Calabria
  1. 350 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Il racconto del viaggio della Brandon-Albini rappresenta il dramma storico delle popolazioni calabresi. La Calabria, che è stata in passato, stazione intermedia e piattaforma di scambi culturali tra oriente e occidente non è riuscita a trarre beneficio da tali transazioni, sprofondando in un degrado assoluto. Da italiana del nord, emigrata in Francia, la Brandon-Albini, sente il richiamo delle sue radici e volge il suo sguardo all'Italia estendendolo fino al Meridione."Calabria" è il prodotto, maturo e consapevole, attraverso cui l'autrice ci mostra un cosmo fotografato nell'attimo in cui sta per lanciarsi nel futuro della modernità.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788849830408
Categoria
Viaggi
1.
Le frontiere della Calabria
Immagini
6 settembre
Il treno supera gli Appennini tosco-emiliani attraverso il lungo tunnel del Col della Futa. Dalla portiera del vagone, nel crepuscolo già vicino, sale verso di me il respiro familiare del mio paese natale, l’Italia del Nord. Profumo umido del trifoglio e della lupinella, puzzo della canapa che macera nei fossati prima della battitura; odore delle calme distese verdi, orti, appezzamenti di mais, di riso, cinti da alberi da frutta sui quali si arrampicano le alte viti dai grappoli che stanno maturando, con festoni di tralci frondosi.
L’altra Italia, quella dei paesi blu della costa tirrenica, quella dei paesi ardenti del mare Ionio e delle nere foreste della Calabria, è ormai a circa seicento chilometri dietro di me; civiltà feudale e arcaica, mistica e patriarcale, sì, ma non oggetto da museo. Questi isolotti ancora intatti, perché tagliati dalle strade di grande comunicazione, già sono a loro volta assaliti dalle ondate della nostra epoca: progressi tecnici, riforme agrarie, lotte sociali, ottimismo rivoluzionario.
Mentre il treno s’immette nella pianura del Po, sfoglio la mia agenda e vi trovo alcune date; poi, nomi di città, di paesi, di alberghi, gli indirizzi dei miei nuovi amici. Distendo sulle mie ginocchia i miei ricordi portafortuna: un pezzo di opus-sectile portato via dal tempio greco di Hera Lakina a Capo Colonna; un osso di rinoceronte e una pietra neolitica scheggiata trovati nella grotta quaternaria di Palinuro; una croce in salgemma, regalo dell’arciprete greco-albanese di Lungro; infine l’immagine della Vergine miracolosa bizantina, del Duomo di Cosenza. Immediatamente rivivono tutte le immagini delle mie vacanze; esse sfilano davanti a me, come un film. Eccole.
Centola
20 luglio
Dopo aver sistemato la mia valigia nell’autobus che collega Centola1, stazione sperduta in piena campagna, ai paesi della costa, vengo a sapere che la partenza avverrà alle diciotto. E sono solo le quattordici! Mi abbandono all’ombra d’un noce, vicino alla ferrovia. Sullo spiazzo polveroso c’è solo una casetta bassa, una specie di osteria rustica. Dalla porta aperta arrivano vivi scoppi di voci. Intorno ad un tavolo, due uomini giocano a carte, con i bicchieri di vino accanto; tutt’intorno, in piedi, sette o otto spettatori seguono con partecipazione la partita a scopa.
Osservo queste mirabili fisionomie di gente del Sud. Un vecchio, secco, con il berretto sugli occhi, i baffi grigi tagliati a spazzola; alcuni giovani dagli occhi neri, dal viso minuto e i cui vestiti tradiscono insieme l’abituale preoccupazione di eleganza dell’italiano e la miseria; maglia bianca o camicia blu chiara, dal colletto aperto, pulito ma rammendato, pantaloni di popeline grigia o beige, dalle tasche lise.
Un bellimbusto sta in mezzo a loro; ha un vestito a quadri, dalle spalle esageratamente imbottite, il colletto della camicia è inamidato, la cravatta sembra inchiodata sul petto, nella mano destra il mignolo ha un’unghia appuntita come un artiglio: tutto tradisce il piccolo borghese di paese. Strizza l’occhio ad ogni mossa e guarda intorno a sé con l’aria d’intesa e dispiaciuta dello specialista che la stupidità dei giocatori irrita o scandalizza.
