Capitolo III
1. LA DIPLOMAZIA DI PALAZZO MADAMA
La situazione strategica internazionale, successiva alle dimissioni del governo Cossiga II, rimaneva sostanzialmente immutata. Le decisioni concernenti gli euromissili erano state, a più riprese, confermate dagli esecutivi successivi. Ci furono critiche, di militarismo e di eccesso di zelo verso il «grande» alleato americano ma, come ha sottolineato il Ministro della Difesa di quegli anni cruciali, Lelio Lagorio, non erano critiche fondate1. La linea di tutela della indipendenza nazionale, di attaccamento alla prospettiva di pace e di sostegno alla distensione e al dialogo venne scrupolosamente osservata. Piuttosto, in quegli anni capitò che sostenere Schmidt fosse l’assioma della politica estera italiana, seppur il Cancelliere della RFT non piacesse troppo né agli americani e neanche a molti democristiani.
L’elezione di Reagan, nel novembre del 1980, gelò il clima per qualche mese, il nuovo Presidente era pronto a portare la preparazione militare statunitense ai più alti livelli tecnologici, e questo non piaceva affatto agli europei, che continuavano a lamentare il proprio deficit nell’ambito della difesa.
Nel 1982, il primo Presidente del Consiglio repubblicano, Giovanni Spadolini, insisteva sullo «squilibrio determinatosi, specialmente nel teatro europeo, sul piano militare e strategico a seguito del massiccio potenziamento dell’arsenale sovietico»2. In tutta Europa, intanto, i movimenti pacifisti iniziarono a levare la propria voce con numerose dimostrazioni legate alla prevista installazione dei nuovi missili nucleari. Paradossalmente, il riaccendersi di un clima da Guerra fredda aveva stimolato uno sforzo italiano finalizzato a mantenere viva la trama delle relazioni con l’Est, e soprattutto con la Germania Federale, in quegli anni devastata dalle proteste dei pacifisti contro gli euromissili, di portata ben maggiore che in Italia.
Nel 1983 Francesco Cossiga era diventato Presidente del Senato, mentre a Palazzo Chigi si insediava Bettino Craxi, che tra le prime azioni del suo esecutivo inseriva proprio la conferma delle decisioni prese nel biennio ’79-’80 dall’ex Premier Cossiga, in materia di politica estera. «Il governo […] dovrà mantenere ferme le decisioni assunte nel 1979» – affermava il 9 agosto 1983, in occasione del discorso programmatico. Il voto alla Camera, 351 favorevoli contro 219 contrari, aveva confermato e approvato l’installazione degli euromissili che, nello specifico, sarebbero stati 108 Pershing II e 464 Cruise, dislocati in cinque Stati europei (Italia, RFT, Belgio, GB, Paesi Bassi). All’aeroporto Margiocco di Comiso, in Sicilia, erano destinati 112 Cruise.
Cossiga in quegli anni si manteneva nell’ombra, svolgendo il ruolo di Presidente del Senato con mirabile discrezione, dando prova di essere un eccellente «uomo delle istituzioni». Al contempo, la sua passione per la politica estera lo portava a interessarsi, con sempre maggiore attenzione, alle questioni internazionali e in particolar modo alla situazione tedesca; aveva ben chiaro l’incomodo ruolo di «cerniera» tra Est e Ovest che la Germania doveva ineluttabilmente ricoprire. In quel periodo, c’era sul tavolo proprio la questione degli euromissili, apertasi durante i suoi governi, e Cossiga comprese che avrebbe avuto ricadute determinanti tanto sui rapporti con la RFG, quanto sul delicato e, per certi versi, ancora evanescente processo di integrazione europea. Il Parlamento italiano era scosso da accese polemiche: erano in molti all’epoca a non vedere di buon occhio il nuovo corso reaganiano. L’idea, del Ministro della Difesa Lagorio, che l’Italia dovesse darsi una più costruita e più sicura politica militare per poter svolgere un ruolo maggiore in politica estera, era da più parti condivisa; tuttavia fuori dagli ambienti politici e specializzati restava un’ipotesi velleitaria e considerata addirittura il preludio di un neonazionalismo. Perdurava poi il problema dell’Europa, ancora incapace di esprimersi con un’unica voce. «A quei tempi Francois Mitterrand, socialista e Presidente francese, quando gli chiedevano chi era il fondatore dell’Europa rispondeva: Carlo Magno. Mentre l’Italia aveva smarrito la coscienza politica di essere una Nazione»4 – rilevò sarcastico Cossiga.
«Cossiga è stato forse l’unico che ha visto e percepito il passaggio di fasi che avrebbe determinato la caduta del Muro di Berlino e come non fosse affatto scontato che si sarebbe andati avanti verso un nuovo equilibrio in nome di un irenismo che, a volte, in qualche sprovveduto è stato addirittura intrecciato con una pretesa concezione della fine della Storia». Inconfutabile il giudizio di Antonio Fazio sulle straordinarie qualità di Cossiga che, secondo l’ex governatore della Banca d’Italia, aveva percepito la portata di quegli eventi prima di molti altri. «Prima dell’89, non tutti fummo lungimiranti, credevamo di essere in una fase di passaggio alla ricerca di nuovi equilibri»5.
