Oltre la crisi
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Oltre la crisi

Trovare l'alba dentro l'imbrunire. L'anno zero di una nuova economia italiana

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Oltre la crisi

Trovare l'alba dentro l'imbrunire. L'anno zero di una nuova economia italiana

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"…e il mio maestro mi insegnò com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire" è il verso conclusivo di "Prospettiva Nevsky" una delle canzoni più belle di Franco Battiato. italiadecide l'ha scelta come chiave di una giornata di studi sull'uscita dalla crisi, aperta da quattro relazioni (Aldo Bonomi, Massimiliano Gioni, Luigi Guiso, Alessandro Profumo), chiusa da tre conclusioni (Giuliano Amato, Yves Meny, Alessandro Palanza) e caratterizzata da quaranta interventi di personalità di governo, economisti, imprenditori, studiosi, giovani amministratori.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788849835687
Argomento
Business
Interventi

Patrizia Asproni*

Stiamo reagendo alla crisi con un eccesso di analisi. Come sotto la lente di un entomologo, ci perdiamo nel particolare, nel piccolo e perdiamo di vista il sistema complessivo.
Questa incapacità di sintesi e di sistema blocca l’azione. Abbiamo perso per strada la cultura del «fare». Viviamo in una eterna emergenza che ha portato a una sorta di mitridatizzazione, all’anestesia sociale.
Ci scuotiamo solo quando crolla qualcosa, e allora ricorriamo al restauro, piuttosto che dedicarci alla manutenzione, meno costosa, ma necessaria in maniera costante.
La crisi ha provocato lo spostamento dell’asse economico dai Paesi industrializzati verso i Paesi del BRIC e di conseguenza al riequilibrio sociale e geopolitico.
Ho partecipato recentemente in Cina alla presentazione di un programma statale che prevede l’apertura, da qui al 2015, di ben mille nuovi musei e del recupero di migliaia di metri quadri di archeologia industriale.
Nella sede del convegno c’era una gigantesca mappa del mondo, che ovviamente metteva al centro la Cina, in una «sistemazione» geografica che mi provocava un senso di straniamento per la perdita dei punti di riferimento abituali.
L’Europa si trovava infatti posizionata all’estrema sinistra della carta, minuscola ma presente. Rivolgendomi alla mia cortese guida e interprete, un docente universitario, chiedevo appunto dove fosse posizionato il nostro Paese. La risposta: «Italy is out of the map».
Questo significa che sono cambiati i punti di riferimento e i codici con cui decifrare il mondo che ci circonda non sono più quelli cui siamo abituati. Dobbiamo quindi fare uno sforzo per decifrare questi nuovi codici, dobbiamo modificare le modalità di accoglienza e rapporto con i nuovi popoli, lavorare per attrarre nuovi talenti, come ha ben detto Euro Beinat. Bisogna creare «appeal» per i giovani, sostenere la creatività, supportare le nuove imprese offrendo loro un contesto «favorevole».
In Germania è uscito un libro, scritto da 4 saggi, Der Kulturinfarkt (L’infarto della cultura), che stigmatizza il finanziamento a pioggia per la cultura, e con una forte provocazione, chiede che venga chiusa la metà delle istituzioni culturali e vengano erogati fondi pubblici solo alle strutture più virtuose e meritevoli.
Anche l’Italia deve riflettere sul bilanciamento virtuoso dei finanziamenti, proponendo un nuovo modello pubblico/privato.
La nostra reazione alla globalizzazione è stata inadeguata. Scimmiottiamo modelli anglosassoni che non ci appartengono. Dobbiamo certamente utilizzarli come benchmark, ma non necessariamente adottarli. Dobbiamo proporre un modello italiano.
Il nostro patrimonio culturale è un asset economico. Le nostre smart cities hanno come base di partenza il Cultural Heritage, le nostre città d’arte non sono astronavi, ma sono radicate e sono espressioni del territorio.
La soluzione è semplice anche se non semplicistica: bisogna costruire reti, fisiche e tecnologiche, è indispensabile e indifferibile una vera partnership pubblico/privato; bisogna avere pensieri lunghi e orizzonti ampi. Si è parlato di project financing come occasione perduta, si è parlato di Mediterraneo e l’Italia può essere l’Hub culturale dell’area del Mediterraneo, dando in questo modo una chance di sviluppo virtuoso anche al Sud.
La cultura va messa nell’agenda del governo e dei governi prossimi venturi.
C’è un vulcano in ebollizione positiva.
Lo abbiamo visto con i giovani amministratori pubblici della Scuola per la Democrazia di Italiadecide, che hanno presentato al presidente Monti un decalogo affinché la cultura diventi una priorità per il Paese.
Il cambiamento è in corso, malgrado noi.
Dobbiamo guidare questo cambiamento, non ostacolarlo.
* Presidente ConfCultura

