Contro gli asili nido
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Contro gli asili nido

Politiche di conciliazione e libertà di educazione

  1. 96 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Contro gli asili nido

Politiche di conciliazione e libertà di educazione

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Oggi, nel nostro Paese, le donne (e gli uomini) che lavorano sono costrette ad allontanarsi dai figli sin dalla prima infanzia; oppure, se non ne hanno intenzione, a dimettersi. Se dichiarano qualche insoddisfazione, è piuttosto verso la mancanza di un sistema capillare di strutture di assistenza alla prima infanzia realizzate e gestite dallo Stato. Ma è giusta una simile soluzione che antepone esigenze diverse - la produttività, l'eguaglianza tra i sessi, l'emancipazione femminile - al bisogno conclamato dei figli di trascorrere i primi anni il più possibile accanto ai genitori; che scoraggia l'assunzione della responsabilità educativa in prima persona; che, proponendo lo Stato come sollecito tutore, genera la convinzione che un compito fondamentale come l'allevamento dei figli, in particolare nella prima infanzia, possa essere delegato ad altri? Davvero il principale desiderio di madri e padri è quello di lavorare, sempre e comunque, anche mentre i figli sono ancora in fasce? Che riflessi avrà questa lontananza sul futuro dell'attuale generazione infantile, abituata a crescere da piccolissima senza famiglia? Con uno stile brillante e di alta divulgazione, l'autrice passa in rassegna casi storici e analisi finanziarie, fornendo infine una proposta di policy economicamente sostenibile e realisticamente fondata su dati strutturali, congiunturali e antropologici del "modello italiano."

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788849833201
Argomento
Business

