L'uomo che guardò oltre il muro
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L'uomo che guardò oltre il muro

La politica estera italiana dagli euromissili alal riunificazione tedesca svelata da Francesco Cossiga

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L'uomo che guardò oltre il muro

La politica estera italiana dagli euromissili alal riunificazione tedesca svelata da Francesco Cossiga

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Questo libro svela un Francesco Cossiga lontanissimo dal frusto cliché del "picconatore". Per diversi anni, infatti, con discrezione e acume, Cossiga perseguì e condusse, prima come Presidente del Consiglio e poi come Capo dello Stato, una politica estera parallela a quella dei Governi e di quella ben più lungimirante. Quando ancora dominavano realpolitik e timori, il Presidente emerito, da statista quale fu, vide più lontano, intuendo prima di altri l'incipiente crollo del sistema sovietico, la riunificazione della Germania e il ruolo che il gigante tedesco tornato unito e l'Italia avrebbero potuto giocare insieme nel nuovo contesto europeo. Un'opera di diplomazia personale durata per moltissimi anni, poco nota e ancor meno compresa, che oggi può finalmente essere raccontata e valutata con serenità.

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Informazioni

Capitolo III

1. LA DIPLOMAZIA DI PALAZZO MADAMA

La situazione strategica internazionale, successiva alle dimissioni del governo Cossiga II, rimaneva sostanzialmente immutata. Le decisioni concernenti gli euromissili erano state, a più riprese, confermate dagli esecutivi successivi. Ci furono critiche, di militarismo e di eccesso di zelo verso il «grande» alleato americano ma, come ha sottolineato il Ministro della Difesa di quegli anni cruciali, Lelio Lagorio, non erano critiche fondate1. La linea di tutela della indipendenza nazionale, di attaccamento alla prospettiva di pace e di sostegno alla distensione e al dialogo venne scrupolosamente osservata. Piuttosto, in quegli anni capitò che sostenere Schmidt fosse l’assioma della politica estera italiana, seppur il Cancelliere della RFT non piacesse troppo né agli americani e neanche a molti democristiani.
L’elezione di Reagan, nel novembre del 1980, gelò il clima per qualche mese, il nuovo Presidente era pronto a portare la preparazione militare statunitense ai più alti livelli tecnologici, e questo non piaceva affatto agli europei, che continuavano a lamentare il proprio deficit nell’ambito della difesa.
Nel 1982, il primo Presidente del Consiglio repubblicano, Giovanni Spadolini, insisteva sullo «squilibrio determinatosi, specialmente nel teatro europeo, sul piano militare e strategico a seguito del massiccio potenziamento dell’arsenale sovietico»2. In tutta Europa, intanto, i movimenti pacifisti iniziarono a levare la propria voce con numerose dimostrazioni legate alla prevista installazione dei nuovi missili nucleari. Paradossalmente, il riaccendersi di un clima da Guerra fredda aveva stimolato uno sforzo italiano finalizzato a mantenere viva la trama delle relazioni con l’Est, e soprattutto con la Germania Federale, in quegli anni devastata dalle proteste dei pacifisti contro gli euromissili, di portata ben maggiore che in Italia.
La posizione atlantica della RFG non poteva che vedere negli USA il supremo garante della propria sicurezza, la Germania ospita in rapporto alla superficie territoriale il maggior numero di sistemi di arma nucleari del mondo. Con coerenza e con impegno la classe politica tedesca ha affrontato sfide dell’opinione pubblica e interrogativi sulla qualità della propria sicurezza, prima con la doppia decisione atlantica del 1979 e poi adeguandosi, sia pure con contraddizioni e incertezze, ai nuovi orientamenti strategici emersi dal dialogo sovietico-americano. […] la Germania ha da sempre paura di essere «singolarizzata». È un problema complesso, da sempre oggetto di dibattiti e negoziati, in cui, sin da Reykjavik, la RFG ha avuto la sensazione di trovarsi isolata: eppure l’interlocutore naturale sarebbe proprio l’Italia! Quella presunta singolarizzazione o, meglio, la particolare situazione della Germania è dettata dalla geografia, ineludibile, e dal fatto di non essere nucleare, due elementi da compensare con la protezione americana (esattamente come l’Italia!). Ricorrenti sono stati i timori del neutralismo tedesco, con tutto il corredo di variopinte idee di disarmo unilaterale, di eserciti strutturalmente difensivi o di sistemi alternativi di difesa. […] Troppo peso si è dato ai sommovimenti della società, compiendo ancora una volta un errore di prospettiva nel non cogliere i legami tra la normalizzazione della società e la collocazione occidentale della Germania nel suo complesso. Il pacifismo ha in Germania radici profonde e antiche, rinnovate dal senso di responsabilità per i due ultimi conflitti mondiali, riassunto icasticamente nello slogan, comune nell’una e nell’altra Germania, di «mai più una guerra sul suolo tedesco»3.
