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Controstoria di una riforma che arriva da lontano e porta all'oligopolio bancario

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Controstoria di una riforma che arriva da lontano e porta all'oligopolio bancario

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La riforma delle Banche Popolari ha colpito un sistema che per centocinquant'anni ha finanziato la crescita delle piccole e medie imprese che rappresentano il tessuto connettivo del Paese. Perché questo sistema è stato colpito in Italia e mantenuto altrove? A chi faceva comodo – magari in Europa – indebolire il nostro apparato industriale già messo a dura prova da dieci anni di crisi economica e dalla moneta unica? Fino all'arrivo dell'Unione Bancaria le banche popolari non hanno mai pesato sui contribuenti visto che la categoria risolveva i problemi al suo interno. Diversamente da quanto accaduto con le banche commerciali a cominciare dalla nascita dell'Iri negli anni '30. La riforma delle banche popolari è stata fatta con un decreto. Una procedura certamente anomala già condannata da diversi giudici. La scelta del governo Renzi precede di poche settimane la svolta della Bce che avvia il programma di acquisto di titoli di Stato in Europa. Il piano mette in sicurezza il debito pubblico italiano e consente allo Stato di risparmiare circa venti miliardi di interessi. Può sembrare uno scambio. Il sistema delle popolari non era una foresta pietrificata ma un universo in evoluzione che stava già disegnando una proposta di riforma. Perché il governo non ha dato tempo e modo di confrontarsi su questo progetto? Ora che le principali banche popolari non sono più popolari, il credito al territorio – col giusto criterio – non sarà più assicurato. Le banche dei grandi fondi punteranno tutto sul risparmio gestito, senza rischi. E le imprese che vorranno finanziarsi dovranno ricorrere al capitale di rischio. Chi potrà lo farà ma ai piccoli imprenditori cosa resta?

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788849853612
Categoria
Sociologia

1.
La svendita

IL CINQUE DEL LUGLIO 2017 Paolo Cirino Pomicino si è espresso, sul «Foglio», con una lucidità e una capacità di cogliere il punto impressionanti, in un articolo intitolato Proteggeteci. Il tema di cui si occupava era il Fondo italiano d’investimento, che mostra una sempre più spiccata tendenza a ritirarsi dal mercato consentendo ad altri Paesi, in particolare la Francia, di mettere le mani sulle nostre eccellenze.
Aziende che operano in settori nodali della nostra economia vendute all’estero. Pezzi o intere società strategiche per l’Italia cedute al miglior offerente, con la scusa della «logica di mercato». Una scusa, appunto, poiché imprese altrettanto strategiche i governi di Francia (ma anche di Germania) non avrebbero mai accettato di vederle vendute al miglior offerente italiano. Un esempio recentissimo: i cantieri di Saint Nazaire, su cui Fincantieri aveva fatto un’offerta d’acquisto. L’iniziativa è