1.
Il dilemma

NIDO O BABY SITTER? Le madri italiane che lavorano – dipendenti o autonome, per scelta o per forza, con maggiore o minore soddisfazione professionale –, dopo il parto possono astenersi dal lavoro per qualche mese (almeno tre o quattro); ma poi, trascorso il periodo previsto dalla legge1, si trovano inevitabilmente di fronte al dilemma. Nei crocicchi di neomamme, ancora un po’ appesantite dalla recente gravidanza, ma già ansiose di ricominciare, non si parla d’altro. «Tu lo mandi al nido o hai qualcuno?» è la domanda di rito, che presuppone che non si dia altra possibilità all’infuori di queste due.
Ci sarebbero i nonni: ma non sempre, e non per tutto il tempo, non quanto servirebbe per permettere a mamma e papà di trascorrere fuori casa l’intera giornata, come spesso richiedono i ritmi lavorativi. E allora si fanno due conti, e si valutano le alternative. La baby sitter a domicilio resta la soluzione ideale, ma è anche la più costosa: una professionista specializzata, che si occupa unicamente del bambino, per una porzione ampia (ma limitata) della giornata. Ma se mamma cerca una persona davvero qualificata – magari italiana, magari con un diploma da puericultrice, magari pagandole i contributi – dovrà praticamente dire addio al suo stipendio. Allora perché non una ragazza alla pari? Straniera, spesso comunitaria, senza un’esperienza specifica, ma con una disponibilità più ampia e un costo decisamente ridotto. Ma ci sarà da fidarsi o poi ce la ritroviamo in un internet point a chattare accanto al bimbo che piange? Piuttosto, già che c’è la colf, si potrebbe farle dare anche un occhio al bebè, così si prendono due piccioni con una fava. Ancora meno onerosa, anche se non specializzata, non di rado di origine extracomunitaria, si incarica totalmente del «lavoro di cura» (pulizie di casa comprese), assicurando la sua presenza per tutto il giorno (o addirittura prendendo dimora anche per la notte): e pazienza se parla male l’italiano e con il pupo si limita a lunghe, silenti passeggiate in carrozzina senza dare un cenno di presenza.
Certo, non si può volere tutto. O sì? Per risolvere il problema dell’affidamento dei piccoli a un’assistenza competente, senza rovinarsi economicamente, la soluzione migliore a detta di tutti resta l’asilo nido: del quale vengono universalmente sottolineate le virtù dal punto di vista pedagogico e umano, il contributo alla crescita equilibrata del bimbo, l’ambiente sicuro e controllato, la professionalità del personale. Senza contare l’opportunità di contatto con gli altri bambini, l’importanza della socializzazione già in tenera età, la qualità della cura. E tutto questo, se si tratta di strutture comunali o aziendali, con un costo decisamente più abbordabile. Ma qui i posti disponibili, si sa, sono limitati: gli asili pubblici sono pochi, soffrono di carenze strutturali e non garantiscono l’accoglienza di tutte le richieste. Esistono pur sempre strutture private: ma anche in queste, che pure prevedono rette decisamente più care, non alla portata di tutti, non è scontato trovare un posto. Se i bimbi in famiglia sono più di uno, poi, la spesa necessaria raggiunge o supera quella da preventivare per assumere una tata, che a questo punto resta l’unica opzione plausibile: rafforzata da argomenti di dominio comune come l’opportunità di non abbandonare in età troppo tenera le mura domestiche, o la minore esposizione al contagio di malattie frequenti tra i neonati.
Il dilemma in cui si agitano le famiglie italiane con figli in tenera età è tutto qui. Secondo i dati del dossier 2007-2008 di Cittadinanzattiva «Tra caro retta e liste d’attesa»2, sul capo di mamma e papà pendono da un lato l’esosità delle rette previste anche nei nidi comunali – che arrivano fino ai 500 euro mensili, e possono sfiorare i 600 – dall’altro l’estrema penuria di posti disponibili: nel nostro Paese la copertura totale del servizio arriva appena al 6% dei potenziali destinatari, con liste d’attesa che raggiungono il 72% dei richiedenti. Sotto questo aspetto, la situazione italiana ha dell’inverosimile: secondo la legge del 1971 che istituiva gli asili nido comunali3, i nidi pubblici avrebbero dovuto raggiungere entro cinque anni una copertura del 10% (pari a 3.800 asili al termine del periodo, nel 1976). Quattordici anni dopo, la copertura era ancora ferma al 3%, ben lontana dagli obiettivi fissati. Dopo trentasette anni, è cresciuta solo di un ulteriore 3%. Se si considerano