Nel 1983 Francesco Cossiga era diventato Presidente del Senato, mentre a Palazzo Chigi si insediava Bettino Craxi, che tra le prime azioni del suo esecutivo inseriva proprio la conferma delle decisioni prese nel biennio ’79-’80 dall’ex Premier Cossiga, in materia di politica estera. «Il governo […] dovrà mantenere ferme le decisioni assunte nel 1979» – affermava il 9 agosto 1983, in occasione del discorso programmatico. Il voto alla Camera, 351 favorevoli contro 219 contrari, aveva confermato e approvato l’installazione degli euromissili che, nello specifico, sarebbero stati 108 Pershing II e 464 Cruise, dislocati in cinque Stati europei (Italia, RFT, Belgio, GB, Paesi Bassi). All’aeroporto Margiocco di Comiso, in Sicilia, erano destinati 112 Cruise.
Cossiga in quegli anni si manteneva nell’ombra, svolgendo il ruolo di Presidente del Senato con mirabile discrezione, dando prova di essere un eccellente «uomo delle istituzioni». Al contempo, la sua passione per la politica estera lo portava a interessarsi, con sempre maggiore attenzione, alle questioni internazionali e in particolar modo alla situazione tedesca; aveva ben chiaro l’incomodo ruolo di «cerniera» tra Est e Ovest che la Germania doveva ineluttabilmente ricoprire. In quel periodo, c’era sul tavolo proprio la questione degli euromissili, apertasi durante i suoi governi, e Cossiga comprese che avrebbe avuto ricadute determinanti tanto sui rapporti con la RFG, quanto sul delicato e, per certi versi, ancora evanescente processo di integrazione europea. Il Parlamento italiano era scosso da accese polemiche: erano in molti all’epoca a non vedere di buon occhio il nuovo corso reaganiano. L’idea, del Ministro della Difesa Lagorio, che l’Italia dovesse darsi una più costruita e più sicura politica militare per poter svolgere un ruolo maggiore in politica estera, era da più parti condivisa; tuttavia fuori dagli ambienti politici e specializzati restava un’ipotesi velleitaria e considerata addirittura il preludio di un neonazionalismo. Perdurava poi il problema dell’Europa, ancora incapace di esprimersi con un’unica voce. «A quei tempi Francois Mitterrand, socialista e Presidente francese, quando gli chiedevano chi era il fondatore dell’Europa rispondeva: Carlo Magno. Mentre l’Italia aveva smarrito la coscienza politica di essere una Nazione»4 – rilevò sarcastico Cossiga.
«Cossiga è stato forse l’unico che ha visto e percepito il passaggio di fasi che avrebbe determinato la caduta del Muro di Berlino e come non fosse affatto scontato che si sarebbe andati avanti verso un nuovo equilibrio in nome di un irenismo che, a volte, in qualche sprovveduto è stato addirittura intrecciato con una pretesa concezione della fine della Storia». Inconfutabile il giudizio di Antonio Fazio sulle straordinarie qualità di Cossiga che, secondo l’ex governatore della Banca d’Italia, aveva percepito la portata di quegli eventi prima di molti altri. «Prima dell’89, non tutti fummo lungimiranti, credevamo di essere in una fase di passaggio alla ricerca di nuovi equilibri»5.
Così, anche dallo scanno più alto di Palazzo Madama, il Presidente esercitò il suo potere diplomatico, non rinunciando alla sua vocazione per la politica internazionale.
Il caso tedesco va inquadrato nella politica degli altri governi occidentali: per il passo dell’unificazione non stravedevano né i francesi, né i britannici e neppure gli stessi italiani. Tutti avevano compreso che sarebbe stato inevitabile, però non volevano affrettare i tempi, invece io rammento un’occasione in cui ebbi modo di far pesare la mia posizione. Ero Presidente del Senato, quando venni invitato a New York a una colazione di un club finanziario e c’erano parecchi giornalisti. Colsi l’occasione per farmi rivolgere una domanda sull’unificazione tedesca. Mi ero preparato un pezzo tra lo storico, il politico e il culturale per valorizzare il mio parere favorevole, e mi pronunciai con una risposta molto articolata e ben motivata. L’ambasciatore tedesco seppe la cosa e si rivolse subito alla sua controparte negli Usa, per farmi domandare se quello che avevano riferito le agenzie di stampa fosse vero. Rientrato a Roma l’ambasciatore di Germania presso di noi mi chiese un appuntamento portandomi i calorosi saluti di Richard von Weizsäcker, esponente di punta dell’aristocrazia liberale tedesca, e quelli di Helmut Kohl. Questo però avvenne in silenzio, dato che la posizione ufficiale della Farnesina in merito all’unificazione del Paese era, in realtà, ancora più reticente di quella di Francia e Gran Bretagna6.
