1. Decostruzione del concetto di memoria
1. DERRIDA CONTRO IL BUON SENSO
Il più delle volte andare contro il buon senso non è una buona idea. Il senso comune è davvero il più testardo di tutti i saggi e quasi sempre è più conveniente dargli ragione fin da subito. Con un minimo di riflessione chiunque può arrivare a stabilire alcuni punti fermi a proposito della memoria, anche chi non ha studiato fenomenologia e non è aggiornato sugli ultimi risultati delle scienze cognitive. Innanzitutto la memoria è una facoltà umana, qualcosa che è intimamente connesso all’animo umano e all’interiorità. In secondo luogo la memoria si distingue chiaramente dall’immaginazione, dalla percezione e anche e soprattutto dagli strumenti mnestici di cui fa uso: ricordare non è percepire, non è nemmeno immaginare e rimane una differenza insormontabile tra un vero e proprio ricordo e la sua trascrizione in un testo o in una immagine. Infine è altrettanto evidente che la memoria è essenzialmente rivolta al passato, anzi è la nostra fonte di conoscenza del passato più degna di fiducia. In questo senso essa dipende dalla realtà di ciò che è stato, cerca di adeguarsi a questa realtà e trae la sua certezza veritativa dalla fedeltà con cui lo riproduce.
Questo è ciò che insegna il buon senso. Ora, se volessimo condensare in un riassunto approssimativo ma non infedele la concezione derridiana della memoria, potremmo fare un’operazione teorica terribilmente semplice: sarebbe sufficiente prendere tutte le più robuste convinzioni del senso comune e rovesciarle nel loro esatto opposto. Ciò non desta alcuna sorpresa a chi ha qualche familiarità con la decostruzione e con il suo stile di pensiero. Tuttavia, data l’autorità di cui gode (giustamente) la saggezza di senso comune, le affermazioni derridiane rischiano di apparire come quei ciarlatani nelle piazze che nessuno si prende la briga di contestare apertamente, ma che tutti si sentono autorizzati a guardare con sospetto.
Derrida aveva forse un gusto eccessivo per la provocazione; ma certamente non era un ciarlatano. Bisogna dunque provare a comprendere qual è il senso della decostruzione della nozione tradizionale di memoria operata dalla sua filosofia. Per far questo vorrei tentare di isolare del suo discorso filosofico sette tesi essenziali, da mettere alla prova dal punto di vista teoretico. Sia chiaro: io non penso che la profondità delle riflessioni derridiane sulla memoria e l’archivio sia esaurita da sette «formulette», che per di più non sono mai state presentate dal loro autore nella forma di vere e proprie tesi. Mi sembra però che una certa sistematizzazione, nonostante l’artificiosità, possa essere utile per comprendere fino in fondo ciò che Derrida ha voluto dire. Infatti queste sette tesi – che ricavo dai testi che in modo più esplicito affrontano i temi di questo libro: La farmacia di Platone, Memorie per Paul de Man, Mal d’archivio – non sono affatto auto-evidenti e richiedono di essere chiarite, argomentate e criticate.
Derrida avrebbe potuto percorrere almeno due vie per sostenere la sue posizioni. La prima è quella che passa per l’elaborazione di una fenomenologia della memoria e di una ontologia dell’archivio che – andando molto al di là di Husserl ma senza abbandonarlo – mostrino concretamente, descrittivamente, qual è il rapporto tra memoria e archivio. La seconda via è quella che passa per le evidenze storico-empiriche, se posso dir così. Derrida conosceva bene il lavoro di Leroi-Gourhan e certamente aveva presente gli studi sociologici, antropologici, paleoantropologici che avrebbero potuto fornire un solido terreno di appoggio alle sue tesi. In realtà nessuna di queste due vie è stata veramente percorsa. Nei testi derridiani i cenni alle evidenze empiriche sono sporadici e deludenti e non v’è nemmeno traccia dell’elaborazione concreta di una fenomenologia alternativa, così come accade invece in Merleau-Ponty o in Ricoeur. Le posizioni derridiane sono invece presentate e argomentate sempre secondo il più tipico stile della decostruzione: a partire dalla negazione della tesi opposta, a partire dalla contestazione di un testo classico. Questa scelta non può essere rimproverata più di tanto, perché è perfettamente conseguente allo stile e alle premesse teoriche della filosofia decostruzionista nel suo insieme. Ma è una scelta che rischia di limitare la portata di intuizioni che restano decisive; o comunque di lasciare il discorso derridiano a livello di una provocazione suggestiva ma incompiuta.
Rileggere i tre testi di Derrida che ho citato poc’anzi significa dunque aprire una serie di questioni irrisolte. Il principale risultato della lettura che proporrò in questo capitolo consiste nella riproposizione di una raffica di domande pressanti, molto più che di una serie di risposte. Benché si possa accogliere volentieri l’idea che il compito essenziale della filosofia sia di porre le domande giuste, è certo che accontentarsi delle domande non è nemmeno domandare veramente. Perciò buona parte del lavoro di questo libro consisterà nel tentativo di percorrere – appoggiandosi ad autori che hanno influenzato il pensiero derridiano o ne hanno proseguito il cammino – alcuni tratti di quelle due strade che Derrida non ha ritenuto di dover percorrere. Si può dire dunque che le sette tesi che vado a esporre ne costituiscono il filo conduttore.
