II. Il male endemico della politica
1. PREMESSA
Definendo la tirannide come un «danger coeval with political life» Strauss attribuisce gli «orrori del Novecento» a una nuova forma dell’antica tirannide che «ha a disposizione sia la “tecnologia” sia le “ideologie” [e che] presuppone l’esistenza della “scienza”, cioè di un’interpretazione, o tipo, particolare di scienza»1, e si chiede perché mai la scienza politica moderna non sia stata in grado di riconoscerla tempestivamente. Per Alexandre Kojève, dopo Hegel, sembra sia finalmente giunto il momento di riprendere il discorso sulla possibilità di una buona tirannide.
Entrambi stanno evidentemente parlando anche di quello che in quegli anni veniva denominato totalitarismo2 ma, se Strauss si interroga sulla natura e sulle origini degli «orrori del Novecento», Kojève pensa che al di là di tali orrori rimanga inevasa la domanda circa la possibilità della politica, in un determinato momento storico, di accelerare i processi umani in una direzione definibile come buona3. Detto diversamente, ambedue sembrano chiedersi quale sia la natura del rapporto tra tirannide, politica e filosofia; ovvero se, ed eventualmente come, la filosofia possa accelerare il processo di avvicinamento al miglior regime politico, quali ne siano le condizioni e i costi e, dunque, se quel rapporto sia accidentale o di qualche altra natura.
Una questione sulla quale, indirettamente, Strauss ritornerà anche in On Thucydides’War of the Peloponnesians and the Athenians4, in Preliminary Observations on the Goods in Thucydides’Work5, e in Thucydides: The Meaning of Political History, in cui così scrive:
Alla luce di tali domande, pertanto, bisogna chiedersi non soltanto quale tipo di regime politico risulti maggiormente esposto alle «grandi agitazioni» e alla degenerazione in tirannide (una questione che era stata sollevata sin dalle prime riflessioni sul tema delle origini delle tirannidi greche7), ma soprattutto capire perché mai la tirannide sia un male congenito alla vita politica. Una possibilità degenerativa a cui, se non è possibile scindere il nesso tra politica e coercizione, sono esposti – sia pure in maniera diversa (e forse proporzionale all’estensione delle competenze attribuite alla politica) – tutti i regimi.
Interrogarsi sul perché dell’endemicità della tirannide significava così interrogarsi sia sulla natura della modernità, sia su quella della stessa filosofia politica, ovvero del rapporto tra filosofia e politica. Un rapporto che i classici e i moderni considerano alla luce del fatto che la suprema aspirazione alla vita filosofica è possibile soltanto dopo un compromesso con la città – ma del quale alcuni filosofi politici contemporanei negano la necessità immaginando un sistema di Law and Market without State – e che comunque può, e in certe condizioni, soltanto ridurre la coercizione affidandone la gestione ai gentlemen8. Ma non eliminarla.
Comunque sia, a maggior ragione poiché neanche il filosofo può contare sulla virtù salvifica della ricerca della conoscenza, per ridurre il male occorre capirne la natura.
Liberali classici, Libertarians e foucaultiani tendono a individuare il male con il potere, ovvero coi vantaggi che derivano dal possedere e dal gestire monopolisticamente una conoscenza, pur sempre limitata, ma, per svariati motivi, ritenuta superiore e, in quanto tale, apprezzata o subita dalla società. Lo smarrirsi della consapevolezza di tale limite naturale, e la coincidenza (vera o presunta) tra tale conoscenza e il suo riconoscimento, è allora ciò che induce a realizzarne l’oggetto accelerando il processo con la coercizione e giustificandolo con l’obbligo morale a (per usare un’espressione popolare) “far del bene agli ignoranti”: a estirpare l’ignoranza e il male dal mondo servendosi eticamente del potere. Se non fosse che il conseguente tipo di “associazione umana” sarebbe così instabile da essere esposta al rischio di non aver strumenti per fronteggiare né eventi esterni di tipo ambientale o politico né i tentativi interni di produzione politica di certezza, l’egoismo e l’indifferenza, avrebbe detto Ayn Rand, sarebbero allora, se fondati sui tre Natural Rights e sull’«assioma di non aggressione»9, l’unico possibile antidoto alla tirannide.
Di conseguenza, se la spiegazione della coercizione e del potere risiede per i liberali nel fatto che gli individui non dispongono della medesima conoscenza e del medesimo tempo (caso in cui la vita sociale non sarebbe forse neanche iniziata), per i socialisti e per gli anarchici in un atto di violenza iniziale che può essere emendato, per i democratici nella sacralità del principio maggioritario, per Strauss – il quale non crede alla soluzione liberale del problema politico tramite mezzi economici, né a quella socialista della soluzione del problema economico tramite mezzi politici, e ancor meno a quella democratica di un’educazione di massa che renderà buone e non coercitive le scelte pubbliche – «lo Stato, o il governo coercitivo, non può scomparire perché è impossibile che tutti gli esseri umani diventino effettivamente [actually] soddisfatti»10. Come i classici e come i liberali, Strauss crede che la disuguaglianza naturale tra gli uomini sia insuperabile con mezzi politici, ma attenuabile tramite un’individuale acquisizione di conoscenza nell’ambito di una cornice istituzionale caratterizzata dal primato di un diritto che non è prodotto ma scoperto, interpretato e applicato dagli uomini (con inevitabili errori data la loro limitatezza di conoscenza e di tempo), e a cui tutti sono soggetti indipendentemente dalle caratteristiche, dalle doti, dai talenti, dalle funzioni e dalle competenze individuali11.