In questo quadro europeo decisamente a tinte fosche, nel quale la divisione politica della Comunità Europea sulla «questione tedesca» era più che lampante, si era aggiunta la celeberrima e infelice battuta di Giulio Andreotti a una festa dell’Unità a Roma nel 1984 quando, esprimendo un parere sulla riunificazione, il Ministro degli Affari Esteri aveva sardonicamente risposto di amare talmente tanto la Germania da preferire che ce ne fossero due. Questo dopo un acceso dibattito di politica estera con Paolo Bufalini in cui non aveva mancato di rimarcare tutta la sua contrarietà alla riunificazione del Paese. Dopo l’imbarazzante episodio, che avrebbe potuto causare una frattura nelle relazioni diplomatiche italo-tedesche, la DC aveva deciso di mandare il Presidente del Senato, Cossiga, a Bonn per calmare le acque. Disse Cossiga:
Io sono stato l’unico Capo di Stato invitato alla seduta del Bundenstag riunificato nel 1990 e questo stupisce ma l’origine di quell’episodio ha un motivo ben preciso. Quando ero Presidente del Senato avevo avuto occasione di rilevare, in diverse sedi internazionali, la reticenza degli occidentali sulla eventualità di una riunificazione della Germania, ebbi la percezione, peraltro fondata, di quanto poco credessero sia l’Italia che i Paesi occidentali che i tedeschi si sarebbero potuti riunificare. E forse, devo aggiungere, c’erano dei dubbi anche sul fatto che si sarebbero dovuti riunificare. Per ciò che concerne l’Italia, ricordiamo tutti molto bene l’infelice battuta di Andreotti quando, ad una domanda sulla eventuale riunificazione della Germania, aveva detto che, siccome amava talmente tanto la Germania, avrebbe preferito che ce ne fossero due, «anzi se possibile anche tre». All’epoca, ed eravamo ancora molto lontani dal 1989, il mio partito, la DC, mi mandò a chiedere scusa alla CDU tedesca. Così, mi recai in Germania in veste di Presidente del Senato per fare una visita a quella che era allora la mia controparte a Bonn, il Presidente del Bundesrat della RFG, ovvero la Camera di rappresentanza dei Landër, Franz Josef Strauss, Ministro e Presidente della Baviera. Siccome io mi ero sempre battuto strenuamente per l’unificazione tedesca e, sia nelle sedi ufficiali che in quelle ufficiose, avevo sempre svolto un importante ruolo di mediatore, molti anni dopo, il mio collega Richard von Weizsäcker, Presidente federale, decise che l’unica persona ad essere invitata alla prima seduta del Bundenstag della Germania riunificata dovessi essere proprio io. Così, ed è un titolo di vanto personale, ho avuto l’emozione di sentire il Presidente più anziano presente in Parlamento, cioè Willy Brandt, rivolgere un saluto prima al Presidente federale e poi a me. In quell’atmosfera solenne e irripetibile sentivo di rappresentare il mio Paese e di essere lì per il mio Paese, ma percepivo che forse gli applausi dei tedeschi erano rivolti a me e al mio popolo, piuttosto che alle Istituzioni. Un riconoscimento del fatto che l’Italia, e soprattutto attraverso me, era stata favorevole alla loro unificazione7.
«La questione dell’unità tedesca è molto complessa e ha radici profonde» – secondo l’autorevole opinione dell’ambasciatore Ferraris. «Nella RFG – ha evidenziato – la libertà ha prevalso quale obiettivo prioritario sull’unità nazionale. La famosa proposta del ’52, l’ultima che avrebbe forse permesso la riunificazione, al di là della sincerità o meno dell’offerta sovietica, avrebbe creato sì una Germania unita, ma a quale prezzo? La decisone per una netta opzione occidentale garantì invece la libertà che è la condizione dell’unità, e non il suo prezzo». Ferraris ha aggiunto che «la deprecabile spaccatura della Europa passava attraverso il corpo della nazione tedesca e tutti, tedeschi compresi, erano consapevoli che l’Europa e non la sola Germania potevano risolverlo. Infatti la soluzione dell’unità tedesca era parte di un “ordine di pace europeo”: un concetto di difficile spiegazione, che comunque presupponeva il superamento della contrapposizione tra est ed ovest, in un contesto che evitasse alla Germania di dover intraprendere una sua via singolare (la Sonderweg). Il tutto si era tradotto nelle tante iniziative per rendere i confini tra le due Germanie più permeabili, ma attuato poi solo con l’attenuazione e il successivo superamento delle frontiere Est-Ovest»8.

