Brandelli d'Italia
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Brandelli d'Italia

150 anni di conflitti Nord-Sud

  1. 340 pagine
  2. Italian
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Brandelli d'Italia

150 anni di conflitti Nord-Sud

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L'Italia unita fu per secoli il sogno retorico-moralistico di letterati e poeti, fu il progetto d'ambizione di Casa Savoia. Ma appena l'Italia venne messa insieme con i pezzi raccolti, il Sud si ribellò e ingaggiò una sanguinosa guerra di secessione. Al Nord i favorevoli all'unità erano poche migliaia, al Sud anche meno. Trent''anni dopo l'unità, l'Italia era già scossa da tentazioni separatiste, sia al Nord che al Sud, e gli argomenti in discussione erano gli stessi di oggi: la corruzione civile, la criminalità organizzata, le clientele politiche, i differenti costumi, l'assistenzialismo.Nel libro si tenta di spiegare, senza omissioni o interpretazioni, arbitrarie, le ragioni del Nord e del Sud, senza tacere i torti equamente ripartiti, le bugie e le falsità che si sono dette, da entrambe le parti.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788849830491
Parte prima
Il ponte soleggiato

Piemontesi a cavallo.
La guerra di secessione italiana

Bisogna governare il Mezzogiorno con il ferro e la libertà.
Cavour
Quando, nel silenzio dell’abiezione, non si sente risuonare che la catena dello schiavo e la voce del delatore […] appare lo storico, incaricato di vendicare i popoli.
Chateaubriand
BRIGANTI IN NOME DI DIO E DEL RE
Nella primavera 1861 una comitiva di viaggiatori americani si dirige in carrozza da Civitavecchia, porto di sbarco, a Roma: tra di essi il romanziere americano Nathaniel Hawthorne, autore de La lettera scarlatta. «Si diceva che la strada era infestata dai briganti e il viaggio al buio acquistava il sapore di un’avventura», racconta uno dei viaggiatori. Hawthorne aveva con sé una grossa somma di denaro e, alla partenza, s’era preoccupato di nasconderla dove i briganti non avessero probabilità di scovarla. Hawthorne rideva e scherzava: i ragazzi della comitiva credevano si trattasse di un gioco. «D’un tratto alcune figure di uomini in cappello a cono, ciascuno con un lungo fucile in mano, apparvero sullo sfondo del cielo serale, sopra un’alta duna». Tuttavia non tentarono di fermarli ed essi poterono raggiungere Roma senza incidenti verso mezzanotte. Seppero più tardi che i briganti si mostravano davvero sotto le mura di Roma. Erano briganti meridionali che sconfinavano per sfuggire alla caccia dell’esercito italiano.
Nelle province napoletane gli avanzi dell’esercito borbonico erano andati a ingrossare le bande dei briganti e in tutta la Bassa Italia era scoppiata la ribellione armata contro il neoproclamato Stato italiano. Dapprima s’era pensato a un’insurrezione improvvisata, senza collegamenti e protezioni. Ma nell’aprile 1861 una forte ripresa della guerriglia aveva costretto il comando militare italiano a chiedere rinforzi a Torino. Il VI Corpo d’Armata del generale Durando non superava i 20.000 effettivi, in gran parte impegnati a presidiare Napoli e provincia. Torino esitava, non volendo indebolire le truppe schierate sul Mincio davanti agli austriaci. Al principio di luglio in Irpinia, in Molise, in Terra di Lavoro, in Basilicata, le bande – rafforzate da migliaia di contadini poveri – impegnarono in aspri combattimenti le forze italiane, massacrarono i liberali, saccheggiarono paesi alzando la bandiera bianca gigliata del Borbone. Gli italiani reagirono con fucilazioni di massa e incendi di interi paesi. Tra Napoli e le Puglie le comunicazioni erano impossibili perché sulla dorsale appenninica infuriava la guerriglia: la mancanza di strade la favoriva. Rapine, sequestri di persone, assassini, assalto alle diligenze. Era l’elenco degli avvenimenti quotidiani. Il bersagliere valtellinese Carlo Margolfo, inviato nel luglio 1861 col suo reparto nelle province di Napoli, Avellino e Benevento, tenne un diario:
Domenica giorno 21. Giunti in Nola, su un gran piazzale si fece sosta, avvertendo il Generale di venire a vedere la caccia ed ordinare il dal farsi. Giunto il generale Pinelli, fece gli elogi della bella caccia che avevamo fatto. Sortì una voce dicendo che lui era un galantuomo, ed era figlio del sindaco. Pinelli allora gli disse: “Bene, allora mettetevi da una parte, ed il resto si conduca verso la montagna”, lontano circa 50 passi da noi, e noi al centro, che dai tre lati c’era la Fanteria di guarnigione al presidio, facendo cordone, in caso di sollevazione dei cittadini. I detti briganti, facendogli fare front’indietro, e poi diede l’ordine: “Per tre, fate fuoco”. Al comando: “Fuoco” tutti cascarono per terra morti. Rimase solo il figlio del sindaco, che credevamo proprio che la vita fosse salva. Pinelli gli disse: “Dunque sei figlio del sindaco e sei un galantuomo?” – “Sì, signor generale”. “Ebbene, andate, andate, ma da questa parte”. Appena fece un trenta passi, che il generale Pinelli disse: “Tirate a quel galantuomo”. Difatti fu colpito, e cascò anche lui vicino agli altri suoi compagni.
