La prima generazione incredula
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La prima generazione incredula

Il difficile rapporto tra i giovani e la fede (Nuova edizione speciale)

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La prima generazione incredula

Il difficile rapporto tra i giovani e la fede (Nuova edizione speciale)

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Prefazione di Enzo BianchiA dieci anni quasi dalla sua prima apparizione, La prima generazione incredula viene ora ripubblicata in versione aggiornata ed ampliata. Quella del difficile rapporto tra i giovani e la fede è, in verità, questione sempre più decisiva per una Chiesa che non voglia ridursi ad un piccolo club di vecchi affezionati. Di più. Senza riallacciare significativi rapporti con giovani, non c'è futuro per la Chiesa, almeno qui in Occidente. Tutto questo mentre all'orizzonte si staglia - secondo l'esplicita diagnosi del Documento preparatorio del Sinodo sui giovani, fortemente voluto da papa Francesco per l'ottobre del 2018 - una generazione che nella sua componente maggioritaria non si pone "contro", ma che sta imparando a vivere "senza" il Dio presentato dal Vangelo e "senza" la Chiesa, e che più in generale arranca a crescere a causa della presenza di adulti di riferimento non solo meno credenti, loro stessi, ma sempre meno credibili già solo dal punto di vista umano. Qui è davvero tutto in gioco. È finito il tempo di una pastorale del cambiamento. È tempo di un cambiamento di pastorale.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788849853513

1.
Perché in Chiesa ci sono sempre meno giovani

Non abbiamo più antenne per Dio

MAI COME AI NOSTRI GIORNI la Chiesa è apparsa in grado di differenziare la propria offerta – ovviamente ci si riferisce alla Chiesa che vive e lavora in Europa e in particolare in Italia. Vi si trovano forme di cristianesimo «in la minore» continuo e altre allegre ed euforiche, forme di cristianesimo «duro e puro» e altre più intimistiche, forme di cristianesimo «misticheggianti» di persone che parlano con tutti gli abitanti del paradiso e altre depressive e noiose (basterebbe frequentare qualche parrocchia del centro storico di uno dei principali capoluoghi del Belpaese, ove si respira l’aria da funerale perenne…), forme di cristianesimo «tradizionaliste» con messe in latino e con rito antico e altre con liturgia bizantina, forme di cristianesimo di ogni tipo, e, se vogliamo, di ogni colore: si pensi agli abiti delle suore. Non c’è colore che non sia stato usato da qualche congregazione. E che cosa non dire di come oggi si vestono i preti? Con nonchalance si passa dal clergyman alla tonaca, ritornata recentemente di gran moda, dalla cravatta svizzera-teutonica al jeans stinto, dal vestito D&G con camicia bianca al total black.
La quantità e la qualità delle forme di cristianesimo sono, dunque, molto elevate. Eppure le parrocchie si svuotano, gli oratori vanno ancora bene per i più piccini ma sono disertati dai più grandi, le associazioni ecclesiali di antica data e i movimenti nati soprattutto nel post-Concilio registrano rallentamenti considerevoli in riferimento alla fascia «giovani», gli stessi scout sono in affanno, l’analfabetismo biblico aumenta (a cosa non si deve assistere durante i quiz serali?), i segni del neopaganesimo sono evidenti a occhio nudo negli stili di vita diffusi. In una parola, il cristianesimo non appare più con immediata evidenza «un buon affare», un investimento sicuro su cui puntare; a una differenziazione dell’offerta delle sue forme corrisponde una diminuzione della domanda.
La fede cristiana ha, dunque, subìto nell’epoca attuale un processo di opacizzazione della sua capacità di umanizzare, ovvero non convince più quale possibilità di far diventare l’uomo più uomo. Non si tratta invero di un fisiologico processo di obsolescenza dei linguaggi (la stessa traduzione italiana della Bibbia è stata rivista non più di dieci anni or sono), delle regole morali e dei riti della religione cristiana; più in profondità si registra l’incapacità del cittadino medio europeo di afferrare il senso ultimo della fede, a partire, come sin dall’inizio del suo pontificato fece notare lo stesso Benedetto XVI, dalla grande promessa che essa dona all’uomo, quella della vita eterna, della salvezza definitiva, di un futuro desiderabile, autentica garanzia di quella ricerca della felicità che abita nel cuore di ciascuno. Molti, oggi, ritengono invece che la felicità vada ricercata altrove rispetto alla religione cristiana. Lo attesta il loro vivere quotidiano, le loro decisioni esistenziali, le ragioni che si danno per andare avanti. E se il cristianesimo non porta alla felicità – ovvero a quella gioia del Vangelo cui sempre invita papa Francesco – a che mai più potrà servire?
Gli uomini e le donne del nostro tempo, allora, non sono più attratti dal vangelo di Gesù, nonostante quest’ultimo sia loro presentato in mille modi, in mille toni, in mille colori. Non avvertono più la «convenienza» della parola del giovane rabbino di Nazareth per una vita bella e degna di essere detta umana: hanno semplicemente imparato a cavarsela senza Dio e senza Chiesa. Questo è l’inedito del nostro tempo in Occidente: non più il contro Dio dell’ateismo classico, ma il senza Dio di chi non ha più antenne per lui. Ed è così che «Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini» (Benedetto XVI).
Non aver più antenne per Dio e per la Chiesa: è questa la condizione di molti contemporanei.