Giorgio Barba Navaretti*

Ho trovato tutte le relazioni molto interessanti e stimolanti, soprattutto questa idea che c’è nel fondo del nodo della nostra mancata crescita, che è un po’ cercare di capire come riconciliare competitività e inclusione. Questi mi sembrano due temi fondamentali che sono alla base del dibattito e che, in varie forme, vengono poi declinati qui.
Io penso che su questo punto, però, ci sia molto spesso una confusione nel disegno delle politiche economiche: quando ragioniamo di strumenti di politica economica si pensa a degli strumenti a cui si danno, allo stesso tempo, due obiettivi, quello di soddisfare obiettivi di welfare e quello di soddisfare obiettivi di competitività. Lezione uno di politica economica: con un solo strumento non si possono raggiungere due obiettivi.
Ci sono molti esempi su cui ragionare su questo argomento e il primo che mi viene in mente è il tema che sollevava Alessandro Profumo, quello sul lavoro e sul fatto che è molto difficile pensare di rafforzare la competitività di un Paese come l’Italia abbassando, semplicemente, il costo del lavoro.
È un’analisi che io condivido moltissimo, penso che una strada di competitività per l’Italia, attraverso l’abbassamento del costo del lavoro, sia una strada in qualche modo impoverente e suicida; ma è un’analisi che va innestata in un contesto più articolato, che è quello di come funziona la competitività del Paese, soprattutto il contesto della eterogeneità dei sistemi produttivi. In Italia ci sono imprese per le quali il discorso di rafforzare la produttività, anche magari aumentando la remunerazione del lavoro, è possibile, mentre c’è invece un’altra parte del sistema produttivo per la quale questo discorso non è possibile. Quindi l’unica leva competitiva e disponibile è quella del basso costo del lavoro e credo che il dualismo del mercato del lavoro abbia permesso a molte imprese, che non sarebbero state competitive altrimenti, di poter sopravvivere assumendo lavoratori precari e sostanzialmente a basso costo.
In realtà, quindi, queste imprese hanno in qualche modo avuto una funzione di welfare, se vogliamo, hanno sfruttato il fatto di avere a disposizione del lavoro a basso costo e sono sopravvissute sul mercato; questo ha avuto una conseguenza di welfare implicita, ma è andato a scapito della competitività della crescita di lungo periodo del Paese. Queste cose, quindi, vanno tenute presenti.
Altro esempio è la politica per la promozione della ricerca e dello sviluppo in Italia.
L’Italia ha, in realtà, molti strumenti per la promozione della ricerca; gran parte di questi strumenti sono gestiti dalle regioni. Questo porta a una frammentazione della politica sull’innovazione tale che gli organi centrali non hanno neanche le idee molto chiare di quanto e come effettivamente si spenda.
Perché, allora, dobbiamo fare così? Giustamente le regioni vogliono promuovere e difendere i loro territori; questo può essere un sano e corretto obiettivo di welfare, di promozione locale, ecc., ma che in realtà va contro una prospettiva di crescita di lungo periodo, di allocazione delle poche risorse di cui disponiamo in modo efficace ed efficiente.
Terzo esempio: l’attrazione degli investimenti esteri. Il governo ha fatto dei passi avanti da questo punto di vista, però se ne parla continuamente: «Dobbiamo avere più investimenti!». Noi abbiamo un’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti che ha pochissime risorse a disposizione per l’attrazione e, soprattutto, è innestata in un’istituzione che è Invitalia, il cui obiettivo fondamentale è la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno; benissimo, utile, però noi sappiamo che gli investimenti, generalmente, vanno soprattutto dove ce ne sono altri, vanno nelle regioni più ricche, non in quelle più arretrate.
Da un lato, dunque, dobbiamo avere degli strumenti di promozione e di sviluppo del Mezzogiorno, di cui qui il mio vicino, il ministro Barca, è il massimo esperto nazionale, dall’altro dobbiamo avere delle istituzioni separate che devono servire ad attrarre investimenti, ma che magari riescono ad attrarre investimenti in regioni più avanzate, non necessariamente del Mezzogiorno, con un uso molto più basso di risorse pubbliche.
Se noi distinguiamo questi due obiettivi, possiamo razionalizzare le nostre politiche ed essere infinitamente più efficaci, quindi due obiettivi, due strumenti, sarebbe già un passo avanti!
* Professore ordinario di Economia, Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali, Università degli Studi di Milano.
Testo non rivisto dall’autore.

