Fortuna e ironia in politica
[1] La parola «fortuna» descrive l’esperienza più antica e fondamentale nella politica: la consapevolezza dell’uomo politico che persone ed eventi sono recalcitranti alla guida risoluta; che il risultato dell’azione politica mai coincide con l’intenzione; che mai si può avere il controllo di tutto il materiale rilevante. In un celebre capitolo del Principe, Machiavelli afferma che, riflettendo sulla politica, spesso ha avuto la tentazione di consentire con chi crede che la sorte governi tutto e che la saggezza degli uomini non possa influenzare gli eventi. «Nondimanco – conclude – perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi»1. Questa condivisibile affermazione, con la sua candida quantificazione, potrebbe essere considerata il tentativo di uno scienziato politico di definire i limiti della libertà nell’esperienza politica. Federico il Grande la riecheggia duecentocinquanta anni dopo, forse consapevolmente, ma nella maniera più sbrigativa e cinica che ci si possa aspettare dal politico di professione: «Plus on vieillit, disait-il souvent, et plus on se persuade que sa Majesté le Hasard fait les trois quarts de la besogne de ce misérable univers»2.
[2] Il capitolo di Machiavelli sulla fortuna è filosoficamente grezzo, eppure meditato. Egli sta deliberatamente spodestando una concezione tradizionale, per sostituirla con una più antica. L’idea spodestata è quella della provvidenza, che considera le operazioni della sorte tutte dotate di uno scopo morale e che si verificano sotto la supervisione della divinità benevolente, o in conformità di un processo benefico. Chi crede nella provvidenza non seleziona per la propria contemplazione esperienze differenti da quelle del devoto alla fortuna, neppure una gamma più ampia d’esperienza. Accoglie la stessa esperienza con una diversa gamma di presupposti. Imbriglia la fortuna tra le stanghe di una dottrina più vasta. Così Dante parla della «Fortuna, cioè quella causa che noi, meglio e più giustamente, chiamiamo “divina provvidenza”»3, e nell’Inferno la descrive come uno spirito-guida che Dio ha nominato per controllare la nostra sorte terrena, comparabile alle intelligenze angeliche che regolano i paradisi4. Donoso Cortes, il filosofo cattolico che fu ambasciatore spagnolo a Parigi, scrisse perciò nel 1852:
Vi è ironia in questo passaggio, in cui Donoso Cortes sembra stia arginando le proprie opinioni. È posto alla fine di una serie di lettere di grande valore per la loro perspicacia politica, e immediatamente dopo una valutazione della situazione internazionale nella quale egli prevede una guerra russa con la Turchia, un’occupazione austriaca delle province danubiane, la conquista prussiana della Germania settentrionale, l’occupazione inglese dell’ Egitto, e una vana espansione francese. Il solo coup d’état della provvidenza nei trent’anni seguenti, che i paraocchi del filosofo cattolico gli impedirono di prevedere, fu l’unificazione italiana e l’estinzione del potere temporale del papato6.
Donoso Cortes faceva risuonare gli accordi introduttivi di Burke nella sua prima Lettera su una pace regicida. Burke rifiuta l’idea che gli Stati, come gli individui, seguano un ciclo vitale: «Le collettività non sono entità fisiche, bensì morali». A tale proposito, deduce che la politica interna è più difficile da analizzare della politica internazionale; è un campo in cui èmaggiore l’incertezza. «Dubito che la storia del genere umano sia ancora sufficientemente completa, se mai potrà esserlo, per fornire
[3] le basi di una teoria sulle cause interne che necessariamente condizionano la fortuna di uno Stato. Sono ben lontano dal negare il funzionamento di tali cause: ma sono infinitamente incerte e molto più oscure, nonché molto più difficili da individuare, delle cause esterne che tendono a innalzare, a deprimere, e, talvolta, a sopraffare una comunità». Prosegue a descrivere l’ambito di ciò che Machiavelli chiama fortuna. «È spesso impossibile, in queste indagini politiche, trovare qualsiasi proporzione tra la forza apparente di qualsivoglia causa morale tra quelle che potremmo stabilire e il loro comprensibile operare. Di conseguenza, siamo costretti a consegnare quell’operazione al mero caso, oppure, con modo più pio, (forse più razionale), all’interposizione occasionale e all’irresistibile mano del Grande dispositore». Le storie degli Stati rivelano schemi di fioritura differenti, e la maggior parte d’essi ha subito duri rovesci di fortuna. «La morte di un uomo in un momento critico, il suo disgusto, il suo ritiro, la sua disgrazia, hanno portato calamità innumerevoli su un’intera nazione. Un soldato qualunque, un bambino, una giovane sulla porta di una locanda, hanno cambiato il volto della fortuna, e quasi della natura». Ci si potrebbe domandare se furono i primi lettori di Burke oppure quelli attuali i più numerosi nello scorgere in questo celebre passo le allusioni ad Arnold von Winkelried sul campo di Sempach, all’Annibale bambino che presta il suo giuramento d’odio a nove anni, e a Giovanna d’Arco aiutante alla locanda di Neufchâteau7.