Ma se il rapporto tra filosofia politica e coercizione non è accidentale, e dunque il suo esito, il potere, non potrà essere emendato da incrementi della conoscenza o dell’eticità privata e pubblica (come pensano tanto gli anarchici e i socialisti umanitari che vogliono realizzare la giustizia sociale, quanto i Libertarians convinti che un mercato concorrenziale, ovvero un mondo senza le immorali scelte collettive di natura politica, renderà inutile quella forma storica del potere che è lo Stato), diventa chiaro che per evitare quel male connaturato alla vita politica che è rappresentato dalla concentrazione di un potere illimitato nella tirannide-totalitarismo, è vano ricorrere a ennesimi o a inediti mezzi politici o costituzionali. Dalla Repubblica di Platone in poi, la storia della filosofia politica può essere vista come un catalogo dei fallimenti di tali tentativi. A cui non sfugge neanche il liberalismo.
Concordare con Tucidide non significa però che sia vano anche cercare di contrastare la naturale tendenza della politica a trasformarsi in potere e ad abusarne, negandole non soltanto il monopolio della coercizione, ma la stessa possibilità di sospendere o di regolamentare i Natural Rights. Un problema che, come si avrà modo di vedere, si sono posti, con strumenti concettuali parzialmente nuovi, alcuni filosofi politici contemporanei ascrivibili alla rinnovata tradizione del liberalismo classico e del Libertarianism.
Da un diverso punto di vista, Strauss, si contrappone quindi all’allora prevalente tendenza a rimuovere dal dibattito sulla natura della filosofia politica la questione della natura del totalitarismo riducendola alla degenerazione di un particolare tipo di regime politico12.
On Tyranny apparve allorché la guerra si era appena conclusa e, come si è accennato, erano già state pubblicate alcune opere che si interrogavano su radici e ragione di tanto orrore. Due forme di totalitarismo erano state sconfitte13 ma un’altra, secondo i primi interpreti del fenomeno14, resisteva e si era fatta vieppiù forte, affascinante e influente15. In definitiva, la domanda che ci si poneva, era se, alla luce della filosofia della storia hegeliano-marxistica (allora influente in un modo che oggi si stenta a credere), l’Unione Sovietica di Stalin potesse configurarsi come una forma di buona tirannide e se il socialismo fosse il futuro e il destino di una civiltà occidentale che sembrava voler prendere congedo da un liberalismo ormai esangue e screditato16. Quale fosse il miglior regime politico si era ormai convinti di saperlo, e la cosa più saggia sembrava piegarsi alla storia o al «decreto del fato»17. Proclamandosi parimenti erede della filosofia idealistica tedesca e dell’economia politica classica, il marxismo doveva però, come quelli, ricevere una cocente delusione da quel progresso storico in cui aveva creduto e confidato. E la filosofia politica ed economica liberale più che morta iniziava una vigorosa età di rinascita.
Pochi anni prima, con linguaggio semplice e chiaro perché animato dal desiderio di mettere in guardia le democrazie occidentali da un’involuzione totalitaria che si celava nella credenza che soltanto uno Stato finalmente etico avrebbe potuto risolvere, con metodi ispiratisi alla scienza moderna18, i problemi sociali e realizzare quindi il miglior regime politico, anche Hayek aveva in realtà descritto e criticato i grandi miti degli ultimi secoli. Compreso quello che soltanto l’etica avrebbe potuto redimere l’inevitabile nesso tra coercizione e politica e giustificare il potere politico e la sua dilatazione. Egli aveva quindi piena consapevolezza del fatto che la tirannide fosse un danger coeval di ogni tipo di regime politico, e le critiche che gli vennero rivolte potrebbero essere interpretate come espressioni di una tesi più generale secondo la quale il totalitarismo è una degenerazione di un particolare regime politico (nella fattispecie quello capitalistico-liberale). Una tesi che non mette in discussione la modernità e che non esclude la possibilità di un totalitarismo buono in quanto male necessario e temporaneo (la dittatura del proletariato) per raggiungere quel miglior regime iscritto nel fine stesso della storia. Ciò che, più in generale, fa riferimento tanto a una concezione della politica come inevitabile forma organizzata di accelerazione dei processi sociali, quanto a una concezione del miglior regime come esito del processo storico. Si presuppone, in definitiva e più o meno esplicitamente, che il rapporto tra politica e coercizione sia accidentale, transitorio ed emendabile.
In quel clima, l’ostracismo che incontrarono le idee di quanti non si piegavano allo spirito dei tempi che si era convinti si incarnasse nella versione marxistica dello Historicism e dello Scientism, fu ai limiti della persecuzione19. L’aver sostenuto che l’incremento esponenziale dell’interventismo statale (quali ne fossero le motivazioni, etico-economiche, anche in regimi democratici) fosse una sorta di road to serfdom, ovvero una potenziale variante del totalitarismo, bastava per attirarsi l’etichetta di reazionari e di nemici del popolo e del progresso20. Etichette, allora in voga, che venivano attribuite a tutti coloro i quali non condividevano la tesi che lo Stato socialista pianificato fosse tanto la “realtà dell’idea etica”, quanto la forma definitiva dell’associazione politica.
Ma nei primi anni Cinquanta (e nei decenni successivi) questi erano i temi maggiormente dibattuti dalla filosofia politica. E soltanto la ricambiata amicizia col “mito” degli hegelisti e degli hegeliani – Kojève21 –, oltre all’evidente difficoltà di capirne fino in fondo la tesi, evitò allora a Strauss un ostracismo che comunque fu soltanto rinviato. Insomma, dopo Hegel, sembrava che la buona tirannide fosse diventata non soltanto possibile e auspicabile, ma anche il destino certo di un’umanità...