stata ostacolata dal neo presidente Macron sostenendo che nell’impianto, oltre alla flotta da crociera che interessa il gruppo italiano, vengono fabbricate anche alcune delle più moderne navi della flotta da guerra francese. Il blocco, quindi, è stato giustificato con la necessità di tutelare il segreto militare. Due considerazioni: in Europa si parla sempre più di frequente di un esercito comune e l’iniziativa di Macron, nonostante il proprio, dichiarato, spirito europeista, conferma che per il momento si tratta solo di belle parole. In secondo luogo bisogna ricordare che i cantieri, prima dell’offerta italiana, erano di proprietà di un gruppo coreano. Il quartier generale a Seul andava bene. Quello a Roma invece no. Con buona pace di tutti i proclami sulla collaborazione nella Ue.
L’articolo di Pomicino è stata la prima tessera di un domino che, a propria volta, ha messo in moto un meccanismo, fatto d’idee e di ragionamenti che negli anni si erano stratificati nella mia esperienza. Sì, perché in quell’articolo Pomicino spiega in maniera molto chiara un concetto: i grandi manager francesi stanno mostrando, in tutte le diramazioni del potere che rappresentano, di saper fare «sistema». Non lo ammetteranno mai, ma rappresentano una lobby, una lobby che, un pezzo alla volta, sta comprando quanto del sistema finanziario italiano oggi può essere loro utile per creare una posizione di forza in Europa e nel mondo. Quando il loro contratto si sarà concluso, lasceranno l’Italia con una pingue buonuscita. Sono indicative, in questo senso, le polemiche dei mesi scorsi su Telecom (controllata dalla francese Vivendi) a proposito della liquidazione dell’amministratore delegato Flavio Cattaneo.
Tutto il resto, come diceva Gordon Gekko in un vecchio film di Oliver Stone, è conversazione. Una conversazione orchestrata molto bene. Uno storytelling, com’è molto di moda dire oggi. Costruito ad arte per negare quello che c’è dietro la vera verità, dietro gli interessi e la regia che hanno portato a una certa serie di accadimenti.
È quello che abbiamo vissuto, in Assopopolari, per anni. Almeno dieci, forse anche di più. Da quando, cioè, prima degli avventurieri finanziari, poi dei politici e degli imprenditori dall’aspetto più serio hanno iniziato ad attentare a una delle eccellenze del nostro sistema finanziario: le banche popolari.
Dopo il decreto Renzi, dopo quella «riforma annunciata» di cui si occupa questo libro, che non a caso ricorda il celebre romanzo Cronaca di una morte annunciata (un delitto che nessuno voleva commettere, ma che si doveva a tutti i costi fare per salvare l’onore di una famiglia), ho ripensato spesso allo storytelling che è stato costruito attorno agli istituti di credito aderenti all’associazione.
Dietro al delitto, ovvero al decreto di cancellazione, chi c’è stato veramente? Perché cancellare un sistema che è stato così fondamentale per il Paese, senza dargli l’opportunità di provare ad autoriformarsi? Perché tanta fretta? Chi voleva liberarsi delle banche popolari?