2. COSSIGA E L’OSTPOLITIK DI PAPA WOJTYLA

Sulla caduta del Muro di Berlino più che la Santa Sede, secondo me, ha avuto un ruolo determinante Giovani Paolo II e la Polonia. Anzi, su questo non ho dubbi, anche perché delle vicende inerenti il Papa all’epoca ero ben informato. S’immagini che ogni volta che andavo in Russia o soltanto passavo per l’Unione Sovietica, per esempio per andare in Cina oppure in Giappone, papa Wojtyla voleva che al mio rientro mi recassi da lui per raccontargli esattamente, e con minuziosità di dettagli, che cosa stava succedendo al di là della cortina di ferro. Così accadde quando mi recai a Varsavia per una visita di Stato in Polonia, ed ero già diventato Presidente della Repubblica. Tuttavia, avevo conosciuto il Santo Padre quando ero Presidente del Consiglio perché, per una pura circostanza temporale, lui è stato eletto al soglio di Pietro qualche mese prima che io fossi nominato premier, poi l’ho conosciuto in veste di Presidente del Senato e infine da Presidente della Repubblica. Complessivamente l’ho incontrato cinquantanove volte, ventidue delle quali siamo stati a colazione e a pranzo insieme. Senza alcun dubbio, sono stato l’uomo pubblico che più l’ha avvicinato. Ricordo molto bene la prima volta che Giovanni Paolo II tornò nella sua Polonia da Papa. Il generale Jaruzelski non ebbe il coraggio di impedirgli il viaggio e non appena il Pontefice scese dall’aereo privato all’aeroporto di Varsavia fu accolto da una folla oceanica, composta da milioni di persone, che lo salutava agitando una piccola croce di legno. Al racconto di quell’episodio io capii che i germi della crisi erano ormai insediati in Polonia e infatti, di lì a breve, il governo di Jaruzelski iniziò a vacillare sotto la pressione delle prime scosse; subito dopo la pandemia si trasferì in Ungheria, poi in Cecoslovacchia fino ad arrivare alla DDR e quindi alla caduta del Muro di Berlino, con le imponenti conseguenze e implicazioni che ne derivarono9.
All’inizio degli anni Ottanta in Polonia tre uomini dominavano la scena: Karol Wojtyla, figlio di un ex ufficiale dell’esercito asburgico, drammaturgo e poeta; Wojciech Jaruzelski, figlio di un esponente della piccola nobiltà fondiaria e con un retaggio fortemente cattolico e patriottico; infine Lech Walesa, figlio di un falegname e cresciuto in un villaggio nel cuore di una palude. Le strade di questi tre uomini erano destinate a incrociarsi e la loro collisione avrebbe ridotto in frantumi il comunismo polacco. L’era di stagnazione, con Leonid Brežnev in Unione Sovietica, János...

Indice dei contenuti

  1. L’uomo che guardò oltre il Muro
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Introduzione di Luigi Vittorio Ferraris
  5. Prefazione di Anna Maria Cossiga
  6. Capitolo I
  7. Capitolo II
  8. Capitolo III
  9. Appendice