anche gli asili privati e aziendali, e i cosiddetti servizi integrativi e innovativi (ludoteche, micronidi ecc.), le cose migliorano, ma di poco: secondo i dati istat del 2004, gli ultimi certificati, in questo modo si raggiunge l’11,4% del territorio; ancora gli ultimi dati disponibili4, che comprendono l’anno successivo, parlano di una copertura rilevata del 9,9% per i soli asili nido pubblici e privati, che supera l’11% solo se si aggiungono i servizi integrativi e innovativi. Siamo in ogni caso ben lontani dall’obiettivo fissato dal Consiglio europeo di Lisbona, pari a una copertura territoriale del 33% entro il 2010. Ma siamo anche distanti dalle performance di altri Paesi europei: dal 64% della Danimarca, dal 38% dell’Irlanda e dal 29% della Francia.
La ricerca di Cittadinanzattiva sottende più di un auspicio: l’associazione propone un vero e proprio Piano Nazionale, che aumenti del 66% in tre anni il numero di strutture – attualmente circa 3.100 – prevedendone altri duemila, oltre agli incentivi per imprese che aprono nidi aziendali e agli sgravi per le famiglie numerose e a basso reddito. In tutti i casi, si tratta di misure che prevedono l’impegno dello Stato: non solo la destinazione di una parte della spesa pubblica al loro finanziamento, ma la trasformazione del «problema nido», ovvero dell’allevamento dei piccoli con madri lavoratrici, in un problema pubblico, anziché privato. Un simile proposito non è estraneo alla politica italiana, che ha mostrato almeno negli intenti di volersene fare carico. Per citare solo l’ultima occasione disponibile, ne erano ben consci i due principali avversari alle elezioni politiche del 2008. Il programma del Popolo delle Libertà parlava di «prosecuzione del piano di investimenti in asili aziendali e sociali», includendo l’obiettivo in quello più generale del «miglioramento dei servizi sociali»; a proposito della seconda missione del programma, «sostenere la famiglia». Dall’altro lato, il programma presentato dal Partito Democratico recitava al punto sesto, comma c: «L’asilo nido deve diventare un servizio universale, disponibile per chiunque ne abbia bisogno [...] è conseguibile l’obiettivo di quadruplicare il numero dei posti entro cinque anni, con servizi che coprano il 25% dei bambini da 0 a 3 anni, contro il 6% attuale». Il precedente comma b, intitolato «Sono le donne l’asso dello sviluppo», riportando una serie di «proposte per la conciliazione» (tra famiglia e lavoro, s’intende), prevede: «Orari flessibili e “lunghi” negli asili, nelle scuole elementari e negli uffici pubblici che rendono i principali servizi ai cittadini; gli asili chiudono solo una settimana a Ferragosto».
È interessante rilevare come la politica dichiari di sposare in pieno (al di là degli esiti effettivi) l’ottica che vede negli asili nido la risposta ideale al problema della conciliazione tra famiglia e lavoro. Non solo nel senso della loro moltiplicazione, almeno fino a raggiungere la copertura degli altri Paesi europei «virtuosi», ma anche nel senso dell’allargamento del servizio, con l’ampliamento degli orari fino all’intera giornata e l’estensione dell’apertura, fatta eccezione per poche «feste comandate», a tutto l’anno solare. Nel contempo, quali che siano l’appartenenza partitica e l’orientamento ideologico, resta fermo il riconoscimento dell’assunto che, trattandosi di un servizio alla collettività, debba essere lo Stato a farsene carico – più che l’iniziativa privata. Non solo, insomma, ci vogliono più asili nido, ma asili nido pubblici; comunali, o in alternativa aziendali, persino condominiali, sul modello francese; purché sempre sostenuti da denaro proveniente dalla spesa pubblica. Questo perché l’esigenza cui gli asili nido rispondono non è, o è soltanto in parte, un’esigenza personale, familiare o educativa; si tratta invece di una vera e propria esigenza sociale e politica.
1. Si tratta della legge 53 del 2000, che rappresenta un’evoluzione rispetto alla precedente legge 1204 del 1971.
2. Gli asili nido comunali in Italia, tra caro retta e liste d’attesa, luglio 2008, consultabile sul sito dell’associazione www.cittadinanzattiva.it.
3. La 1044 del 6 dicembre 1971 (dall’eloquente titolo di Piano quinquennale per l’istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato).
4. Sono quelli provenienti dal Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza, riferiti a un lasso di tempo tra il 31 dicembre 2003 e il 31 dicembre 2005.