Alcune donne aspettano accanto alla porta, sedute sulle pietre, tra panieri pieni di fichi o di pomodori. Sono due vecchie contadine con un fazzoletto nero incrociato sul petto e una ragazza dallo sguardo spaurito che tiene un bambino in braccio.
Improvvisamente si sente urlare. Un giocatore, un pezzo di marcantonio dal viso paonazzo, si alza di scatto dalla sedia rovesciando il bicchiere. Vacilla e lancia le carte sul tavolo urlando con voce pastosa: «Non è vero, ho vinto!» e agita sulla testa un biglietto da mille lire.
Il suo avversario spunta fuori a sua volta dalla folla e gli si pianta di fronte. È un uomo piccolo, secco, nervoso, talmente scuro di carnagione da sembrare blu.
«Ladro, ubriacone! Ridammi il denaro!» e afferra il rivale per il petto: «Ti dovevo cinquecento lire, va bene, dammi il resto da questo biglietto da mille, testa di…»
«Va, va, sporco calabrese! – urla l’ubriaco – non sono un ladro, una tinozza di vino come te. Dammi questi soldi!»
La mano del calabrese s’aggrappa alla tasca della camicia del napoletano che la respinge; la tasca si strappa e attraverso lo spacco appare una carne villosa. L’ubriaco si mette a colpire con forza questo piccolo pezzo di tela penzolante sul suo petto nudo.
Allora dal gruppo contadino si stacca la moglie del calabrese, la piccola mora dagli occhi spenti che, dopo aver lanciato il suo piccolo nelle braccia della vecchia nonna, allontana con un colpo di gomito il marito e si pianta davanti all’ubriaco che tratta a sua volta di «testa di m…, m… tu stesso!»
I suoi gesti sembrano annunciare un massacro; stringe i pugni sotto il naso del napoletano, ma subito li ritira e grida: «Madonna mia, se non ci fosse questo bambino!» Poi afferra il bambino, lo solleva mostrandolo alla folla e lo ripone nelle braccia della nonna.
Adesso, intorno ai due protagonisti s’organizza una specie di commedia spontanea che mi ricorda la Commedia dell’Arte. Stessi gesti, stesse battute maliziose, stesso uso dei sottintesi che suscitano il riso del pubblico. Alcune voci confermano, approvano, precisano in un mirabile gioco di contrappunto in cui toni bassi e fortissimi si succedono.
Dieci volte i due avversari abbozzano il gesto di tirar fuori dalla tasca un coltello inesistente. I loro gesti si scagliano nel vuoto, simili a una danza simbolica. A un certo punto, il calabrese chiede una spilla da balia a sua moglie e riattacca la tasca strappata del suo nemico con una cura materna. Poi indietreggia e urla un’ultima volta, torcendosi le mani: «Restituiscimi i soldi!» Allora gli spettatori fanno cenno alle donne di indietreggiare e, circondando il napoletano, cercano il suo portamonete e restituiscono cinque biglietti da cento lire al calabrese.
Già il treno sbocca dal tunnel; l’autobus suona. Il gruppo si disperde, ognuno riprende il suo paniere e s’infila chi in un vagone, chi nella vettura blu.
Palinuro
La strada si avvolge intorno ai contrafforti di una montagna sassosa, che si erge come un dente grigio contro il cielo. Poi l’autobus passa sull’altro versante, sale lungo pendii avvolti in una nebbia viola. Dalla portiera vedo sfilare casolari in mezzo a fitti oliveti; nel sottobosco s’allungano le lunghe ombre del crepuscolo; le greggi di pecore e capre rientrano, guidate da un cane indaffarato e un pastore sognatore.
E dietro ai tronchi contorti degli olivi, il mare! È un golfo immenso, dalle rocce scure cinte da spiagge bianche sino a punta Licosa, a destra; a sinistra, la costa dal profilo camuso, sormontata da due torri di guardia: capo Palinuro. Ho l’impressione esaltante di arrivare alla fine dell’universo. Non conoscevo assolutamente Palinuro, ma il solo nome mi aveva sedotto. Fascino eterno di Virgilio o deformazione professionale di topo di biblioteca?
Comunque sia, ho spesso ripetuto i versi dell’Eneide prima d’arrivare…
Nam tua finitimi, longe lateque per urbes
Prodigiis acti caelestibus, ossa piabunt
Et statuent tumulum et tumulo solemnia mittent
Aeternumque locus Palinuri nomen habebit1
Uno strattone: l’autobus si ferma bruscamente sulla minuscola piazza del paese. Un mulo infila il suo dolce muso attraverso la portiera e mi annusa.