Un giallo

Come dicevo, dopo il decreto non ho voluto esprimermi pubblicamente. Anche perché la riforma – nel frattempo – era stata sottoposta all’esame della Consulta. Col passare dei mesi, però, ho raccolto del materiale e fatto una serie di riflessioni che si sono accumulate nella mia mente. E a cui quell’articolo del «Foglio» ha dato la stura. Evviva, ho pensato, leggendolo: finalmente qualcuno se ne accorge. O, peggio, finalmente chi se n’era accorto ha il coraggio di dirlo e chiederlo a chiare lettere: che qualcuno ci protegga. Non svendeteci, proteggeteci!
Sì, perché il grande dramma che sta attraversando questo Paese – in un’Europa in cui le regole sono sempre meno chiare, in cui i principii di solidarietà sembrano valere solo a targhe alterne e solo per alcune nazioni – è la svendita. Dopo aver attraversato la crisi più grave dalla grande Depressione del ’29, il nostro Paese è uscito con le ossa rotte dalle tempeste che la finanza ha scatenato sulla nostra economia. Ci siamo ritrovati in un’Italia debole e con un debito mostruoso. Un’Italia in cui, però, le eccellenze nel settore imprenditoriale non solo sono vive e vegete ma facevano, e continuano a fare, gola.
In un’Europa unita in cui fare deal – cioè fare affari e accaparrarsi imprese eccellenti nate in altri Paesi – è diventato sempre più facile, l’Italia è diventata una preda. In molti settori: la moda, il design e anche la finanza. I predatori, i grandi fondi, i private equity, le banche straniere, sono diventati degli eroi, dei conquistatori.
Le nostre banche – se ne facciano una ragione i detrattori, che oggi scrivono sui giornali che i nostri istituti sono tutti falliti – hanno rappresentato, anche nel corso della crisi, uno degli elementi di stabilità e di stabilizzazione del Paese e sono riuscite a realizzare quest’importante ruolo senza chiedere aiuti di Stato e senza obbligare il nostro governo a ricorrere alle sovvenzioni europee. Certo, poi il sistema è andato in crisi, poiché lo sforzo che gli è stato richiesto è stato inimmaginabile. Però la maggior parte dei nostri istituti di credito – e non parlo solo delle banche popolari – è stato in grado di reggere il colpo, assorbirlo e ripartire.
Nel corso della grande crisi, dicevamo, le banche si sono ben comportate. Le banche popolari – in questo contesto – hanno fatto anche meglio. Per quanto possibile, in un contesto di grande difficoltà, sono state capaci di supportare il territorio, per quanto le nuove norme in fatto di accantonamenti precauzionali introdotti con la Vigilanza unica europea consentissero loro.
Mentre le banche popolari – in mezzo alla tempesta perfetta dei mercati – tenevano botta e si sforzavano di produrre lo sforzo necessario a non esaurire il sostegno offerto da sempre alle imprese e alle famiglie presenti sul territorio (a differenza di quegli istituti preoccupati solo del conto economico e dei dividendi promessi agli azionisti), si scatenava una seconda tempesta. Questa volta sui media. Il famoso storytelling, la post verità.
Sui giornali, nel corso degli ultimi dieci anni, si è letteralmente scatenata una vera e propria caccia alle streghe: sul rogo, questa volta, ci dovevano finire proprio gli istituti popolari e il principio del voto capitario. Le banche popolari sono state accusate di una gestione autarchica e autoreferenziale quando non addirittura «mafiosa» delle proprie risorse e del potere all’interno degli istituti stessi1. Il pregiudizio ha raggiunto livelli che mai avrei creduto. L’ideologia ha prevalso sulla realtà e quando la realtà ha presentato il conto la risposta è stata: peggio per la realtà. È accaduto così che per mesi le quattro banche messe in risoluzione nel novembre 2015 (CariChieti, Banca Marche, CariFerrara, Banca dell’Etruria) fossero definite in automatico sui giornali come le quattro popolari fallite. Ho passato mesi a scrivere che in realtà fra quelle banche c’era una sola Popolare mentre le altre avevano una diversa governance (società per azioni ed ex casse di risparmio).