Mercoledì 14 agosto il reparto ebbe l’ordine di entrare nel comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, tranne i bambini, le donne e gli infermi, e incendiarlo.
Entrammo nel paese: subito abbiamo incominciato a fucilare i preti ed uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, abitato da circa 4. 500 abitanti. Quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava1.
Il generale Pinelli, romano, che aveva adottato metodi sbrigativi e represso il moto degli Abruzzi, fu poi rimosso per un proclama ritenuto eccessivo, nel quale chiamava il Papa «Sacerdotale vampiro». Si temeva che la ribellione borbonica, con taluni tratti immutabili del banditismo meridionale, potesse sfociare in un’insurrezione generalizzata, in guerra aperta. Si temeva che l’immagine dell’Italia ne venisse gravemente danneggiata e che la ribellione meridionale smentisse clamorosamente tutti i sogni e le speranze di quarant’anni di lotte. Il nuovo Presidente del Consiglio, il toscano Bettino Ricasoli, successore di Cavour, intuendo i pericoli e la perdita di prestigio dell’Italia in Europa, decise di usare il pugno di ferro per fare presto; sostituì l’indeciso Ponza di San Martino con Cialdini, che il 15 luglio assunse anche la carica di luogotenente riunendo così i poteri civili con quelli militari.
Il banditismo nel Sud era un fenomeno ricorrente. Riemergeva con tratti di anarchia ogni qual volta nel regno scoppiavano guerre, insurrezioni, rivolgimenti politici. I briganti diventavano allora lo scudo difensivo dei contadini vessati dai proprietari terrieri. Ma era l’interesse e la cupidigia che li muoveva, non c’era miglior ideale del bottino. L’esercito borbonico, formato da quasi 100.000 uomini, s’era dissolto ai primi scontri con i garibaldini, che, salendo in fama di vittoriosi, attiravano volontari e picciotti. I napoletani non erano mai stati combattivi, e sul campo mostravano più volentieri le terga. Il successivo intervento italiano ne decretò la definitiva catastrofe. Parecchi ufficiali fuggirono nello Stato pontificio, dov’era riparato lo stesso re Francesco, altri entrarono nell’esercito italiano dopo aver superato l’esame di una commissione mista di ufficiali piemontesi e borbonici. I più animosi si diedero alla macchia con l’intenzione di proseguire la lotta alleandosi con tutti quelli che, per le motivazioni più varie, si opponevano agli «invasori». Dice Raffaele De Cesare che «a misura che gli sbandati facevano ritorno ai paesi nativi, erano accolti dai liberali con ingiurie, incoraggiati dai borbonici a darsi alla macchia perché l’ora della restaurazione non sarebbe tardata a suonare»2. Il numero dei soldati sbandati era cresciuto dopo la caduta di Gaeta. Il brigantaggio fu visto come l’ultimo baluardo. La nobiltà e la plebe restavano fedeli alla vecchia monarchia. La criminalità fece la medesima scelta: conosceva i metodi della monarchia borbonica e sapeva come venirci a patti. I piemontesi, invece, erano un’incognita, gente sconosciuta, fredda, arrogante. Venne deciso di combatterli. Camorra e mafia stavano a guardare e poi avrebbero cercato di convivere col vincitore.