Così, anche dallo scanno più alto di Palazzo Madama, il Presidente esercitò il suo potere diplomatico, non rinunciando alla sua vocazione per la politica internazionale.
In questo quadro europeo decisamente a tinte fosche, nel quale la divisione politica della Comunità Europea sulla «questione tedesca» era più che lampante, si era aggiunta la celeberrima e infelice battuta di Giulio Andreotti a una festa dell’Unità a Roma nel 1984 quando, esprimendo un parere sulla riunificazione, il Ministro degli Affari Esteri aveva sardonicamente risposto di amare talmente tanto la Germania da preferire che ce ne fossero due. Questo dopo un acceso dibattito di politica estera con Paolo Bufalini in cui non aveva mancato di rimarcare tutta la sua contrarietà alla riunificazione del Paese. Dopo l’imbarazzante episodio, che avrebbe potuto causare una frattura nelle relazioni diplomatiche italo-tedesche, la DC aveva deciso di mandare il Presidente del Senato, Cossiga, a Bonn per calmare le acque. Disse Cossiga:
«La questione dell’unità tedesca è molto complessa e ha radici profonde» – secondo l’autorevole opinione dell’ambasciatore Ferraris. «Nella RFG – ha evidenziato – la libertà ha prevalso quale obiettivo prioritario sull’unità nazionale. La famosa proposta del ’52, l’ultima che avrebbe forse permesso la riunificazione, al di là della sincerità o meno dell’offerta sovietica, avrebbe creato sì una Germania unita, ma a quale prezzo? La decisone per una netta opzione occidentale garantì invece la libertà che è la condizione dell’unità, e non il suo prezzo». Ferraris ha aggiunto che «la deprecabile spaccatura della Europa passava attraverso il corpo della nazione tedesca e tutti, tedeschi compresi, erano consapevoli che l’Europa e non la sola Germania potevano risolverlo. Infatti la soluzione dell’unità tedesca era parte di un “ordine di pace europeo”: un concetto di difficile spiegazione, che comunque presupponeva il superamento della contrapposizione tra est ed ovest, in un contesto che evitasse alla Germania di dover intraprendere una sua via singolare (la Sonderweg). Il tutto si era tradotto nelle tante iniziative per rendere i confini tra le due Germanie più permeabili, ma attuato poi solo con l’attenuazione e il successivo superamento delle frontiere Est-Ovest»8.
2. COSSIGA E L’OSTPOLITIK DI PAPA WOJTYLA
Sulla caduta del Muro di Berlino più che la Santa Sede, secondo me, ha avuto un ruolo determinante Giovani Paolo II e la Polonia. Anzi, su questo non ho dubbi, anche perché delle vicende inerenti il Papa all’epoca ero ben informato. S’immagini che ogni volta che andavo in Russia o soltanto passavo per l’Unione Sovietica, per esempio per andare in Cina oppure in Giappone, papa Wojtyla voleva che al mio rientro mi recassi da lui per raccontargli esattamente, e con minuziosità di dettagli, che cosa stava succedendo al di là della cortina di ferro. Così accadde quando mi recai a Varsavia per una visita di Stato in Polonia, ed ero già diventato Presidente della Repubblica. Tuttavia, avevo conosciuto il Santo Padre quando ero Presidente del Consiglio perché, per una pura circostanza temporale, lui è stato eletto al soglio di Pietro qualche mese prima che io fossi nominato premier, poi l’ho conosciuto in veste di Presidente del Senato e infine da Presidente della Repubblica. Complessivamente l’ho incontrato cinquantanove volte, ventidue delle quali siamo stati a colazione e a pranzo insieme. Senza alcun dubbio, sono stato l’uomo pubblico che più l’ha avvicinato. Ricordo molto bene la prima volta che Giovanni Paolo II tornò nella sua Polonia da Papa. Il generale Jaruzelski non ebbe il coraggio di impedirgli il viaggio e non appena il Pontefice scese dall’aereo privato all’aeroporto di Varsavia fu accolto da una folla oceanica, composta da milioni di persone, che lo salutava agitando una piccola croce di legno. Al racconto di quell’episodio io capii che i germi della crisi erano ormai insediati in Polonia e infatti, di lì a breve, il governo di Jaruzelski iniziò a vacillare sotto la pressione delle prime scosse; subito dopo la pandemia si trasferì in Ungheria, poi in Cecoslovacchia fino ad arrivare alla DDR e quindi alla caduta del Muro di Berlino, con le imponenti conseguenze e implicazioni che ne derivarono9.
All’inizio degli anni Ottanta in Polonia tre uomini dominavano la scena: Karol Wojtyla, figlio di un ex ufficiale dell’esercito asburgico, drammaturgo e poeta; Wojciech Jaruzelski, figlio di un esponente della piccola nobiltà fondiaria e con un retaggio fortemente cattolico e patriottico; infine Lech Walesa, figlio di un falegname e cresciuto in un villaggio nel cuore di una palude. Le strade di questi tre uomini erano destinate a incrociarsi e la loro collisione avrebbe ridotto in frantumi il comunismo polacco. L’era di stagnazione, con Leonid Brežnev in Unione Sovietica, János...