La soluzione

Beh, ovviamente il mercato. Che è perfetto. Che si autoregola. Dove le «cricche» non sono tollerate.
Del resto – come alcuni ricorderanno – fu salutato più o meno come le truppe degli Stati Uniti che risalivano l’Italia il fondo Investindustrial di Andrea Bonomi, che nel 2011 diventò azionista di riferimento della Banca Popolare di Milano e presidente dell’istituto, con il chiaro obiettivo di trasformare Bpm in una società per azioni.
L’impresa non gli riuscì: di fatto però con lui capimmo che il governo cercava una testa di ponte per arrivare a un obiettivo che a Roma non riusciva a ottenere. Scardinare il sistema delle popolari.
Del resto le lettere che proprio Bonomi mandava ai dipendenti (e che poi faceva rimbalzare sulla stampa nazionale), in cui definiva «incrostazioni» un certo modo di gestire la banca, non lasciavano spazio a dubbi.
Come dicevo, l’impresa non riuscì. Riuscì però a Renzi, che nella propria furia riformatrice, con un colpo di mano (la storia è ben nota) per decreto cancellò di fatto istituti caratterizzati dal voto capitario. Con buona pace di 150 anni di storia.
Le banche popolari più grandi vennero costrette a trasformarsi in società per azioni, col risultato che, oggi, alcuni grandi istituti – tra cui proprio la Banca Popolare di Milano, al secolo parte del Gruppo Banco BPM –annoverano tra i principali azionisti grandi fondi di investimento stranieri. Che, in futuro, hanno la possibilità di contare sempre di più nell’azionariato.
Tralascio una domanda, che riprenderò nel corso di questo libro: cosa faranno questi grandi fondi avendo posizioni di rilievo nella governance di quelle che una volta erano banche popolari, qualora si dovesse ripresentare una grande crisi (speriamo non accada più)? Penseranno unicamente al conto economico, chiedendo a tutti i clienti, in maniera unilaterale, di rientrare dagli affidamenti? Oppure riprenderanno la tradizione del credito popolare e vaglieranno, caso per caso, ogni impresa, cercando di assicurare i finanziamenti necessari al territorio, salvaguardando al tempo stesso la banca?
Riprenderemo questo tema più avanti e lo faremo alla luce di un elemento: la vulgata racconta la storia di banche popolari mal gestite e fallite – come la Popolare di Vicenza o Veneto Banca – che hanno costretto il governo a intervenire. Il clamore sui giornali è stato immenso. La «cricca» che ha guidato le due banche è diventata il paradigma dell’intera categoria ma perfettamente coerente con il pensiero unico dominante a proposito delle banche popolari. Dovevano sparire perché rappresentavano un pezzo di archeologia finanziaria intorno alle quali si erano formate incrostazioni molto pericolose.
Nessuno che abbia fatto un ragionamento più sereno e cioè che si trattava di casi clamorosi, ma isolati, di cattiva gestione. Il voto capitario non c’entra nulla. La storia, anche recente, è piena di banche malgestite con confini anche penali come il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi o la Banca Privata Italiana di Michele Sindona. In entrambi i casi si trattava di società per azioni. E allora che facciamo: arrestiamo tutti i banchieri? Né vale la mistica del controllo statale: le casse di risparmio sono andate in crisi ed erano tutte di proprietà pubblica. È crollato il Banco di Sicilia che fino alla nascita della Banca d’Italia era uno degli istituti autorizzati a battere moneta. O vogliamo parlare del Banco di Napoli? Per anni a guidarlo è stato Ferdinando Ventriglia. Talmente bravo da essere arrivato a un passo dalla carica di governatore della Banca d’Italia. Venne fermato perché ebbe l’imprudenza di incrociare la sua strada con Michele Sindona.
Sulle banche popolari l’accanimento è stato generalizzato. È stata fatta di tutta l’erba un fascio, mettendo insieme realtà completamente differenti. Il voto capitario è stato indicato come l’origine di tutti i mali. Senza fare la fatica delle distinzioni. I numeri, i dati e la realtà dicono infatti che a fallire sono state tendenzialmente banche commerciali gestite in maniera scorretta, come ha fatto presente anche di recente il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli. Proprio gli amministratori (che non erano e non sono azionisti dell’impresa), non rischiando nulla del proprio patrimonio, sono stati presi – tutti o quasi – da manie di grandezza (una situazione comune) e si sono accodati alla moda della crescita per acquisizioni; al punto che, prima della grande crisi, il valore di questi istituti si calcolava sul numero di sportelli posseduti. Più erano, meglio era: valeva tutto. La realtà dice anche che è stata la rete delle ex banche popolari ad accollarsi – nella maggior parte dei casi – la scomoda eredità di quanto è rimasto di quegli istituti, accorpandoli alle proprie strutture.