2. PLATONE AL CONTRARIO
La denuncia platonica nel Fedro è universalmente nota ed è stata ripetuta nei secoli. Nell’ultima parte del dialogo Socrate racconta il famoso mito del dio Theuth, inventore della scrittura (ma anche, non a caso, della «scienza del numero», della geometria e dell’astronomia). Stando al racconto di Socrate il re egiziano Thamus, dialogando con il dio Theuth, avrebbe espresso la celebre condanna della scrittura in quanto mnemotecnica. Farmaco ambiguo e velenoso, la scrittura avrebbe un effetto deleterio nei confronti della «vera» memoria e della sapienza. La memoria, infatti – intesa qui come una facoltà propriamente umana, intimamente legata alla verità e alla conoscenza –, subirebbe lo stesso destino di tutti gli organi umani che ci disabituiamo a usare: sostituita da uno strumento supplementare essa andrebbe incontro a un’inevitabile atrofia.
L’argomento di Platone è lineare e ha una forza immediata. Il discorso platonico si regge sulla distinzione di principio tra una memoria autentica, umana e vivente, e una falsa memoria, la scrittura, mero strumento esterno. Ma a questa contrapposizione ne corrisponde un’altra, altrettanto radicale, quella tra vero sapere e falso sapere. Derrida rileva opportunamente il nesso che lega la denuncia particolare contenuta nel Fedro e la più generale critica alla sofistica propria della filosofia platonica. Non a caso i Sofisti sono i maestri della mnemotecnica. Ma la loro abilità non deve essere confusa con la «vera» scienza. È proprio questa contrapposizione tra vero sapere e pseudosapere che implica fin dall’inizio una concezione negativa della scrittura: nella misura in cui è un mero strumento, essa non è verità e non è scienza. Nel Fedro la preoccupazione per le sorti della memoria e la preoccupazione per le sorti del sapere sono intimamente unite, secondo un’associazione profonda autorizzata dall’etimo greco della parola «aletheia» (dove il Lete è l’allegoria dell’oblio): «Non bisogna separare qui memoria e verità. Il movimento dell’aletheia è da parte a parte spiegamento di mneme»1. È questa associazione che rende la decostruzione della tesi platonica simile alle altre operazioni decostruttive che Derrida propone negli stessi anni. La Farmacia di Platone si inserisce pienamente nel quadro di una polemica più ampia iniziata con Della grammatologia, La voce e il fenomeno e L’origine della geometria. In fin dei conti Derrida rimprovera a Platone ciò che aveva già rimproverato a Husserl e Rousseau: una concezione riduttiva della scrittura che impedisce di coglierne la portata trascendentale e una concezione errata della verità che impedisce di coglierne la storicità.
La tesi derridiana emerge dunque, dopo molti preamboli, da una critica della critica platonica alla sofistica. L’essenziale è tutto concentrato in una pagina densissima che sono costretto a citare quasi per intero.
Tutta la questione per Derrida è nel ripensare questo limite. Si tratta di mettere in discussione una tradizione filosofica unanime nel fissare la distinzione tra interno ed esterno, vivente e non vivente, memoria e promemoria. Una tradizione che ha fin da subito concepito la memoria come il più intimo possesso dell’animo umano. A partire dal celebre «noli foras ire» di Agostino e seguendo l’esortazione all’interiorizzazione contenuta nella parola tedesca «Erinnerung», il pensiero occidentale ha associato con forza memoria e interiorità. In realtà – ecco la prima tesi derridiana – il «fuori» è già all’interno del lavoro della memoria:
Ma che cosa vuol dire tutto ciò? Cosa significa ripensare il limite tra memoria e archivio? E soprattutto: cosa ci autorizza ad affermare che una memoria esterna, una scrittura in senso lato, sia già all’opera all’interno della dinamica del ricordo? Come argomenta Derrida questa tesi così contro-intuitiva? Il testo prosegue introducendo bruscamente quello che sembrerebbe essere l’argomento fondamentale. Si tratta del problema della «finitudine ritenzionale».
La coscienza non è infinita. Non può «aver presente» tutto nello stesso tempo. La vita del soggetto è segnata da un limite essenziale: ora è presente una cosa, ora un altra. Quando qualcosa si mostra allo «sguardo» dell’io, qualcos’altro necessariamente svanisce, si oblia. Ma è proprio questa finitezza radicale che rende necessario ciò che in questo passo Derrida chiama «ipomnesi». Come può infatti la coscienza mantenere un rapporto con ciò che non è più presente, con ciò che è svanito? Grazie alla mediazione di un segno, di una traccia. Così quel processo di delega a un supporto esterno stigmatizzato da Platone si troverebbe replicato già all’interno della dinamica della coscienza vivente. La scrittura in senso proprio, la scrittura esterna inventata dal dio Theuth, lungi dall’essere un rimedio velenoso, sarebbe invece l’esatto analogo di una più originaria scrittura interna, la memorizzazione. In questo senso diviene lecito affermare non solo che non c’è memoria senza segno, ma anche – più radicalmente – che la memoria è essenzialmente un segno5.
Questa seconda tesi non è più chiara della prima. L’argomento della finitezza ritenzionale è appena suggerito e rimane senza sviluppo. In particolare un punto resta dubbio: per quale ragione bisognerebbe pensare che il rapporto della coscienza al non più presente sia un rapporto mediato e non immediato? O, in altre parole: per quale ragione bisogna i...