[4] La fortuna che Machiavelli pone al posto della provvidenza era un’idea dominante nell’antichità ellenistica e romana, e la sua versione è forse debitrice a Polibio più che a chiunque altro8. Polibio era uno statista della lega Achea che ebbe un ruolo nella creazione del potere romano in Grecia. Le sue Storie descrivono come, nel breve volgere di un quindicennio, Roma distrusse Cartagine e Macedonia, conquistò gli Stati greci, e si fece dominatrice del mondo. Egli ascrive questa straordinaria rivoluzione internazionale principalmente alla fortuna, a Tyche:
La tyche di Polibio è un concetto più complesso e ricco della fortuna di Machiavelli. In fondo, Polibio approva quel che Tyche ha fatto durante la sua vita; Machiavelli, in definitiva, è risentito da ciò che la fortuna ha invece causato nella sua. La fortuna ha offeso il patriottismo di Machiavelli ed è stata maligna nei confronti suoi e della sua carriera10. Tyche ha concesso a Polibio grande patriottismo e (tra l’altro) casualmente l’amicizia del più giovane Scipione, il legame più importante della sua vita11.
[4a] Ma a uno stadio più profondo, la fortuna è qualcosa di più finalizzato della sorte: è l’incomprensibile potenza che regola i cambiamenti e le fasi dell’esperienza umana. Diventa perciò un aspetto del destino. Plutarco, nel suo saggio La fortuna dei Romani, scritto per adulare il popolo imperiale, dipinge Fortuna che abbandona Assiri e Persiani, e volteggia leggiadra su Macedonia e Cartagine; ma quando si avvicina al Palatino e incrocia il Tevere, libera le ali e abbandona il suo precario globo12.
[5] Per Machiavelli la fortuna era una forza distruttrice, come un fiume italiano in piena. Per Polibio Tyche era fondamentalmente benevola e l’ascesa di Roma fu «la più splendida e nello stesso tempo la più utile realizzazione della Fortuna»13. Talvolta questa tyche diviene quasi provvidenza, poiché provvidenziale è il termine che usiamo per descrivere l’inspiegabile accadere consonante con i nostri intenti più profondi.
In secondo luogo, Machiavelli scrive per istruire il politico: vede la fortuna come la forza che condiziona l’azione politica e tende a ostacolarla. Polibio sta scrivendo per lo storico. Egli è lo spettatore, non l’agente politico; in quanto autore, si pone a maggiore distanza di Machiavelli dal processo politico; e per lui Tyche è una categoria d’interpretazione storica, un modo per spiegare la mutabilità degli eventi e la caducità del risultato politico. Quando racconta la sconfitta e la deposizione dell’ultimo re macedone, richiama un trattato sulla Tyche di Demetrio Falereo che, centocinquanta anni prima, all’apogeo del regno macedone, rimase attonito al pensiero che il nome stesso dei Persiani fosse scomparso – i Persiani che furono i dominatori di quasi l’intero mondo – e che i Macedoni, il cui nome prima era ignoto, fossero ora la potenza dominante. Quando Demetrio aggiunge che era la natura di Tyche a garantire questo vantaggio ai Macedoni, fintanto che ella avesse scelto di trattarli diversamente, Polibio lo considera un segno di preveggenza soprannaturale14.
[6] La stessa idea compare nel momento del dramma supremo della storia polibiana, quando Scipione, guardando Cartagine svanire tra le fiamme, si volta e stringe la mano di Polibio dicendo d’avere il presentimento che un giorno la stessa sentenza sarà pronunciata sulla sua patria: «Riuscirebbe difficile fare una dichiarazione più degna di un uomo politico e più saggia di questa. Infatti, essere in grado nei momenti di maggior successo nostro e di più terribile sventura dei nemici, di riflettere sulla propria situazione e sul possibile ribaltamento delle circostanze e, in generale l’essere pronti, quando le cose vanno bene, a richiamare alla mente l’instabilità della fortuna, ebbene, questo è proprio di un uomo grande e perfetto; in una parola: di un uomo degno di essere ricordato»15.
Ma Polibio non spiega tutto in termini di tyche, in nessun modo. Enfatizza il fatto che il valore e il fascino della storia risiedono nell’accertare cause naturali. La prima guerra punica fu vinta dalla disciplina e dal valore dei Romani; il successo della Lega Achea andava ascritto al suo fondarsi su principi di democrazia, uguaglianza e fraternità; lo spopolamento della Grecia fu generato dal decadimento morale dei Greci stessi; la causa più importante del successo o del fallimento di uno Stato è la sua costituzione16.
[7] In effetti, Polibio rovescia il giudizio di Burke sullo scopo della spiegazione causale in politica. Il declino degli Stati, egli dice, può essere sia un processo interno che esterno; e mentre il processo interno obbedisce a leggi fisse di mutamento costituzionale, il processo esterno non è compatibile con lo studio scientifico17. Si potrebbe quasi dire che, se per Burke la ...