La prima generazione incredula

Di questo fenomeno generale si vuole però analizzare un aspetto peculiare. Evocato il generalizzato disinteresse per il mondo della fede da parte degli uomini e delle donne di oggi, l’analisi assume un tratto sorprendente se si volge lo sguardo soprattutto alle nuove generazioni, ai giovani, in particolare a coloro che transitano tra i 15 e i 34 anni, i quali – sia detto sin da subito – non senza enormi difficoltà si accingono a scegliere quale tipo di persona intendono essere e iniziano ad attuare tale scelta. Ebbene, qual è lo stato di salute della loro esperienza religiosa?
Approfondendo quanto espresso sopra, sembra di poter dire che ormai anche i giovani – o forse particolarmente i giovani – non hanno più antenne per Dio, per la fede, per la Chiesa, ovvero che sono proprio quelle dei giovani le antenne rimaste quasi del tutto disattivate in riferimento all’esperienza della fede.
I segni più evidenti di una tale incredulità e anaffettività nei confronti di Dio e della Chiesa sono almeno tre: una profonda ignoranza della cultura biblica; una scarsa partecipazione alla formazione cristiana post-cresimale; una notevole disinvoltura nel disertare l’assemblea eucaristica domenicale.
Tutto questo dice che essi non avvertono alcun interesse per le questioni messe in campo dal cristianesimo. Interesse è qui inteso in senso forte, come qualcosa che tocca il proprio essere, il proprio vivere, il proprio agire e sperare.
Alcuni giovani, se intervistati, non negano il loro bisogno di sacro, ma poi concretamente dimostrano di non sapere quasi nulla della prassi cristiana della fede e della preghiera. Possono, infatti, pure dire: «sono credente», ma poi di fatto ignorare completamente la Bibbia. Tale affermazione, in realtà, vale – secondo un’indagine del 2008 – per l’86 per cento di quegli italiani che si professa cattolico e che corrisponde all’88 per cento della popolazione totale. Possono anche dire: «sono cattolico», ma poi non aver messo più piede in Chiesa praticamente dal giorno della cresima. Non a caso Garelli ha definito lo scenario attuale come quello nel quale piccoli atei crescono.
Una professione di cristianesimo, che però non coltiva alcuna familiarità con la grammatica biblica del senso dell’umano, che non avverte l’urgenza di un suo continuo approfondimento, e che soprattutto diserta l’appuntamento settimanale con colui che l’intera comunità dei credenti professa Signore del tempo e della storia, non serve a granché. Non serve a chi afferma di averla, non serve alla comunità credente che potrebbe rallegrarsi di una tale opzione di principio.
Il senso di religiosità, allora, di cui i giovani si sentono portatori va anche oltre la questione della fede: esso, in alcuni casi, può rispondere – sono le conclusioni dell’indagine Iard su giovani, religione e vita quotidiana – «al bisogno di avere un riferimento morale (magari vago), che consenta di acquietare la coscienza e dare libero spazio a uno stile di vita fondamentalmente a-religioso», e, in molti altri, a un uso del cristianesimo, nella linea dell’appartenenza senza credenza, che serve soprattutto a ridirsi la propria identità culturale in un mondo sempre più multiculturale e multireligioso.
È un tale ragionamento che spinge ad affermare che oggi ci si trova davanti a quella che può essere definita la «prima generazione incredula» dell’Occidente: una generazione che non si pone contro Dio o contro la Chiesa, ma una generazione che sta imparando a vivere senza Dio e senza la Chiesa.
Tra i tanti «senza» che marcano – secondo Garelli – la generazione del nostri ventenni-trentenni («senza fretta di crescere, senza un lavoro stabile e prospettive certe, senza un’intenzione ravvicinata di famiglia, senza le prerogative sociali possedute dai coetanei del passato, senza spazi e ruoli di rilievo capaci di offrire sicurezza e di far sentire la loro impronta generazionale»), un altro «senza» qui si impone: una generazione semplicemente «senza» Dio e «senza» Chiesa.
Ovviamente questi ragazzi e queste ragazze, questi giovani della «prima generazione incredula», non spuntano dal nulla. Si tratta, infatti, di una generazione cui nessuno ha narrato e testimoniato la forza, la bellezza, la rilevanza umana della fede; di una generazione che nessuno ha aiutato a sviluppare antenne per il senso della trascendenza, dell’invocazione, del desiderio, della creaturalità, della preghiera, della comunità (del resto moltissimi sono anche figli unici, cresciuti da piccoli «padrini» della propria famiglia e dotati di un eccesso di affetto e di regali).