Fabrizio Barca*

Vado per titoli, reagendo alle sollecitazioni messe sul tavolo, e cogliendo tre questioni.
La prima questione posta è la caduta di produttività relativa rispetto agli altri grandi Paesi. Questa caduta deriva, per definizione, da scarsa innovazione, e la scarsa innovazione deriva, a sua volta, da tre fattori: dal fatto che un numero troppo piccolo di piccole imprese diventa medio e poi grande, visto che è in questo percorso che si compie il salto di produttività; dal fatto che nel Paese c’è e c’è stato molto conflitto «di rumore» ma poco conflitto concreto, poco scontro, scontro di idee culturali, e l’innovazione nasce solo dal conflitto; terzo, sediamo in Italia – ce lo ricordava Nardozza in un bel saggio di 12 anni fa – su uno straordinario patrimonio, quindi possiamo estrarne rendite ancora per lungo tempo, e questo ci scoraggia dallo spingere nella direzione dell’innovazione semplicemente perché non siamo costretti a farlo.
C’è un secondo gap, meno discusso, importante in termini di inclusione sociale. Io lo qualifico così, è un gap di servizi di cittadinanza, è un vulnus del contratto sociale che non riguarda solo il Sud, ma che nel Sud è più grave. Una parte elevata dei cittadini italiani ha rinunziato a pretendere dallo Stato servizi essenziali che sono parte del contratto sociale e, avendovi rinunziato ed essendo tartassata di imposte, pretende beni particolari, chiede beni particolari anziché beni collettivi. La corruzione non possiamo continuare a inseguirla nelle aule dei tribunali: deriva dal fallimento dello Stato nel produrre servizi di cittadinanza.
Terza questione: lo Stato, nelle tre accezioni che avete menzionato. In primis, il debito accumulato ingessa il bilancio e continuamente, anche davanti ai più volenterosi tentativi, sposta l’attenzione delle revisioni di spesa sui tagli, trasformando complesse e importanti operazioni di rimodulazione della spesa in meri e repentini tagli. Questo è un problema perché le due cose (revisioni di spesa e tagli) sono distinte, e la loro sovrapposizione introduce una depressione permanente dei consumi e non migliora necessariamente la qualità di spesa.
Il secondo profilo della questione Stato è una PA che ha livelli di vecchiaia, di non motivazione e di autocommiserazione di proporzioni irraccontabili, più di quando vi arrivai 15 anni fa. L’Amministrazione si tiene sempre più grazie allo straordinario impegno di pochi. Ma l’eroismo non aiuta, alla lunga cede, e poi gli eroi finiscono spesso per autocommiserarsi.
Il terzo punto relativo allo Stato che colgo dagli interventi riguarda la situazione di «riforma permanente»: sono 20 anni che riformiamo questo Paese, creando incertezza per gli operatori, assai spesso senza una visione chiara circa gli obiettivi che intendiamo raggiungere, come è stato detto in un bel saggio di alcuni mesi fa di Marco Simoni della London School of Economics.
Il governo societario, ad esempio, è una delle aree dove abbiamo di certo fallito. Lo posso dire perché ci ho lavorato assieme ad altri: abbiamo fallito. Oggi il sistema delle nostre piccole e medie imprese non trova – come non trovava 15 anni fa – il modo per fare il salto dimensionale facendo confluire il capitale nelle «mani giuste». Abbiamo fallito perché non si è capito se stavamo costruendo un sistema anglosassone o un sistema tedesco, e dunque abbiamo dato vita a un Frankenstein che non tiene.