Da una loggia un grappolo di bambini burloni chiama i turisti.
Sul muro due reclame:
“Durban’s, grande dentifricio americano alla clorofilla”.
“Coca-cola, bevete coca-cola”.
Disgustata, entro nel mio albergo.
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25 luglio
Da quando sono qui, esco ogni mattina dal paese intorno alle sei e mi reco, giù nella strada, verso il porto situato nell’ansa arrotondata del capo.
Mi hanno assicurato, con grande serietà, che là, proprio all’uscita del piccolo golfo, esisteva ancora trent’anni fa il “vero cenotafio di Palinuro”: il nocchiero di Enea caduto in mare mentre dormiva e ucciso dai selvaggi abitanti di questa costa che avrebbero poi eretto questo monumento per calmare lo spirito del morto.
«Se Virgilio l’afferma, è vero, sapete…»
Ho imparato, grazie a una piccolissima barca a remi presa in prestito da un pescatore, a conoscere le coste scoscese e le alte pareti del capo. Per chilometri e chilometri le grotte si aprono nelle falesie ocra.
Nomi curiosi: la grotta del Morto, dalle colate di manganese granato che striano il calcare bianco. La grotta Azzurra e la grotta d’Argento, le più belle, dove la luce sgorga misteriosa attraverso le rocce spaccate, nascoste in fondo alle acque. Il mare, instancabilmente, risuona come un organo.
In altri anfratti, più grandi, stalattiti e stalagmiti lanciano frecce e merletti traforati che evocano le cattedrali gotiche.
Queste viscere della montagna risvegliano in me, “civilizzata” del XX secolo, lo stesso orrore sacro che dovevano far nascere tremila anni fa, all’epoca delle sibille greche.
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Leggende e storie si fondono nelle voci popolari. La cala delle Ossa (la baia degli scheletri) racchiude le ossa dei naufraghi di una flotta romana perdutasi ventidue secoli fa? «I nostri avi sono stati trasformati in pietre», dichiarano i paesani, parlando dei fossili di rinoceronti e di renne del quaternario seppelliti nel calcare.
In questa baia dove ho passato ore completamente sola, con la barca ormeggiata a una roccia, davanti a un mare deserto, io stessa ho staccato col coltello non solo fossili, ma anche pietre levigate, frecce e punteruoli. Questo buco ha dunque ospitato uomini nell’epoca neolitica, mentre intorno si stendeva una foresta immensa.
A Palinuro, d’altronde, tutte le colline sono impregnate di passato.
Ho visto, in parecchie case del paese, gelosamente conservate in un armadio (con la coroncina e le corna d’avorio, talismani indispensabili ad ogni famiglia preveggente) putti in argilla, grassocci e spesso osceni. Sono stati trovati nelle tombe lucano-greche del VI secolo a.C., portati alla luce dal vomere di un aratro, nella proprietà d’un contadino. Gli antichi mettevano queste statue minuscole accanto alla testa del morto, per assicurargli buona compagnia nel viaggio verso l’aldilà.
Tutta la montagna del capo nasconde, nelle sue viscere, la necropoli delle due città gemelle, Palinuro e Molpa. Ma da vent’anni i dirigenti del museo di Napoli hanno proibito ai privati di effettuare scavi. Instancabilmente, al tramonto del sole, frequento i rossi sentieri che serpeggiano nella spessa macchia, vello fitto di questa collina allungata, posta tra due golfi. Mirto e menta selvatica emanano un profumo pesante, oleoso. Dalla cima, vicino al faro scopro le spiagge di Marina di Camerota che corrono lungo le montagne scoscese della vicinissima Calabria. Ai miei piedi, cento metri più giù, l’acqua si scurisce, si riempie di lame d’acciaio blu scuro dove ...

Indice dei contenuti

  1. Copertura
  2. Titolo Pagina
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione di Salvatore Inglese
  6. Calabria
  7. Il richiamo del sud
  8. 1. Le frontiere della Calabria
  9. 2. Una foresta tra due mari: la grande Sila
  10. 3. La Sila greca o albanese
  11. 4. Dalla Sila Piccola a Reggio
  12. 5. La costa Viola: da Reggio a Catanzaro
  13. 6. Folclore e vita contadina
  14. Note