L’anello mancante

In Occidente per lunghissimo tempo la trasmissione della fede è stata una semplice questione «di casa», non di Chiesa. Nascere e diventare cristiano erano eventi che accadevano in modo sincrono. Per usare un’immagine molto plastica, si apprendeva la fede mentre si veniva allattati dalla propria mamma. In un tale compito di iniziazione/mistagogia al mondo della fede, inoltre, davano una mano non indifferente anche le maestre di quel «piccolo mondo antico» che è stata l’Europa, in specie l’Italia, sino alla fine degli anni ’80.
Coloro che sono nati prima di tale data hanno ricevuto, infatti, in seno alla famiglia e alla formazione scolastica elementare, un primo ed efficace annuncio della fede. Qui «primo» non è da intendersi solo in senso cronologico, ma nel senso di idonea iniziazione. Si pensi all’apprendimento di una lingua: quanto è difficile apprendere una lingua (straniera) da adulti e quanto lo è quasi naturale quando si è bambini. La prima lingua si dice appunto «lingua madre». Insieme alla lingua madre, i giovani cresciuti prima del 1980 hanno ricevuto anche l’alfabeto del Vangelo, salvo poi, come si vedrà, prenderne le distanze o diluirne la pratica.
In ogni caso, al riguardo della trasmissione della fede, la comunità dei credenti, nel passato, poteva fare sicuro affidamento a questa anonima e valida mistagogia al mistero cristiano operato dalle nonne, dalle mamme e dalle maestre. A essa toccava poi il compito di consolidare la fede e di predisporre le condizioni per il suo esercizio: nella liturgia comunitaria, nelle opere di carità, nella testimonianza pubblica, nell’impegno per il bene comune.
Questa cinghia di trasmissione tra le generazione si è, a un certo punto, spezzata. L’iniziazione all’umano – compito essenziale della famiglia e della scuola – non si ispira più alla grammatica cristiana dell’esistenza: perciò, oggi, nascere e diventare cristiano sono due cose distinte. Non si diventa più cristiani mentre si viene allattati dalla mamma, per riprendere l’immagine prima evocata. La cosa ha preso piede da almeno quarant’anni, da quando la società ha iniziato a esplorare nuove modalità di riferirsi all’umano rispetto a quelle suggerite e trasmesse dal passato, fortemente ispirate a un generale senso di vita cristiano. In modo particolare, per quel che riguarda il nostro Paese, il riferimento più preciso è alla grande frattura rappresentata dal referendum sul divorzio.
Dal punto di vista della religione cristiana, ecco allora la novità del nostro tempo: i giovani non hanno ricevuto alcuna testimonianza adulta circa l’autentica convenienza della fede, non sanno perché dovrebbero credere o perché dovrebbero pregare. Per tale ragione scappano via dalla Chiesa non appena hanno ricevuto il sacramento della cresima, si tengono a debita distanza dalle parrocchie e dagli oratori, non appena si allargano le maglie della custodia familiare, non si curano del loro analfabetismo cristiano, riponendo in luogo sicuro il vangelo o la Bibbia acquistati per il catechismo. Non avvertono, infine, l’intima esigenza di celebrare il dies Domini quale momento in cui raccogliere e rilanciare la grande avventura che è la vita di ciascuno di noi. Nessuno li ha aiutati a sviluppare nel loro cuore antenne per Dio. Sono increduli, semplicemente increduli.
Si dovrà, forse, pure riflettere sulla qualità dell’insegnamento della religione cattolica a scuola, scelta spesso voluta più dai genitori che dai figli, ma che solo raramente ha saputo assumere un tono e uno stile consoni a quanto con esso ci si prefigge di ottenere. Più frequentemente, purtroppo, è stata l’occasione propizia per convincersi dell’inutilità della fede per la vita.