Prima di affrontare tutti questi argomenti, dicevo, torniamo a monte. Cerchiamo di capire «cui prodest», a chi fa comodo aver quasi dimezzato il sistema delle banche popolari in Italia. Le voci e le interpretazioni che sono state date al decreto Renzi raccontano – si dice – di un confronto con Draghi e la Bce, prima che la Banca Centrale Europea facesse partire il Quantitative Easing a sostegno dell’economia dell’Unione.
Secondo molti commentatori la Bce e la Vigilanza europea avevano chiesto al governo italiano, prima che fosse definitivamente deliberato l’alleggerimento monetario, di fare pulizia nel sistema bancario del Paese. Un sistema che – come abbiamo visto e come è stato dimostrato dai fallimenti che si sono verificati negli ultimi due anni – di fatto vedeva più bachi nelle banche commerciali che in quelle popolari. Pare che però in Europa la diffidenza forse concentrata verso le seconde.
Come mai? È una delle tante domande a cui non sono riuscito a dare una risposta per molto tempo, fino all’aprile del 2017, almeno, quando una risposta è arrivata, sotto forma di una richiesta.
Si tratta della richiesta di un «alleggerimento» (che bella parola, molto diplomatica) – arrivata da Andreas Dombret, membro del comitato esecutivo della banca centrale tedesca – della pressione regolamentare per ben 800 banche tedesche, per mettere le stesse nelle condizioni di svolgere il proprio compito di prossimità all’economia reale.
Dombret si è detto pronto a «presentare proposte concrete» per una serie di esenzioni dalla regolamentazione internazionale degli istituti più piccoli. Tra queste proposte Dombret ha annoverato una «differenziazione a livello di rischi e di dimensioni».
L’iniziativa della Germania risponderebbe all’intensificarsi della regolamentazione secondaria con la richiesta di armonizzazione della Vigilanza europea sulle banche less significant, contenuta nel Documento di indirizzo e raccomandazioni rivolto alle banche centrali nazionali, pubblicato dalla Bce, in merito all’esercizio di opzioni e discrezionalità sull’attività di vigilanza delle banche di minori dimensioni.
Ora, se questo fosse un giallo, probabilmente tutte le prove – anche se il processo non si è ancora fatto – deporrebbero a sfavore del maggiordomo tedesco. Sì, perché il dubbio che il peso di quella componente di rappresentanti l’area Nord Europa all’interno della Bce sia stato significativo nella «moral suasion» al governo Renzi perché attivasse la riforma, sembra abbastanza verosimile.
Allo stesso modo, non sembra casuale una tempistica che – dopo l’effettiva cancellazione della categoria in Italia – vede la Germania tentare di sottrarre alla Vigilanza unica della Bce le proprie banche popolari.
Certo è un teorema, forse non saremo mai in grado di dimostrarlo. Forse – come spesso sentiamo dire – noi italiani semplicemente siamo meno bravi dei nostri vicini a difendere gli interessi del Paese in Europa. Sia come sia: il dato di fatto è che Roma si è lasciata convincere a smontare e a mettere sul mercato una parte fondamentale non solo della finanza ma anche dell’economia nazionale. Non solo a smontarlo, ma anche e soprattutto a metterlo sul mercato. Lasciando poi al grande capitale nazionale, ma soprattutto internazionale, la possibilità di intervenire.
Così, se non possiamo dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio chi sia stato il mandante, di certo possiamo ricostruire il valore che il sistema delle popolari ha avuto per il Paese, la solidità che questi istituti hanno offerto al territorio. Quella stessa post verità, con cui più di un commentatore si è sforzato di dipingere le banche collegate ad Assopopolari come dei ferri vecchi, dei cassoni impolverati, gestiti attraverso dinamiche clientelari, non regge di fronte alla realtà.
La realtà è fatta da banche solide, che si sono sottratte per anni alle logiche della finanza puramente speculativa, in cui i manager non hanno percepito stipendi centinaia di volte superiori alla media dei dipendenti. Banche in cui la mera speculazione è stata spesso stoppata dalle assemblee, che non rappresentavano «assemblee di condominio» – come sono state definite – ma un esercizio di democrazia e di spirito mutualistico. Un esempio di biodiversità creditizia per favorire la concorrenza e quindi, in ultima analisi, la clientela. Sia famiglie che piccole e medie imprese. Sicuramente, nel panorama complessivo, ci sarà stato anche qualche caso di catt...

Indice dei contenuti

  1. Siamo molto popolari. Controstoria di una riforma che arriva da lontano e porta all’oligopolio bancario
  2. Colophon
  3. 1. La svendita
  4. 2. Un’eccellenza vanificata
  5. 3. La grande bugia
  6. 4. Una buona eredità
  7. 5. Bonapartismo economico
  8. 6. L’economia locale non è uno slogan
  9. 7. Solo l’Italia non alza la guardia (sulle banche cooperative)
  10. 8. Le venete sono l’eccezione (non la regola)
  11. 9. Oltre la riforma
  12. Note
  13. Appendice
  14. Indice