È stato detto che un motivo di scontento per parecchi giovani fu la leva obbligatoria introdotta dal nuovo Stato. Non è esatto. È necessario un chiarimento. La legge militare borbonica stabiliva una ferma di otto anni, alla quale erano soggetti per sorteggio una parte dei coscritti che avessero compiuto 18 anni d’età. Al contrario dell’esercito piemontese, in quello borbonico erano previste esenzioni «facili» per «motivi familiari» ed esisteva la possibilità, una volta sorteggiati, di farsi sostituire da un volontario dietro il pagamento di una tassa di 240 ducati (circa 1.200 lire italiane). Se il sorteggiato era abbastanza ricco, il soldato non lo faceva, e solo i più poveri e i meno fortunati andavano sotto le armi, con i risultati ben poco brillanti di capacità militari e lealtà verso il re. Solo i siciliani erano esentati dalla leva; potevano fare il soldato da volontari. Più che un favore e un privilegio era una misura di cautela. Data l’ostilità dei siciliani per i napoletani, «forestieri e nemici», poteva essere rischioso addestrarli all’uso delle armi, benché non ce ne fosse bisogno. Anzi, per limitare gli abusi, il governo italiano proibì il porto del pugnale. Con le leggi piemontesi, le esenzioni divennero più difficili e anche i siciliani dovettero fare il militare. Da qui la protesta dei renitenti alla leva che, per non fare il soldato ed essere trasferiti al Nord dove – secondo una leggenda – rischiavano di essere evirati, preferirono darsi alla macchia o unirsi ai «briganti».
La luogotenenza di Cialdini segnò una svolta nella lotta al «brigantaggio». Ponza aveva tentato la strada della trattativa. Cialdini ricorse ai metodi della più brutale repressione; costrinse i vescovi e lo stesso arcivescovo di Napoli, il principe cardinale Sisto Riaro Sforza, a fare i bagagli e partire per Roma insieme al clero napoletano accusato di fomentare la ribellione. Non era una novità che il clero, in alleanza con il trono, avesse osteggiato ogni tentativo liberale, essendo oltretutto un dovere spirituale e patriottico combattere l’ateo governo di Torino. Roma smentiva, ma non si poteva smentire l’evidenza. Le bande si formavano spontaneamente intorno ai capi di maggior prestigio, come Chiavone (al secolo Luigi Alonzi, di Sora), fucilato nel 1862 da legittimisti borbonici, per motivi ignoti. Ninco Nanco e la sua compagna, la brigantessa Maria ’a Pastora, entrambi di Pisticci, erano tra i più crudeli. Quando Ninco Nanco strappava con le sue mani il cuore dal petto dei bersaglieri che aveva catturato, Maria ’a Pastora gli porgeva il coltello. Crocco, forse il più famoso, si vantava di capeggiare oltre quattrocento bande, ma è un’esagerazione perché le bande non superarono mai il numero di quattrocento in tutto. Un calcolo esatto è impossibile. Entrambe le parti mentono. Ma è vero che bastava il nome di Crocco per far affluire i volontari da ogni parte. Gli italiani facevano un calcolo al ribasso, per non incoraggiare la ribellione e a bella posta deformavano l’immagine del Sud, rappresentato come una appendice di barbarie. Giustino Fortunato, unitario convinto, avvalorava questa tesi dicendo che «il brigantaggio meridionale non fu, come molti credono, a cominciare da Nello Rosselli (autore di una vita di Carlo Pisacane), un tentativo di restaurazione borbonica e di autonomismo, bensì un movimento spontaneo delle plebi più primitive e selvagge storicamente rinnovantesi a ogni cambiamento politico»3. Alfredo Oriani, precursore del nazionalismo fascista, a nome del patriottismo ufficiale, pose la questione in termini ancora più netti e assoluti: «Una guerra della barbarie contro la civiltà, del feudalismo contro la democrazia, del federalismo contro l’unità».