Il cuore postmoderno dell’Occidente

Stupisce sempre di nuovo il prendere coscienza di questa inedita situazione delle giovani generazioni rispetto alla fede, il fatto cioè che la loro potenza di sintonizzazione e di ascolto del messaggio di fede sia rimasta per così dire bloccata, inattivata. Soprattutto se si considera che un tale fenomeno è accaduto lungo alcuni dei pontificati più significativi dell’intera storia della Chiesa e durante, come già sottolineato, una vera e propria esplosione delle forme di esercizio del cristianesimo. Come allora si è potuti giungere a tale situazione? Quali le possibili origini e cause?
Il problema, ad avviso di chi scrive, è di ordine culturale: le sue radici albergano cioè nel rapporto che il cristianesimo intreccia – e non potrebbe non fare – con le istanze maggiori della sensibilità diffusa. La fede non si presenta mai sulla scena della storia nella sua purezza evangelica, ma sempre attraverso mediazioni di tipo culturale che permettono una sua possibile comprensione agli uomini e alle donne di tempi e di spazi di volta in volta differenti. È il lavoro mai concluso dell’inculturazione della fede, vera base di ogni suo annuncio. Ebbene, a uno sguardo profondo e attento al nostro tempo, non sfuggirà la constatazione che la grande inculturazione del Vangelo operata dai Padri della Chiesa, tra il IV e il V secolo dell’era cristiana, risulti oggi sempre meno efficace, in quanto l’Occidente – quel modo di vivere e di pensare che è detto «Occidente» – ha cambiato non solo pelle, ma anche cuore.
Noi non solo non vestiamo come i nostri avi, ma pensiamo e progettiamo la vita diversamente; più radicalmente: speriamo e sogniamo diversamente! Ciò è decisivo per la questione dell’evangelizzazione. L’annuncio del Vangelo, come già accennato, è sempre accompagnato e sostenuto da un processo di inculturazione, ovvero dal battesimo di alcune «parole stabili», vere e proprie parole-chiave della cultura generale, che aiutano chi ancora non crede ad accedere al cuore del Vangelo. Tali parole-chiave sono cioè quelle che permettono all’uomo comune di abitare il mondo e di assegnargli un senso globale. Esse, grazie all’opera di inculturazione, diventano, nell’evangelizzazione, come una sorta di indizi di una mappa che segnano il cammino verso il riconoscimento della convenienza umana della fede.
Ora, c’è da comprendere che gli ultimi centocinquanta anni di storia collettiva dello spirito umano hanno portato, nel nostro emisfero culturale, all’emergenza di altre parole, di altre coordinate, spesso in netta contrapposizione con quelle precedenti. In questo modo si è ridefinita l’identità occidentale e si sono messe in questione le forme tradizionali dell’evangelizzazione, cioè quelle familiari. L’evangelizzazione – lo abbiamo già affermato – da noi è stata sempre un affare «di casa», non di Chiesa. Ciascuno apprendeva dal seno della madre le parole stabili della vita e insieme il primo annuncio del Vangelo. L’evangelizzazione del passato si reggeva infatti su un preciso processo di inculturazione che aveva saputo adattare il messaggio di Gesù alle parole-chiave specifiche dell’Occidente. Per questo le forme dell’annuncio del Vangelo erano in netta sintonia con la griglia di lettura dell’umano usata per introdurre i più piccoli all’avventura della vita.
Quando arrivava l’età del catechismo, il piccolo d’uomo aveva già ricevuto la fede, che veniva poi rafforzata e modellata. È questo il dinamismo che oggi è entrato in crisi, con la mutazione della sensibilità comune (il postmoderno), con l’avvento cioè di altre istruzioni, con cui interpretare il mai assicurato mestiere di vivere e che ora rendono obsoleta la precedente opera di inculturazione.

