.
La strada disegna spesso delle curve e ad ogni svolta rimanevo deluso, poiché speravo sempre di scoprire...

Indice dei contenuti

  1. Copertura
  2. Titolo Pagina
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione di Saverio Napolitano
  6. Viaggio in Calabria
  7. Note