Non c’è dubbio che, messa in questi termini, la vicenda non convinceva. Oriani qualificava il Sud come incapace di redenzione e di civiltà solo perché non accettava l’imposizione di un potere che si definiva «civile e democratico», quando, anche nel resto d’Italia, non si mostrava né l’uno né altro. Il patriottismo e la lealtà che i liberali pretendevano dal popolo dovevano prescindere dal prezzo che esso avrebbe pagato per il lusso della libertà. I cultori del mito unitario, come Oriani, che non era il peggiore, non potevano ammettere, se non come reazionaria, l’idea che il Sud ricusasse l’occupazione militare solo perché essa non rientrava nei desideri dei nuovi sudditi, i quali, trattati da popolo conquistato, avrebbero dovuto accettarne passivamente tutte le clausole. Si infamò la ribellione, togliendole ogni carattere di legittimità; nessun principio di decoro venne riconosciuto ai «briganti», termine col quale vennero designati malfattori e gente rispettabile; nelle rappresaglie non si fece distinzione tra plebe e signori, borghesi e preti. Si accumunarono i legittimisti borbonici e i contadini poveri, ribelli per disperazione, alla sguaiata ferocia di briganti rozzi e analfabeti, che, nel crollo dell’autorità, avevano ripreso a correre le campagne, ad assaltar masserie e paesi, a far imboscate e vendette, come facevano sempre in tempi di rivolgimenti. Dal punto di vista dei liberali settentrionali, il brigantaggio appariva come l’ultimo sussulto del passato che andava stroncato senza pietà, un movimento funesto e feroce nemico dell’unità, della libertà e della vita civile. E lo era nella realtà di guerra fomentata dai Borboni, dalla Spagna e dal Papa. Ma per i contadini era un’altra cosa; essi sentivano che il brigantaggio, di cui ignoravano le motivazioni politiche, li difendeva dall’invadenza dell’ultimo padrone che, con leggi straniere e sconosciute, veniva ad assoggettarli, e istintivamente videro nei briganti i loro eroi4. Ma l’esercito di invasione non fece distinzione. Ai metodi di guerra più spietati si aggiunse l’arma del discredito e dell’offesa. Si irrise nel modo più sfrontato il sentimento religioso del popolo, da cui pareva che la ribellione traesse forza, alimento e ispirazione, e lo si volle spiegare come un residuo di antica superstizione, di idolatria pagana, di infantili credenze che sempre si impadroniscono dei popoli primitivi da incivilire; e nel sentimento popolare questa guerra al papato ed ai simboli della fede si trasformò in «guerra di religione»5. Così un esercito poderoso, quale poteva solo concepirsi nella guerra tra Stati, reso tracotante da un diritto illegale, si aggirava nelle campagne e nei paesi semideserti cogliendo, nel primo segnale di paura e di incertezza, un’ammissione di complicità con i banditi. Anche la semplice amicizia con i ribaldi bastava per montare plotoni di esecuzione, lasciare dietro di sé paesi inceneriti e nessuna pietà per gli abitanti.
Le efferatezze e le brutalità di un esercito di conquista non ebbero più fine. Lo stesso Oriani fu poi costretto ad ammettere che quella che si era combattuta dal 1861 al 1865, e anche oltre, fu «una guerra di sterminio così orribile di ferocia che si dovette e si deve ancora nasconderla alla storia». A Massimo D’Azeglio il problema fu chiaro fin dall’inizio e in una lettera, indirizzata il 2 agosto 1861 al senatore Carlo Matteucci, futuro ministro della Pubblica Istruzione, scrisse ciò che molti pensavano ma che nessuno aveva il coraggio di dire:
La questione di tenere Napoli o di non tenerla mi pare dovrebbe dipendere più di tutto dai Napoletani, salvo che vogliamo, per comodo di circostanze, cambiare quei principi che abbiamo sin qui proclamati. Sinora siamo andati avanti dicendo che i Governi non consentiti dai popoli erano illegittimi […]. A Napoli abbiamo cacciato egualmente il Sovrano per stabilire un Governo sul consenso universale. Ma ci vogliono, e pare non bastino, 60 battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti e non briganti, tutti non ne vogliono sapere. Mi diranno: – e il suffragio universale? (il plebiscito dell’ottobre 1860 nel Mezzogiorno, N.d.A.) – Io non so niente del suffragio, ma so che di qua dal Tronto non ci vogliono 60 battaglioni, e di là sì. Dunque deve essere corso qualche errore […]. Ma ad Italiani che, rimanendo Italiani, non volessero unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibusate. Avete mai attraversato lo straordinarissimo Aspromonte, oggi? Se no, fatelo con questa lettera in mano6.
La lettera, famosa e citatissima, suscitò grande scalpore in Italia e in Francia, e il giornale francese «La Patrie» la riprese all’insaputa di D’Azeglio pochi giorni dopo con grande evidenza. Ricasoli, messo in difficoltà dalla lettera, si lamentò con D’Azeglio per l’uso strumentale che potevano farne i nemici della causa italiana. D’Azeglio gli rispose subito:
Se non consentono (i meridionali), più se ne fucilerà e più cresceranno il numero delle prove contro di noi: e bisognerà cercare altre vie. E mi permetterei di non accettare la tua parola “Essi rifiutano non noi, ma l’Italia!”. Sarebbe vera se volessero mettersi con stranieri. Ma l’Italia si può intendere in più modi. E quantunque io l’intenda come l’intendi tu, non per questo vorrei fucilare chi la pensa altrimenti.