Eppure abbiamo carte straordinarie, gli spiriti animali di questo Paese. Inoltre abbiamo un tratto straordinario, la diversità territoriale, naturale e culturale del Paese. Ciò vuol dire anche potenziale straordinario di accoglienza degli immigrati. Così come abbiamo accolto per secoli – ci dice Piero Bevilacqua – i prodotti alimentari di tre continenti e li abbiamo saputi far crescere, producendo il nostro cibo. Tutto questo deriva dalla nostra capacità di governare la diversità.
Passiamo dunque alle soluzioni. Per quanto riguarda la redistribuzione del reddito, anch’io dubito che sia lo strumento per rilanciare i consumi. Eppure, quando si tratta di ridurre il debito, quello è l’unico punto di riferimento.
Sulla riduzione delle imposte, io dico che dobbiamo essere franchi e onesti. È ovvio che, se ci sono riduzioni di spesa praticabili, ragionevoli, dobbiamo realizzarle. Ma non c’è lo spazio per ridurre le imposte perché non si può ridurre significativamente la spesa. La spesa va drasticamente ristrutturata e riformata, ma il nostro Paese non spende mediamente, in termini di PIL, più di altri Paesi, salvo che in alcuni campi. Nel settore della scuola la spesa non va ridotta, ma fortemente riallocata. Nel settore dei servizi sociali della cura dell’infanzia e degli anziani va addirittura aumentata, riallocandola da settori dove operare tagli. Questa operazione si chiama «revisione della spesa», ed è operazione politica, che richiede decisioni politiche: «Levo da qua e metto là!», in base a una funzione di preferenza che sconta una visione della società.
Guardiamo poi al lato dell’offerta. C’è sicuramente un profilo di regolazione e concorrenza internazionale: garantire che tutti adottino e poi seguano le regole. Dunque la tesi «montiana» classica, il mercato unico anche per i servizi, che non è solo un modo per allearsi con gli inglesi, almeno su un tema, ma è cosa assolutamente indispensabile per noi. C’è poi un profilo di concorrenza interna – e lo dico ancora guardando Mauro Moretti – perché tu, Ferrovie, farai ancora meglio di ciò che fai, se avrai l’Autorità garante dei trasporti sbloccata: un atto del governo che non ha fatto un passo avanti in Parlamento per mesi. Per un motivo, un motivo banale, ovvero che questo Paese non sa vivere con la concorrenza.
Chiudo con tre battute ancora sui servizi. Ci sono grandi servizi, Ferrovie, Poste e Telefonia, che sono grandi servizi «nittiani», per usare un’immagine, e qui sono d’accordo – di nuovo – con Moretti, sull’idea che questi tre temi possano essere affrontati nel contesto di politiche urbane e delle città, laddove questi settori trovano la loro innervatura.
C’è, poi, il tema della ricerca: il fatto che ci possano essere in Europa, e non in Italia, solo pochi centri fondamentali di produzione di frontiera (lo abbiamo imparato discutendo in Europa!) non significa che l’adattamento di quelle tecnologie, pur prodotte in pochi luoghi, non possa avere luogo in ogni differente regione europea. È stata chiamata «Smart Specialization», ci si sta lavorando, e Francesco Profumo ha trovato una strada per lavorarci. Si tratta di un processo che va governato dal centro, distinguendo profondamente questo profilo, che è legato all’attrattività, dai profili di intervento in aree caratterizzate da crisi.
Ultimo punto, il più importante: servizi essenziali di welfare. Questa è la terza dimensi...

Indice dei contenuti

  1. Oltre la crisi. Trovare l’alba dentro l’imbrunire
  2. Colophon
  3. Premessa. Una giornata di italiadecide
  4. Relazioni
  5. Interventi
  6. Conclusioni
  7. Indice