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Quadro storico
SOTTO IL PROFILO STORICO, commentando le vicende che seguirono gli avvenimenti del 1870, «quando l’opera e la parola e lo spirito di Bismarck, e le teorie e l’azione del socialismo marxistico, cospirarono a discreditare l’ideale della libertà»1, Benedetto Croce tenta di elaborare un raffronto tanto raffinato quanto problematico (e per alcuni artificioso) tra la libertà intesa come “ideale pratico” e la libertà intesa come “concezione filosofica”. Nel primo caso, l’ideale pratico rinvierebbe inevitabilmente all’insieme di costumi, istituti e leggi che definiscono, caratterizzandola, la vita di un popolo; nel secondo caso, per concezione filosofica della libertà dovremmo intendere un coerente sistema filosofico. Per Croce, il paradosso risiederebbe nel fatto che il liberalismo inglese «nel quale l’ideale di libertà ebbe la prima e più nobile affermazione e dove fu tradotto in istituti e costumi e donde ne venne l’esempio più efficace agli altri popoli», fu «per lungo tempo il meno adatto a dimostrare filosoficamente il proprio ideale e il suo proprio fare»2. La ragione di tale “discutibile” affermazione di Croce, che evidenzierebbe un paradosso nel modo in cui le teorizzazioni sul concetto di libertà si siano differenziate dalla loro storicizzazione, è individuata da Valerio Zanone nell’avversione di Croce nei confronti delle correnti di pensiero “sensiste”, “edonistiche” e “utilitaristiche”, considerate dal nostro «poveri e fallaci teorizzamenti». In questa prospettiva andrebbe letta anche la severa recensione di Croce al classico di J.S. Mill On Liberty, nella quale opera, per il filosofo abruzzese-napoletano, «la sincera fede liberale dell’autore» sarebbe «meschinamente e bassamente ragionata mercè dei concetti di benessere e di felicità e di prudenza e di opportunità»3.
D’altro canto, è sempre Croce a riconoscere che proprio in Germania, dove la teoria della libertà era stata oggetto di “grandiosi sistemi filosofici”, il liberalismo non era riuscito ad imporsi come prassi politica, al punto che non mancano studiosi che hanno fatto notare come il liberalismo tedesco sia stato caricato dalla storiografia francese, anglosassone e anche da quella tedesca di tutti i mali della storia patria4. Scrive a tal proposito Croce: «La scarsa e dubbia tradizione di libertà nella vita germanica, la poca vivezza nel sentimento di essa e la disposizione alla sudditanza la lasciavano schiacciare sotto l’idea dello Stato, una sorta di astrazione personificata con attributi e atteggiamenti da nome giudaico»5.
Sarà Wilehlm Röpke, tra gli autori ordoliberali, ad avanzare un argomento di carattere teologico: «La decisiva devozione del luteranesimo allo Stato che sembra lo renda inetto a far da contrappeso a quest’ultimo e il fatto di essere stato palese strumento dell’assolutismo in Germania hanno suggerito l’opinione che nel luteranesimo sia da ricercarsi una fonte dell’assolutismo statale germanico; e certuni arrivano persino a tracciare una linea di collegamento da Lutero oltre Hegel fino a Marx e Lenin da una parte e fino a Bismarck, Treitschke e Hitler dall’altra»6.
Anche la Rivoluzione Industriale, che ebbe modo di trasformare la Germania non prima del 1890, in seguito al processo di unificazione, non comportò un’elaborazione teorica in grado di orientare le dottrine economiche e politiche verso il liberalismo classico, così come accadde nei Paesi anglosassoni durante il secolo precedente. La struttura economica rimase sostanzialmente legata alla tradizione monarchico-feudale e le timide “inclinazioni liberiste” che si riscontrarono tra il 1870 e il 1878, con qualche apertura alle esportazioni, appaiono dettate più da opportunistiche ragioni che rispondevano agli interessi dei circoli conservatori prussiani che da una conversione degli stessi ai principi del libero mercato7.
In questo contesto si colloca il tentativo di Ludwig von Mises di scardinare il blocco politico, economico, sociale e culturale del liberalismo germanico, quando nel 1919 pubblica Nation, Staat und Wirtschaft, un notevole contributo scientifico all’elaborazione di una teoria del liberalismo che lo allontanasse dalle tentazioni nazionalsocialiste. È lo stesso Mises a scrivere: «Un libro scientifico con un disegno politico. Si trattò di un tentativo di alienare i sentimenti del popolo tedesco e austriaco dalle idee nazional-socialiste […] e di raccomandare la ricostruzione sulla base di una politica liberal-democratica. Il libro non riscosse nessuna attenzione, e pochi lo lessero. So, però, che sarà letto in futuro. I pochi amici che lo stanno ora leggendo non ne dubitano»8.
L’insuccesso del libro di Mises si inserisce nel clima culturale dell’epoca, «l’accentuato pluralismo culturale, sociale e politico della repubblica di Weimar». In quel clima le forze liberali si mostrarono estremamente deboli rispetto alle tentazioni dello statalismo autoritario e di altri movimenti popolari ancora in embrione. Secondo l’opinione di Ernest Nolte, la repubblica di Weimar rappresentò la ricerca e il fallimento di una soluzione alla «domanda fondamentale del sistema liberale; come potesse cioè formarsi nella lotta di opposte correnti di fede e di pensiero, ciascuna delle quali intendeva avere il monopolio della verità, quella cooperazione che rende possibile sia la continuazione dello sviluppo sia lo smascheramento dell’ultima fede come non-verità»9; in definitiva, la regola d’oro di un qualsiasi sistema liberale: come garantire il doveroso consenso sul legittimo dissenso?
E ancora più esplicito è stato Max Weber, il quale attribuisce al regime burocratico della tradizione bismarckiana la responsabilità di non aver educato la classe politica tedesca alla problematica del pluralismo. Scrive Weber: «La nazione fu disabituata da quella positiva cooperazione al proprio destino politico per mezzo dei suoi rappresentanti effettivi, la quale soltanto rende possibile l’educazione del giudizio politico»10.
Una visione “monopolistica” dell’elaborazione dei processi di decisione politica, questa, che mal si concilia con la prospettiva “cooperativa” che, facendo proprio il “principio di concorrenza” come strumento ermeneutico dell’agenda politica e non come mero elemento di qualche policy, determina la cifra liberale del tessuto politico, economico e culturale di un dato contesto. Ecco la ragione per cui, alla mentalità tedesca dell’epoca, il “parlamentarismo liberale” non poteva che apparire come la forma stessa di un “sistema in crisi permanente” che necessitava di un “critica permanente”, poi culminata nel periodo 1930-32 con il collasso finale e «l’autoparalisi del parlamentarismo»11. In questo senso, sostiene Daniel Villey, la salita la potere del nazionalsocialismo non è altro che «l’ultimo episodio della secolare guerra dello spirito tedesco contro l’idea di libertà»12.