Contro l’ipocrisia degli unitari, che preferivano parlare di generica «guerra al brigantaggio», D’Azeglio, con la consueta franchezza, parlava di «insurrezione antiunitaria», senza negare che al suo interno vi fossero elementi di reazione e di legittimismo borbonico; ciò nonostante il popolo meridionale aveva tutto il diritto di scegliere la forma politica che più desiderava, e non per questo essere tacciato di reazionario, solo perché non desiderava sottostare a un governo che veniva con la pretesa di «liberarlo» senza che nessuno glielo avesse chiesto.
Suggerita dalle circostanze, la commissione parlamentare d’inchiesta Massari, eletta in seduta segreta alla Camera, perché il Paese restasse all’oscuro, per vergogna e paura, non rivelò che quanto già si sapeva ma ne travisò i motivi, che vennero intesi come prova lampante di barbarie e di rifiuto della civiltà moderna. La relazione della commissione diceva, tra l’altro: «È tra i lavoratori della terra che si trovano coloro, che agli onesti e mal ricompensati sudori del lavoro, preferiscono i disagi della vita del brigante». La commissione non seppe elencare i rimedi; fu una relazione dotta ma non servì a niente, benché ciò che avveniva fosse ormai noto all’Europa intera che guardava sbigottita a quel tragico esordio del nuovo Stato che aveva l’ambizione di sedere nel consesso civile delle Nazioni. La relazione produsse solo la legge Pica, dal nome del deputato abruzzese che l’aveva proposta, approvata in fretta il 15 agosto 1863 perché i deputati erano impazienti di andare in ferie. Solo Benedetto Cairoli, in Parlamento, ebbe il coraggio di definirla una «mostruosa illegalità»7. La legge non fu che un modo di inasprire le pene e le punizioni, la galera e le fucilazioni dei briganti che venivano presentati senza eccezioni come i peggiori criminali che s’opponevano alle armi italiane per un fosco e abietto ideale. La legge dava all’esercito poteri eccezionali, in virtù dei quali il Sud venne messo in stato d’assedio. Dava ai tribunali militari la competenza di giudicare i briganti, puniva con la fucilazione chi fosse stato trovato in possesso illegale di armi; istituiva giunte (composte dal prefetto, dal presidente del tribunale, dal procuratore del re e da due consiglieri provinciali) che avevano la facoltà di assegnare al domicilio coatto gli oziosi, i vagabondi, i camorristi e chiunque fosse stato sospettato d’essere manutengolo di briganti. La legge Pica, valida fino al 1864 e poi sostituita da un’altra legge speciale, venne prorogata a più riprese fino al 1865, quando la fase acuta del brigantaggio poté essere considerata conclusa. Tutte le province dell’ex Regno delle Due Sicilie, salvo le province di Napoli, Teramo e Reggio Calabria, furono dichiarate in «stato di brigantaggio» e sottoposte alla legge militare in tempo di guerra. Così l’esercito, con la micidiale arma della più ampia discrezionalità, poté fare terra bruciata, in tutti i sensi, attorno ai briganti; mentre la Francia, che non voleva inimicarsi l’Italia, premeva sul Vaticano affinché negasse ogni aiuto e ricetto ai briganti che cercavano scampo oltre la frontiera pontificia. La stampa nazionale, asservita e benevola, assecondò i metodi dell’esercito, senza sospettare minimamente che erano gli stessi metodi che l’opinione patriottica aveva deprecato e condannato quando a usarli erano stati i croati e gli austriaci. E, tuttavia, benché i metodi repressivi venissero utilizzati per abbreviare il conflitto, fu proprio la loro inaudita ferocia a travalicare i confini e a diventare argomento di scandalo nelle cancellerie europee; quanto accadeva nella landa più povera e abbandonata del nuovo Stato unitario sembrava confermare l’opinione di Napoleone III che l’unificazione era forse prematura ed era inevitabile che prima o poi l’Italia scegliesse una diversa forma politica e territoriale.
Il governo sollecitava un’azione esemplare e conclusiva. L’offensiva venne affidata al generale Pallavicini (che Cavour gratificava di «imbecille»), lo stesso che aveva arrestato Garibaldi dopo i fatti dell’Aspromonte nel 1862, il quale inflisse gravi perdite alle bande nel Beneventano e in Capitanata e nel 1864 distrusse completamente le bande che infestavano la Basilicata e la Terra di Lavoro...

Indice dei contenuti

  1. Copertura
  2. Titolo Pagina
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione Settentrionali e meridionali
  6. PARTE PRIMA: Il ponte soleggiato
  7. PARTE SECONDA: Si accentua la scissura
  8. PARTE TERZA: Cattedrali nel deserto
  9. Note
  10. Bibliografia