Un nuovo ordine concettuale

A questo punto, appare opportuno entrare nei particolari di un tale discorso, ricostruendo il corso del profondo e radicale mutamento della civiltà occidentale e di come esso abbia modificato quella interpretazione dell’esistenza, prima generalmente accolta e utilizzata dalla Chiesa quale valida base per indirizzare gli uomini alla bontà del Vangelo.
La prima grande stagione di mutazione dell’Occidente accade verso la metà dell’Ottocento. È il 1859, quando Darwin dà alle stampe L’origine delle specie, un testo con il quale, grazie all’ipotesi evolutiva, sgancia la comparsa dell’uomo sulla terra dal legame con Dio: invita a collocare l’origine della specie umana, piuttosto che nell’alto, nella sua comune parentela con altri animali. A breve seguono la Prima e la Seconda Internazionale, dove si gettano le basi per trasformare la protesta di Marx – non possiamo attendere il paradiso! – in progetto politico. Di seguito troviamo Freud, il quale riformulerà il concetto di anima quale centro di aggregazione energetico, spogliandolo di ogni aura trascendentale. L’avvio, poi, di ciò che normalmente viene indicato quale seconda rivoluzione industriale getta le basi per quella espansione globale del mercato, di cui oggi siamo spettatori e beneficiari. Nello scorcio finale dell’Ottocento, si avviano, infatti, l’impresa della General Motors e quella di Henry Ford, e nascono la Coca cola e la Fiat: la terra non viene più percepita quale «valle di lacrime», ma come un posto nel quale ci si possa agevolmente installare. Interessante notare a questo proposito la comune convergenza della cultura marxista e di quella capitalista nell’indicare la piena e unica cittadinanza umana del mondo finito.
Con quale risultato? Con le parole di Nietzsche, si assiste alla morte del platonismo, inteso come modo di vedere e vivere il mondo secondo una duplicità di piani ontologici e assiologici (il mondo eterno e vero, da una parte, e il mondo finito e finto, dall’altra) che assegna pure una particolare finalità alla vita umana: l’uomo, dotato di un’anima eterna, ha nel cielo la sua patria, mentre il finito è come un carcere da cui ci si deve liberare. La parole-chiave ...

Indice dei contenuti

  1. La prima generazione incredula
  2. Colophon
  3. Prefazione di Enzo Bianchi
  4. Premessa alla seconda edizione
  5. Premessa alla prima edizione
  6. 1. Perché in Chiesa ci sono sempre meno giovani
  7. 2. Perché i giovani non vanno più a messa
  8. 3. Quant’è bella giovinezza
  9. 4. Una fede giovane
  10. Epilogo
  11. Appendice Replica alle critiche
  12. Nota bibliografica
  13. Indice