2.
Breve storia di un’esigenza

IL PRINCIPALE MOTIVO PER RICORRERE all’affidamento dei figli in tenera età a terzi consiste nell’impossibilità dei genitori di prendersene cura personalmente, perché entrambi lavoratori. Fatalmente, è però la figura materna la più interessata dal problema: un problema relativamente recente, sorto con l’accesso femminile al mondo del lavoro, e consolidato poi dalla consistente trasformazione della realtà socioeconomica nel XX secolo, prima ancora che dai risultati delle lotte per l’emancipazione. A decidere per la precoce separazione dai figli era stato in principio il progressivo incremento del numero di madri lavoratrici: spinte fuori casa non solo, e non tanto, dal legittimo desiderio di autonomia, quanto soprattutto dalle mutate esigenze economiche dei nuclei familiari. In un mondo che aveva scoperto i consumi e ne veniva sempre più trascinato, il ruolo della donna non poteva restare limitato all’occupazione domestica, ma doveva essere attivamente coinvolto nella ricerca di sostentamento al di fuori dell’ambito casalingo. Le donne, impegnate fuori casa per contribuire al pari degli uomini al bilancio familiare, non potevano più permettersi di allevare i bambini a tempo pieno.
Insieme alla quantità, il mutamento interessò anche la qualità dell’impegno richiesto, sempre meno caratterizzato in termini di genere: anche qui, prima e con maggiore forza rispetto agli esiti dell’emancipazionismo. Se in epoca pre- o veteroindustriale alle donne erano riservate occupazioni che gravitavano, strettamente o latamente, attorno all’ambito domestico, come il lavoro nei campi o il cucito, le successive ondate di industrializzazione equipararono sempre più la forza lavoro femminile a quella maschile (e persino infantile), e la produzione di beni di massa accantonò pressoché totalmente i lavori domiciliari. La situazione mutò inoltre in concomitanza con lo sgretolamento della famiglia allargata: se la convivenza di nonni e zii accanto a madri, padri e figli aveva consentito di fare affidamento su altri familiari per occuparsi dei bambini, con la scomparsa della rete parentale veniva meno anche l’ausilio in quest’ambito.
Non tutte le rivendicazioni comunemente attribuite ai movimenti per la liberazione della donna degli anni Sessanta sono ascrivibili al loro reale pensiero, né alle loro intenzioni. Non solo perché le varie correnti all’interno degli stessi movimenti non erano tra loro concordi sugli obiettivi da perseguire; ma anche perché in tanti casi si trattò di possibilità già rese effettive dai mutamenti precedenti, e poi trasformate in facili slogan da una vulgata che persiste ancora oggi. Le proteste di piazza per il diritto femminile all’autodeterminazione, all’autosufficienza, alla pari dignità e considerazione sociale rispetto agli uomini sancirono ufficialmente l’inaccettabilità sopravvenuta di un modello di vita individuale e familiare che non era più nei fatti; con l’effetto secondario, in molti casi, di vedere l’elaborazione ideale sullo status femminile degenerare in ideologia.
A questo punto, i bisogni nati da necessità sociali si trasformano in assunti non falsificabili. È a quest’epoca che risale l’affermazione stabile dell’esigenza femminile di lavoro extradomestico come strumento di emancipazione; non a caso, è la stessa epoca in cui le strutture destinate all’accoglienza della primissima infanzia si moltiplicano e si organizzano, rivedendo le proprie finalità rispetto a quelle meramente sanitario-assistenziali. Rimanendo al contesto italiano, dopo un decennio di richieste da parte dell’Unione Donne Italiane e dei sindacati, sfociate in diverse proposte di legge, nel 1971 viene emanata la già citata legge 1044, che istituisce i nidi comunali, finanziati dallo Stato e programmati dalle Regioni, soppiantando il precedente modello sanitario-assistenziale dell’ONMI1, che viene accantonato. L’impiego in ambito non casalingo, sessualmente indifferenziato, diventa veicolo di una irrinunciabile realizzazione personale – anche a discapito di quella familiare –, identificata tout court con i risultati di una produttività socialmente riconosciuta.
A quarant’anni dal culmine delle contestazioni studentesche e delle manifestazioni femministe, sarebbe bene interrogarsi sugli esiti di una simile prospettiva; sull’effettiva resa dell’investimento compiuto dalle donne sul loro nuovo status, a patto dei sacrifici che questo ha richiesto in termini morali e personali; sulla reale sensatezza dell’obiettivo delle «pari opportunità», ancora oggi così lontano dall’essere raggiunto. Limitandosi alla sola Europa, la partecipazione femminile al mondo del lavoro è senz’altro cresciuta in modo significativo fino agli ultimi anni: nel 2005 superava il 56% nei 25 Paesi dell’ue. Ma il quadro relativo alla presenza e alla rilevanza femminile nella classe dirigente, tanto in ambito lavorativo quanto politico, resta tutt’altro che incoraggiante; secondo l’EUROSTAT, la percentuale di donne nel management è pari al 30% in Europa, e per l’ISTAT scende al 20% in Italia (secondo il rapporto «Forze di lavoro», diffuso in agosto 2007 e riferito all’anno 2006; sul totale dei dirigenti italiani le donne sono il 24,5%, ma fortemente concentrate nei settori pubblici, come la pubblica amministrazione, l’istruzione e la sanità; in tutti gli altri settori sono ridotte a poche migliaia). Non va meglio in politica: l’Unione Interparlamentare dell’ue dice che nella grande maggioranza dei parlamenti nazionali la rappresentanza femminile non raggiunge il 25%, mentre nel 2006 in Italia le quote di parlamentari elette alla Camera erano il 17,1% e al Senato il 14%. Quanto alla presenza effettiva negli alti livelli decisionali, secondo la Commissione europea nel 2004 solo il 10% in media dei presidenti e componenti dei consigli delle aziende pubbliche europee sono donne; in Italia la percentuale si abbassa decisamente, raggiungendo il penultimo posto della lista dei Paesi UE. La persistente disparità di considerazione sociale è testimoniata inoltre dallo squilibrio nel trattamento economico: per la rilevazione ISFOL PLUS 2005, la differenza tra retribuzioni maschili e femminili in Italia è favorevole alle prime in tutte le tipologie contrattuali (fatta eccezione per le sole collaborazioni a progetto); e spazia dal 6,6% in meno per le donne dei contratti di apprendimento, al 23,6% in meno del lavoro a tempo indeterminato, e al 24,4% in meno di quello a tempo determinato; fino al 70,4% in meno per la professione di coadiuvante familiare2. L’impressione complessiva, insomma, è che la parità tanto agognata dalle donne si sia tradotta in effetti nella formazione di un esercito di volenterose impiegate.
Eppure, sulla prospettiva egualitarista si è verificata ben presto la con...

Indice dei contenuti

  1. Contro gli asili nido
  2. Colophon
  3. Dedica
  4. Indice
  5. Prefazione di Valentina Aprea
  6. Introduzione
  7. 1. Il dilemma
  8. 2. Breve storia di un’esigenza
  9. 3. Una scelta obbligata?
  10. 4. Due modelli, due soluzioni
  11. 5. Tuffo nel passato...
  12. 6. ... o ritorno al futuro?
  13. 7. Un modello italiano
  14. 8. Libertà e responsabilità